di Francesco PETRUCCI
Sicuramente l’invenzione più famosa del celebre incisore Francesco Villamena (Assisi 1564 – Roma 1624) è la cosiddetta Baruffa di Bruttobuono (fig. 1), che illustra un episodio accaduto a Roma attorno al 1600, presso la villa Mattei al Celio: la violenta rissa tra due gruppi di famigli filo-francesi e filo-spagnoli, questi ultimi capeggiati dal cosiddetto Bruttobuono, capo dei “bravi” dei Mattei, che qui perse la vita.[1]
Lo stesso Giovanni Baglione nella sua biografia dell’artista umbro ricorda che
“Di suo particolare disegno ha tra molte opere […] una carta d’una baruffa di tirar de’ sassi capricciosa, e vaga”.[2]
L’incisione, datata 1601, presenta una lunga dedica a Ciriaco Mattei, la cui proprietà domina la collina sullo sfondo della movimentata sassaiola, mentre sulla destra in lontananza si riconosce il complesso di San Giovanni in Laterano con il Battistero Lateranense. L’evento, come riporta l’iscrizione, era stato celebrato anche da un gruppo scultoreo con “un Bruttobuono di peperino et un ragazzo che fanno a sassi”, eseguito da Antonio Valsoldo nel parco della villa Mattei detta “Celimontana”.[3]
Nella dedica Villamena osserva che, benchè l’opera sia di “‘bassissimo soggetto da comparire alla presenza di lei”, spera che il marchese, filo-spagnolo e protettore di Bruttobuono, non disdegni tale omaggio.
Il realismo della rappresentazione, la cronaca di un evento realmente avvenuto, il coinvolgimento di personaggi reali, i tratti grotteschi e caricaturali dei protagonisti tra popolani e gentiluomini, la veduta oggettiva di un brano della città, unitamente alla serrata costruzione disegnativa della composizione non priva di originali spunti figurativi, decretarono la fama dell’incisione.
Il suo enorme successo è testimoniato non solo dalla notevole richiesta di esemplari della stampa, di cui venne redatto anche un secondo stato senza iscrizione per meglio commercializzarla, ma anche dalle numerose trasposizioni in pittura ad essa ispirate che continuamente riemergono sul mercato nazionale ed internazionale. Il soggetto, sulla traccia del secondo stato dell’incisione (fig. 2), venne erroneamente e forse volutamente interpretato come uno scontro tra spagnoli e francesi, individuando nella figura del “bravo” (Bruttobuono) eretto al centro della scena una caricatura di Enrico IV di Borbone.
La composizione venne così a costituire una sorta di archetipo programmatico, anche per le sue presunte implicazioni politiche, assurgendo a vero paradigma iconografico per la pittura di genere popolaresco, che prese piede a Roma durante il pontificato Barberini (1623-1644), sulle ceneri del caravaggismo e da una sua costola, secondo un realismo di tradizione nordica rivolto a soggetti di vita quotidiana, talora volgari e irriverenti, non ai grandi temi religiosi o del mito.
Il capostipite di questo genere spregiudicato, come noto, è il pittore olandese Pieter van Laer, detto “il Bamboccio” (Haarlem 1599 – 1642 ca.) per le sue caratteristiche fisiche. Un soprannome che diventa un marchio di fabbrica: “bamboccianti” i suoi seguaci e “bambocciate” tale categoria di dipinti.
Si diffondono così composizioni inserite in quadri di piccolo formato, animate da molte figure in paesaggi urbani e della campagna romana, aventi come soggetto scenette di vita popolare, tra sudici interni d’osteria, decrepiti casolari rurali, strade e piazzette luride, aventi come protagonisti viaggiatori in sosta, briganti all’assalto della diligenza, mendicanti, straccioni, vagabondi, ambulanti e variegati esponenti del popolino romano, occupati in mercati, giochi, danze, feste e, come sempre all’epoca, in violente risse ove spesso ci scappava il morto.
Van Laer, documentato a Roma tra il 1625 e il 1638, diviene così il leader di una vasta compagine di artisti fiamminghi e olandesi, i cosiddetti “Bentvueghels”, la “banda degli uccellacci”, stanziati tra via Margutta e via della Croce, presso piazza di Spagna. Un’allegra e vivace congrega di pittori antiaccademici che eseguono quadri senza committenti, ma che vendono sul mercato, raggiungendo ben presto un considerevole successo anche presso i grandi collezionisti.[4]
Tornando all’incisione di Villamena, dato che niente nasce dal nulla, probabilmente questi ebbe modo di conoscere una stampa dell’incisore tedesco Hans Sebald Beham (Norimberga 1500 – Francoforte sul Meno 1550), The Peasants’ Brawl, risalente al 1546 circa (fig. 3).
