di Roberto SGARBOSSA (foto dell’Autore)
May You Live In Interesting Times
è il titolo della 58esima Biennale di Venezia curata dall’americano Ralph Rugoff, un gioco di parole cinese usato per scongiurare periodi di crisi, incertezza politica e guerre. Per il curatore la mostra si concentra “sul lavoro di artisti che mettono in discussione le categorie di pensiero esistenti“ dove la realtà è indagata con una pluralità di punti di vista”. La mostra come al solito occupa gli spazi del Padiglione Centrale, dei Giardini con le mostre nazionali, l’Arsenale e diversi sedi nel centro storico di Venezia. Il Padiglione Italia alle Tese delle Vergini è a cura di Milovan Farronato.
Una settantina di artisti espongono i loro lavori contemporaneamente in più sedi per cercare di creare una pluralità di dialoghi e confronti. Il risultato confonde e disorienta. Accostamenti improbabili e a volte impossibili creano realtà e punti di vista molto spesso di scarso interesse. Inutili déjà vu ci fanno interrogare ancora una volta su cosa sia l’arte oggi.
Da segnalare alcuni artisti figurativi: Nicole Eisenman (1), Henry Taylor (2) e Jill Mulleady (3).
Li accomuna una visione volutamente superficiale e onirica. I loro personaggi surreali vengono ritratti in uno stile dilettantistico e antiaccademico e si muovono in una realtà banale che riassume la crisi di contenuti della nostra società odierna sempre più legata e schiava dei Socials.
Bansky, non invitato alla Biennale, si cimenta con un graffiti dove la sua eroina non brandisce più una bandiera come nel dipinto di Delacroix “La libertà conduce la gente” ma su un barcone regge una torcia segnaletica per ricevere soccorso (4).
Nato come artista dissidente, ma ormai perfettamente omologato al mercato dell’arte, usa meccanismi creativi di autocelebrazione non lontani dalle trovate pubblicitarie di Catelan e dalle pseudo iconiche creazioni di Koons e Damien Hirst, che con le loro muscolose prove di forza creano i nuovi e costosissimi status symbols dell’arte mondiale.
Vuole a tutti i costi stupire o meglio infastidire l’installazione di Ryoji Ikeda (5) che ci accoglie all’ingresso del Padiglione Centrale dandoci il non benvenuto.
Un corridoio illuminato da una luce al neon assolutamente accecante surriscalda l’aria che diventa irrespirabile e sgradevole. Il visitatore non può fare altro che allungare il passo e ripararsi gli occhi per non essere accecato dalla luce artificiale per poi rifugiarsi nella sala successiva completamente buia, minacciosa e insondabile.
E’ un’opera inutilmente aggressiva che si accosta molto bene all’istallazione di Sun Yuan and Peng Yu (6). Un trono bianco di silicone che mima il marmo è protetto dietro un recinto di plexiglass. Un tubo di plastica nero esce dal centro della seduta del trono. A intervalli regolari di alcuni minuti un getto violento d’aria compressa attraversa il tubo e lo fa muovere vertiginosamente come una frusta impazzita e omicida. Chi vorrà mai sedersi su quel trono?
La fotografia è usata da molti artisti per ritrarre volti o corpi dove i canoni di bellezza e gender vengono messi in discussione creando un triangolo emotivo tra artista modello e spettatore. Martinez Gutierrez (7) nella serie di foto Demons per Indigenous Woman
ritrae le sue modelle agghindate come divinità azteche preispaniche trasformandole in antitetiche icone, divinità maschio/femmina attualizzando miti ancestrali.
Apichatpong Weerasethakul ( 8-9), fotografo thailandese, lavora per la prima volta in Colombia per il suo progetto “Memoria”.
Nella foto Ghost Teen un uomo indossa in volto una orribile maschera che sembra stata esposta a radiazioni o forse in decomposizione. Sulla bocca traspare dipinto un ghigno sinistro, gli occhi coperti da specchianti occhiali da sole. Anche il personaggio nella foto “The Vapour of Melancholy” inquieta e confonde mentre esala un forse ultimo respiro fumoso costellato da riflessi di fuoco d’artificio, martire drogato di una realtà surrogata.
Soham Gupta (10) nella sua notevole serie di foto “Angst” immortala magistralmente diversi personaggi disadattati ed emarginati nei bassifondi di una Calcutta notturna dove individui poveri, impresentabili e a volte ripugnanti creano nello spettatore un empatico interesse umano più che antropologico.
Con l’istallazione “Old Food” l’inglese Ed Atkins (11) presenta alcuni video dove manichini umanizzati per crash test piangono con lacrime di silicone una ripetitiva disperazione artificiale. Un guardaroba di vestiti allineati affollano lo spazio di un back stage inutile, costumi di scena inutilizzati per attori di mondi virtuali.
Il padiglione della Russia (in collaborazione con l’Hermitage), forse la più interessante tra le partecipazione nazionali ai Giardini, presenta due artisti a prima vista antitetici: il regista Alexander Sokurov e l’artista teatrale Alexander Shishkin-Hokusai. Sokurov esplora con la sua artificiosa installazione il tema della separazione e riunione, narrando la parabola del Figliol Prodigo secondo i vangelo di san Luca. La famosissima tela di Rembrandt orgoglio del museo russo viene digitalmente proiettata su grandi schermi e messa a dialogare con altri video che proiettano immagini di guerra e bombardamenti pirotecnici. Contemporaneamente il quadro con la scena dell’abbraccio tra il padre e il figliol prodigo (12) viene ricreato tridimensionalmente in una ripetitiva serie di sculture creando un grande impatto scenico.
“L’idea del progetto è quella di delineare l’influenza che un museo universale, come custode della cultura mondiale, ha su un artista contemporaneo”.
Non voglio infierire ulteriormente parlando del Padiglione Italia massacrato da gran parte della critica. Invito il visitatore a passeggiare nel disarticolato labirinto della banalità dove viene riciclata Arte Povera e Transavanguardia con l’unico merito di farci ricordare la scorsa Biennale dove il Padiglione Italia con Roberto Cuoghi (con L’ Imitazione di Cristo) e Giorgio Andreotta Calò ( con La Fine del Mondo) ci avevano emozionato e fatto riflettere con due istallazioni veri e propri capolavori di grande spessore.
Per concludere non si può ignorare il progetto “Barca Nostra” (13), opera provocatoria di Cristoph Buchel, per ricordare il naufragio del barcone che nell’aprile del 2015 causò la morte di 800 migranti. Il curatore Ralph Rugoff commenta: il relitto esposto alla Biennale “Parlerà alle nostre coscienze”. Credo che questo sia più importante che interrogarci se questa istallazione possa essere o non essere Arte.
Roberto SGARBOSSA Venezia luglio 2019