di Nica FIORI
Due millenni dopo la sua realizzazione e a poco più di un secolo dalla sua scoperta, la Basilica sotterranea di Porta Maggiore ci incanta, e quasi ci abbaglia, con il bianco luminescente dei suoi raffinati stucchi, nel cui impasto era tritata della madreperla, come hanno evidenziato i restauri realizzati dalla Soprintendenza speciale di Roma, diretta da Daniela Porro.
I lavori di restauro sono in corso da diversi anni e vedono appena concluso il recupero della parete nord della navata sinistra, finanziato dalla fondazione svizzera Evergète. Un nome questo che è tutto un programma, perché nell’antica Grecia era un titolo di benemerenza (significa infatti “benefattore”), come ha ricordato nel corso della presentazione alla stampa Bertrand du Vignaud, Consigliere esecutivo di Evergète, e quindi ben si addice ai mecenati. La scelta di finanziare proprio questo restauro è legata all’unicità dell’edificio, probabile tempio di culti misterici legati all’aldilà, che ha affascinato e continua ad affascinare gli studiosi.
La Soprintendente Daniela Porro, che ha anche evidenziato l’importanza dei partner privati nel processo di tutela e valorizzazione del nostro immenso patrimonio artistico, ha così sottolineato:
“La Basilica sotterranea di Porta Maggiore è uno dei luoghi più magici e intrisi di mistero di Roma. Con la Fondazione Evergète, che opera per la prima volta in Italia, abbiamo avviato un virtuoso rapporto di collaborazione che speriamo non si concluderà con questo restauro, ma proseguirà negli anni a venire”.
La scoperta della basilica fu resa nota il 23 aprile del 1917, in seguito all’apertura di una voragine sotto un binario della linea ferroviaria Roma-Cassino-Napoli, nei pressi di Porta Maggiore. Venne così alla luce questo che è uno degli esempi più singolari e interessanti di edificio romano, sia pure di modeste dimensioni (m 12 di lunghezza per m 9 di larghezza). Lo schema è lo stesso che si ritroverà poi nelle basiliche cristiane a partire dall’età costantiniana (IV secolo d.C.): tre navate, con la centrale più grande e terminante in un’abside. L’unica differenza è che, trattandosi di un edificio sotterraneo (il pavimento è a 7,25 metri sotto il piano della via Prenestina), la luce arrivava attraverso un lucernario praticato nel vestibolo. Vi si accedeva in origine da un lungo andito discendente che si apriva in un luogo appartato, appena fuori delle mura.
Anche se nel 1917 si era nel pieno della prima guerra mondiale, a Roma ci si rese subito conto che si trattava di una scoperta archeologica sensazionale, non solo dal punto di vista artistico, ma anche per la storia delle religioni. La basilica, infatti, conserva il complesso più ricco di stucchi decorativi che il mondo romano ci abbia finora tramandato. Essi si rifanno ad alcuni motivi fondamentali della mitologia greca che dovevano avere, quasi sicuramente, un preciso significato simbolico. Francesco Fornari, già nel 1918, avanzò l’ipotesi che l’edificio fosse adibito al culto di qualche religione iniziatica legata al mondo ctonio:
“Nelle scene di ratto e di liberazione, che vi sono figurate, si può scorgere un’allusione alla sorte dell’anima liberata dai vincoli della morte e rapita nel mondo di là”.
Nel 1923 lo studioso francese Jérôme Carcopino arrivò alla conclusione che la basilica dovesse appartenere a una setta neopitagorica. Per un caso fortunato, egli si era imbattuto in un passo di Plinio il Vecchio (Storia Naturale, XXII, 20) in cui si parla dell’erba, chiamata centocapi (centum capita), la cui radice aveva la prodigiosa proprietà di rendere irresistibile per l’altro sesso la persona che l’avesse trovata e raccolta. Cosa che accadde a Faone di Lesbo, di cui si innamorò perdutamente la poetessa Saffo, che, non venendo corrisposta, si suicidò gettandosi dalla rupe di Leucade. Aggiunge Plinio che a questa storia “credono non solo quelli che si interessano di magia, ma anche i Pitagorici”. Il fatto che la raffigurazione della morte di Saffo occupa una posizione importante tra le decorazioni della basilica, situata com’è nella parte superiore dell’abside, ha fatto pensare a Carcopino che il luogo avesse a che fare con la dottrina di Pitagora.