Lo schema compositivo e gli atteggiamenti dei personaggi sono sostanzialmente gli stessi: dall’uomo a terra con il bastone, alla figura sulla destra con cappello, spada e braccio sollevato, che ricorda lo sgherro minaccioso con in mano un sasso che sta per colpire a tradimento Bruttobuono. La donna a terra è richiamata nell’incisione di Villamena dal ragazzo chinato a raccogliere pietre, mentre l’uomo che si copre il volto ha un corrispettivo nel misterioso personaggio, alla sinistra di Bruttobuono, che si nasconde con manto e cappello. Tuttavia la forza del disegno e la genialità delle pose tra loro concatenate, fanno dell’incisione di Villamena un vero capolavoro.
La presenza di un dipinto dal titolo Caricatura che rapresenta Enrigo IV atterrando la lega, attribuito a Villamena nel repertorio a stampa della collezione di Luciano Bonaparte del 1812 (“Villamena dip.”)[5] e nei successivi cataloghi di vendita della raccolta, avvenuta a Londra nel 1815 e nel 1816, ove sono riportate le misure affermando che Villamena avrebbe realizzato l’incisione dopo aver dipinto il quadro, hanno giustificato da parte della critica l’opinione che l’incisore, all’epoca ritenuto spagnolo, fosse stato anche pittore.[6]
August Liebmann Mayer pensò di identificare tale dipinto in un’opera rintracciata a Parigi, pubblicandola in un articolo del 1935 (fig. 4),
mentre più recentemente Maurizio Berri e Lee Bimm hanno ritenuto di correlarlo ad un ulteriore quadro di medesimo soggetto in collezione privata a Roma, che rileviamo essere precedentemente riemerso in un’asta romana di Christie’s del 1997 (fig. 5).[7]
Tuttavia entrambe le opere hanno misure e formato differente rispetto al quadro Bonaparte. A riguardo Berri e Bimm hanno giustificato tale divergenza sostenendo che il dipinto romano presenterebbe un’incisione verticale sulla sinistra, segno di una sua precedente piegatura e riduzione da quel lato, nascondendo la figura che ride “giudicata stridente con l’armonia della scena”. Ma anche questa ipotesi è contraddetta dall’accurata incisione di Filippo Pistrucci, tratta dal dipinto e pubblicata nel volume del 1812,[8] ove la composizione originale risulta di formato tendente al quadrato ma tagliata sulla destra e non sulla sinistra (fig. 6). Bisogna sottolineare l’estrema precisione di tali incisioni di traduzione nel catalogo Bonaparte, non lasciando spazio a dubbi.
D’altronde anche Gianni Papi, in un suo scritto dedicato ad un’ulteriore traduzione in pittura dell’incisione, ritiene una forzatura l’identificazione del presunto quadro Bonaparte, non superiore stilisticamente alle altre versioni, almeno a giudicare dalla riproduzione che ne viene data.[9]
Infatti le attribuzioni di opere del XVII secolo presenti in inventari del XIX devono essere sempre prese con la dovuta cautela ed un margine di dubbio, come può constatare chi abbia qualche dimestichezza con le carte d’archivio.
In ogni caso perché Villamena avrebbe dovuto realizzare un dipinto e invece di farne omaggio al suo protettore riservare a questi solo una stampa?
Giovanni Baglione, primo biografo dell’artista umbro, che conobbe e stimò personalmente, parla di un abile disegnatore e “bravo intagliatore di bulino in rame”, ma non di un pittore. Anna Grelle ha sottolineato infatti che
“Il Villamena è acclarato pittore da una tradizione tarda alla quale la critica moderna tende spesso a dare un avallo non ancora sorretto da convincenti attribuzioni”.[10]
D’altronde nel dettagliato inventario ereditario del 1626 di Villamena, oltre a circa 300 stampe, 828 disegni, sono citati 38 quadri con indicazione dell’autore, ma nessuno di essi è riferito alla mano del proprietario. Per quanto riguarda la Baruffa di Bruttobuono, in tale inventario è presente la sola incisione, elencata come Una battaglia di Bruto, ma nessun dipinto con tale soggetto.[11]
Come scrive Franca Trincheri Camiz
“Several paintings of the subject are also known, some of wich have bene attribuited to Villamena himself. There is, however, no evidence that Villamana ever painted, and it is more likely that they are copies of this highly popular and original engraving”.[12]
Condivido tale posizione e ritengo che tutte le derivazioni pittoriche della Baruffa di Bruttobuono, che divergono nei colori e con licenze nell’ambientazione, siano tratte dall’incisione e non da un prototipo in pittura che evidentemente non esisteva.
Anche i due disegni a sanguigna di Windsor Castle, Royal Collection (figg. 7, 8), giustamente pubblicati come copie dalla stampa di Villamena da Anthony Blunt e Hereward Lester Cooke,
che invece Berri e Bimm attribuiscono all’incisore, presentano un tratto pedante e calligrafico, non mostrando una qualità tale da giustificare l’autografia di un eccellente disegnatore come fu il nostro. Si tratta ad evidenza di ulteriori copie tratte dal celebre modello incisorio.[13]
Le pitture ispirate al modello di Villamena sono in buona parte riferibili ad artisti nordici e spagnoli, a dimostrazione dell’importanza che veniva da costoro attribuita al prototipo, un vero riferimento iconografico per i bamboccianti e non solo.