Un punto chiave del pensiero del celebre filosofo, nato a Samo intorno al 571 a.C., era la credenza nella metempsicosi, per la quale, a seconda dei meriti o dei demeriti, l’uomo sale o scende, nelle varie reincarnazioni, nell’infinita scala degli esseri viventi, prima di giungere definitivamente a Dio. Per questo i pitagorici erano sempre tesi al superamento della loro personale esistenza, allo sviluppo armonioso dell’individuo in funzione di una crescente assimilazione alla divinità, e ciò era possibile solo seguendo particolari norme di vita, che a poco a poco avrebbero portato a una trasformazione psichica.
La scena della Morte di Saffo, la cui leggenda è stata pure cantata da Ovidio nelle Eroidi, doveva presumibilmente avere a Roma un ruolo significativo nell’iniziazione alla dottrina neopitagorica.
La poetessa viene raffigurata sul ciglio di un promontorio, con in testa un velo gonfiato dalla brezza marina; ha in mano una cetra e sembra che stia per tuffarsi nel mare sottostante, la cui decorazione in blu nel tempo è stata purtroppo asportata. Un Erote la spinge, mentre al di sotto un Tritone stende un drappo per riceverla. Assistono alla scena sulla sinistra un giovane pensoso, da identificare forse con Faone, e Apollo, dio della poesia. L’episodio sembra apparentemente in contrasto con l’etica pitagorica che non consente all’uomo di porre fine alla propria vita. Ma la morte della poetessa può essere interpretata come un rito che lei affronta con grande fede: il salto nel mare è un simbolo di rinnovamento, e in questo senso lo si ritrova in altri racconti mitologici. Del resto anche la celebre “Tomba del tuffatore” di Paestum è stata interpretata in chiave pitagorica. Saffo non esprime il dramma di chi si dà la morte volontariamente, ma è, secondo Carcopino, “il classico esempio di una rigenerazione sacramentale e morale che trasforma gli iniziati”.
Molto importante doveva essere anche lo stucco con il Ratto di Ganimede. Secondo il mito, Ganimede era un fanciullo che, a causa della sua bellezza, fu rapito in cielo dall’aquila di Zeus per fare da coppiere agli dèi. In questo modo egli, che era nato mortale, raggiunse l’immortalità. Il fatto che questa raffigurazione sia al centro della volta della navata principale non è certo un caso; essa doveva sintetizzare il significato di tutte le altre rappresentazioni, l’aspirazione a Dio di ogni seguace di Pitagora.
Un altro rapimento è raffigurato nella stessa volta, nel primo quadro partendo dall’ingresso. Si tratta di un Dioscuro che rapisce una Leucippide nel giorno delle nozze. La fanciulla, il cui corpo è tenuto quasi orizzontalmente disteso, si dibatte disperatamente agitando le braccia. Le Leucippidi erano le due figlie di Leucippo, Febe e Ilaria, che erano state promesse in spose ai loro cugini, i gemelli Idas e Linceo. Ma i Dioscuri le rapirono provocando un feroce combattimento con i due gemelli loro rivali. Nella violenza del ratto è da vedere per la fanciulla un cambiamento di stato, la perdita della verginità e la trasformazione in donna.
Molti altri sono i miti raffigurati, tra cui il Ratto di Elena, Giasone e il vello d’oro, Eracle ed una Esperide nella navata centrale, il Supplizio di Marsia nella navata sinistra e la Punizione delle Danaidi in quella destra, ma ci colpiscono anche le raffigurazioni di vita quotidiana (scuola, palestra), le scene di riti (tra cui un sacrificio campestre offerto da Baccanti) e i motivi decorativi che vanno dalle palmette ai candelabri stilizzati, dai vasi agli arredi di culto disposti su mense, dalle Gorgoni alle sfingi rampanti, dalle Oranti alle Vittorie alate (Nikai), alcune delle quali sembrano quasi anticipare lo stile liberty. Una Nike appare anche sul fondo dell’abside, tra due adoranti, a uno dei quali tende la corona.
Nel vestibolo, all’uso degli stucchi si associa la policromia degli affreschi. Una nota di colore è presente anche nell’aula per via di uno zoccolo, colorato di rosso, sopra il pavimento e una fascia ad affresco tra le pareti e la volta. Il pavimento di tutto l’ambiente è di mosaico a piccole tessere bianche; una doppia fascia nera ricorre lungo le pareti e intorno ai pilastri; alcune aree quadrangolari negli spazi fra i pilastri, ed altre nella navata centrale, sono pure delimitate da una doppia fascia nera; in queste aree dovevano essere compresi forse quadri figurati di intarsi pregevoli e una mensa sacrificale. Anche i pilastri presentano alcune incassature rettangolari, delimitate da cornici a stucco, che dovevano contenere presumibilmente lastre figurate o iscritte, fermate con grappe di ferro.
È stato ipotizzato immediatamente dopo la scoperta che la basilica appartenesse ai proprietari del terreno, che con tutta la probabilità erano gli Statili, l’importante gens che si era affermata a Roma al tempo di Augusto con Tito Statilio Tauro, console nel 26 a.C., morto presumibilmente intorno al 10 a.C. Le fonti tramandano anche il ricordo di altri membri della famiglia e in particolare i fratelli Tito Statilio Tauro, console nel 44 d.C., e Tito Statilio Tauro Corvino, console nel 45 d.C. Quest’ultimo avrebbe organizzato una congiura ai danni dell’imperatore Claudio e non si sa che fine fece (forse venne giustiziato), mentre l’altro, Tito Statilio Tauro, venne denunciato per empietà e superstitiones (pratiche magiche) e coinvolto nel 53 d.C. in un processo diffamatorio che lo spinse al suicidio. Mandante dell’accusa, tramite Tarquizio Prisco, che era stato suo legato in Africa, fu Agrippina (madre di Nerone e moglie di Claudio), che era interessata alla confisca dei terreni dei ricchi Statili. Si è pensato che fosse proprio questo personaggio, vicino agli ambienti del neopitagorismo romano, ad aver fatto costruire l’ipogeo di Porta Maggiore, che venne immediatamente abbandonato, dopo il 53, perché le pratiche che vi si svolgevano erano ormai considerate fuorilegge.
La datazione della basilica, però, sembrerebbe antecedente di qualche decennio: è possibile allora ipotizzare che sia stata realizzata in epoca augustea, forse come edificio funerario, e modificata in epoca successiva. La sua frequentazione è stata brevissima, stroncata dagli intrighi e dalle lotte per il potere che portarono, se non all’annientamento, alla decadenza della gens Statilia.
Nel vicino sepolcreto degli Statili, dove sono stati sepolti gli artigiani (servi e liberti) che lavorarono per la ricca famiglia, è stata rinvenuta anche un’iscrizione marmorea con il nome di Secundus Tarianus, che viene definito tector (nell’iscrizione si legge tetor), ovvero decoratore. Anna De Santis, direttrice del monumento, pensa che possa essere stato lui a decorare con gli stucchi la basilica ipogea, insieme ad altri, perché si distinguono più mani di artisti.
Il restauro di quest’edificio, particolarmente delicato per la sua ubicazione sotterranea, non è ancora finito: manca la navata destra e la parete sud della navata sinistra, il cui intervento è in programma per il 2020. È stato comunque presentato alla stampa il restauro appena concluso della parete nord della navata sinistra, e ovviamente è stato possibile ammirare anche i precedenti risultati, relativi al vestibolo e alla navata centrale, l’illuminazione a led, i sensori per il monitoraggio dell’ambiente e i purificatori d’aria.
L’ultimo intervento ha consentito il risanamento delle principali cause di deterioramento della parete trattata, in particolare la rimozione quasi totale delle incrostazioni calcaree, che, a causa della pregressa e ormai risolta infiltrazione d’acqua, si erano depositate sulle superfici, impedendo la leggibilità delle stesse. Si è provveduto, inoltre, a mettere in sicurezza gli intonaci distaccati dal supporto murario e i rilievi in stucco poco coesi, come pure a trattare con biocidi le parti precedentemente attaccate da microrganismi (che ora non dovrebbero più proliferare grazie agli efficientissimi depuratori).
Il tutto è stato preceduto dalla verifica e documentazione sullo stato di conservazione della parete e della decorazione, oltre ad altre operazioni preliminari come la rimozione di stuccature di cemento di precedenti interventi. Si è fatto ricorso alla strumentazione laser di ultima generazione, che permette di avere un risultato molto preciso e omogeneo, senza intaccare la superficie originale.
Tra gli interventi del passato, si ricorda nel 1951 la realizzazione di un contenitore in cemento armato con una intercapedine che racchiude completamente l’architettura antica, allo scopo di evitare i danneggiamenti dovuti alle infiltrazioni d’acqua e alle vibrazioni dei treni (oltretutto l’edificio aveva risentito anche dei bombardamenti nel quartiere San Lorenzo del luglio 1943). Successivi restauri hanno riguardato la statica dell’edificio e i danni dovuti all’acqua e all’inquinamento biologico. Di fatto la basilica è stata chiusa per lunghissimi anni e attualmente viene aperta solo la seconda, la terza e la quarta domenica del mese con visite guidate su prenotazione per piccoli gruppi (10-12 persone per volta).
Basilica sotterranea di Porta Maggiore, Piazzale Labicano, 2 – Roma
Informazioni e prenotazioni: tel +39 0639967702 www.coopculture.it