Persino Caravaggio nel san Giovanni che fugge con il manto gonfiato dal vento nella sua Cattura di Cristo, eseguita alla fine del 1602, denuncia l’impressione suscitata dell’invenzione villamenesca nell’uomo che si allontana sulla destra con l’ampio svolazzo del telo come una vela (Trincheri Camiz, Papi): non a caso due opere commissionate dal marchese Ciriaco Mattei.[14]
Anche Velázquez, come hanno osservato giustamente Gianni Papi e Angela Ghirardi, nella Rissa all’ambasciata di Spagna della collezione Pallavicini, eseguita a Roma nel 1630 in occasione del primo viaggio in Italia del maestro spagnolo e attribuita con il solito intuito a questi da Roberto Longhi nel 1943, mostra di conoscere l’incisione di Villamena (fig. 9).
Non a caso il quadro, pervenuto per via ereditaria ai Pallavicini a seguito del matrimonio nel 1820 tra Margherita Colonna e Giulio Cesare Rospigliosi, faceva parte in origine di tale raccolta ed era probabilmente identificabile con una delle “Due Bambocciate, di Velasco”, esposte a San Salvatore in Lauro nel 1686 dal Connestabile principe Lorenzo Onofrio Colonna.[15]
Tra le numerose derivazioni della composizione trasferite in pittura, in gran parte pedanti e calligrafiche, spicca per qualità una versione passata sul mercato antiquario spagnolo nel 2020 come “Escuela italiana XVII siglo” (fig. 10). Il dipinto proviene da una collezione privata di Madrid e reca il vecchio numero inventariale a pennello “L47”, che traspare sul retro dalla tela di rifodero.[16]
Il dipinto si caratterizza per una generale tonalità terracea, con tendenza al monocromo, vivacizzata dagli stacchi di rosso del manto dell’uomo mascherato e di Bruttobuono e di verde veronese in altre parti, evidenziando uno spiccato pittoricismo e una morbidezza materica, anche nella resa naturalistica del paesaggio. Mi sembra che la tela si possa accostare ai modi di Pieter van Laer, detto “il Bamboccio”, al confronto con varie sue opere, come l’Assalto nella foresta della Galleria Spada (fig. 11), ove la dominante cromatica è simile.
Tale dipinto, se l’attribuzione è corretta, avrebbe in questo caso un interesse programmatico di un genere poi divenuto molto in voga nella pittura del ‘600 romano, lanciato non a caso proprio da van Laer.
Per concludere ritengo sia di qualche interesse, ad ulteriore dimostrazione della fortuna iconografica del prototipo, ricordare anche altre traduzioni della Baruffa, oltre a quelle citate da Berri e Bimm, nella consapevolezza che si tratta di un elenco parziale.
In ambito museale sono note le versioni del Museo di Palazzo Venezia (ICCD, E 35148; Fototeca Zeri, n. 50281) e della Residenzgalerie di Salisburgo, mentre una redazione attribuita a Matias Jimeno si trova nel castello di Mairena del Alcor, collezione Bonsor, presso Siviglia (figg. 12, 13, 14).
Oltre a quella pubblicata da Mayer nel 1935, quando si trovava in collezione privata a Parigi, nella fototeca Zeri viene schedato un esemplare di ubicazione ignota (fig. 15. Fototeca Zeri, n. 50283) ed un altro è segnalato da Berri e Bimm in collezione privata a Roma (fig. 16), oltre al dipinto ritenuto della collezione Bonaparte.
Ha una buona qualità e grandi dimensioni, da quadreria, singolarmente per un’opera di tale soggetto e successo nordico (olio su tela, cm. 110 x 186), una redazione limitata alle sole figure, conosciuta da Federico Zeri quando comparve sul mercato antiquario fiorentino nel 1969 (Fototeca Zeri, n. 50284), riemersa in asta Farsetti a Prato il 15 aprile 2011, n. 455, e pubblicata nel 2017 da Gianni Papi quando si trovava presso la galleria Frascione di Firenze (fig. 17).[17]
Sono transitate in asta le versioni passate a Londra, Sotheby’s, 12 aprile 1972, n. 76 (fig. 18. Fototeca Zeri, n. 50282);
Liegi, Mosan, 3 dicembre 2018, n. 262 come “Ecole flamande du XVIIe siecle” (fig. 19);
Milano, Il Ponte, 18 settembre 2019, n. 810 (fig. 20);
Barcellona, Setdart Subastas, 25 giugno 2020, come “cerchia di Mattias Jimeno”, n. 35182639 (fig. 21);
Chambery, Savoie Enchères, Drouot, 22 marzo 2021, n. 71 (fig. 22).
Una curiosa variante limitata alle tre figure centrali, con l’aggiunta di una tramortita a terra e un cartiglio tenuto da un uccello, è passata in asta a Milano, Sotheby’s, il 20 novembre 2007, n. 65, come scuola veneta del XVII secolo (fig. 23).
Francesco PETRUCCI Ariccia, 6 Febbraio 2022
NOTE