di Nica FIORI
Il culto romano della Bona Dea, tra mito, storia e archeologia
Ancora prima della nascita di Roma, alcune divinità erano di casa sui suoi colli. Tra le numerosissime leggende precedenti alla fondazione romulea, si racconta anche quella di Ercole che, al tempo del mitico re Evandro, sarebbe arrivato sulle sponde del Tevere. Qui si sarebbe scontrato con Caco, un gigante dedito alla rapina che abitava in una grotta dell’Aventino.
Dopo aver ucciso il ladrone, Ercole, sfibrato dalla lotta, andò alla ricerca di una fonte per dissetarsi e sulla strada trovò in un contesto boschivo il santuario della Bona Dea, da dove arrivavano delle risate di fanciulle. Egli chiese dell’acqua, ma la vecchia sacerdotessa della dea scortesemente lo allontanò, dicendo che la sacra fonte era riservata alle donne. Ragion per cui, quando l’eroe greco eresse l’Ara Massima nel Foro Boario, il suo culto venne interdetto alle donne, “affinché in eterno la sete di Ercole non resti invendicata”, come si legge in una elegia di Properzio (IV,7).
Ma chi era questa antica e misteriosa divinità femminile, il cui culto era caratterizzato da una rigida esclusività rituale? Il suo vero nome non poteva essere pronunciato ed era sostituito con Bona Dea, che letteralmente vuol dire “dea buona”, perché presiedeva alla buona salute e alla fertilità. Di lei sono state proposte varie identificazioni. L’erudito arcaico Cornelio Labeone la collegava a Maia (la Maia/Maiestas romana, sposa di Vulcano e madre di Mercurio), e questo spiegherebbe l’anniversario della sua festa alle Calende di Maggio, mese che trae il nome da Maia.
Nei libri dei pontefici era chiamata anche Ops, Fauna o Fatua, mentre Festo la chiama Damia, che in Grecia era una dea assimilabile a Demetra. Il nome Fauna fa subito venire in mente Fauno, l’antica divinità pastorale e oracolare del Palatino, che aveva come animale simbolico il capro.
I Romani pensavano che lei fosse la figlia di Fauno, oppure sua moglie o sua sorella. Doveva essere una donna riservata e pudica, che passava il tempo occupandosi delle faccende domestiche, senza farsi mai vedere dagli uomini. Ma il caso volle che una volta, dopo aver attinto l’acqua a una fonte, sulla via del ritorno notasse una brocca abbandonata sul ciglio della strada. La brocca era piena di vino, una bevanda che non aveva mai assaggiato: la donna, incuriosita dal soave profumo e non conoscendo gli effetti del vino, lo bevve e si ubriacò.
Quando Fauno la vide in quello stato, la batté a sangue con delle verghe di mirto, tanto da provocarne la morte. Colto poi dal rimorso, volle rimediare al danno divinizzandola. Secondo un’altra versione del mito, la donna, che era castissima, cercò di sfuggire alle avances sessuali di Fauno (che in questo caso era il padre) e allora lui la colpì con rami di mirto, la costrinse a bere del vino e riuscì alla fine a possederla dopo essersi trasformato in serpente.
La dolce Fauna, una volta divinizzata, divenne la dea simbolo del chiuso mondo muliebre, tutto legato alle eterne vicende della vita femminile, dalla castità prenuziale all’iniziazione sessuale e alla maternità. Il suo santuario principale si trovava in un bosco sacro alle pendici dell’Aventino Piccolo. Ovidio, nel V libro dei Fasti, scrive:
“È un nativo dirupo il suo luogo; la realtà ne suggerì il nome: / lo chiamano infatti Sasso, ed è parte cospicua del monte”.
È proprio dal Sasso (in latino Saxum) dell’Aventino che la Bona Dea era detta Subsaxana. Nel santuario, precluso ai maschi, erano allevati dei serpenti domestici, come avveniva anche in altri templi di dee legate alla fecondità e alla salute. In questo luogo, da situare più o meno dove ora sorge la chiesa di Santa Balbina, veniva celebrata una festa il primo maggio, e in quell’occasione si sacrificava una scrofa gravida. La data voleva ricordare l’anniversario della fondazione del tempio, che secondo Ovidio era stato dedicato da una vestale (forse si riferisce a Claudia Quinta, la stessa che aveva accolto a Roma la Magna Mater) e restaurato in seguito da Livia, la moglie di Augusto:
“Lo dedicò la erede dell’antico nome dei Clausi, / che mai aveva sopportato uomo con il virgineo corpo. / Livia lo restaurò affinché non restasse non imitato / lo sposo, ed ella lo seguisse in ogni sua iniziativa”.
Ai primi di dicembre, invece, si celebrava un culto misterico privato, riservato alle donne più influenti della città, nella casa di un alto magistrato (console o pretore), sulla quale doveva ricadere la benedizione della dea.
La cerimonia aveva luogo di notte ed era prevista l’assistenza delle Vestali; la casa prescelta veniva addobbata con tralci di vite e con altre piante e fiori, escluso il mirto. Si faceva venire il vino, che però era chiamato “lac” (latte), mentre il recipiente che lo conteneva era detto “mellarium” (vaso di miele). Tutti i maschi di casa per l’occasione dovevano allontanarsi: non era ammesso nessuno di sesso maschile, nemmeno se neonato. Gli uomini con pazienza aspettavano la fine dei riti nella casa di qualche parente, consapevoli che il divieto era sacro, perché affondava le sue radici nelle tradizioni più antiche del popolo romano. Ma Publio Clodio Pulcro osò infrangere questa regola.
La notte tra il 4 e il 5 dicembre del 62 a.C. il rito doveva svolgersi nella casa di Giulio Cesare, pontefice massimo e neoeletto pretore. La dimora era quella Regia (così chiamata perché in origine era la dimora dei re e in seguito lo fu dei pontefici massimi), i cui resti ancora possiamo vedere lungo la via Sacra del Foro Romano, vicino alla Casa delle Vestali.
In quell’epoca Clodio era un giovane di trentun’anni, agli inizi della carriera. Aspirava al tribunato della plebe e a tale scopo aveva perfino alterato il proprio nome aristocratico Claudius nella variante plebea di Clodius. Era tra l’altro fratello della bellissima e spregiudicata Clodia, più volte citata da Cicerone e da identificare probabilmente con la Lesbia cantata da Catullo.
Per quale misterioso motivo Clodio si introdusse quella notte nella casa di Cesare? Forse voleva spiare nella dimora del pontefice massimo – ma la cosa non ha molto senso perché all’epoca era in buoni rapporti con Cesare – oppure, come veniva ripetuto con insistenza, aveva una relazione clandestina con la padrona di casa Pompea? In quest’ultimo caso non avrebbe potuto scegliere un momento meno opportuno.
Cerchiamo di immaginare la scena. Il giovane, travestito da suonatrice d’arpa, passa inosservato al fioco bagliore delle lucerne, anche perché può contare sulla complicità di una schiava. Ma, durante il lectisternium, cioè il solenne banchetto così chiamato perché le immagini sacre della dea erano adagiate sui letti rivestiti di preziosi tessuti, l’austerità del rito lasciava il posto a un po’ di conversazione tra le presenti, che potevano scambiarsi le loro confidenze. Qualcuna di loro deve aver rivolto la parola al travestito, che, rispondendo, si sarebbe tradito con la voce. Subito Aurelia, madre di Cesare e suocera di Pompea, lanciò l’allarme e le presenti, troppo sopraffatte dall’orrore del sacrilegio, non riuscirono a impedire la fuga della falsa suonatrice.
La voce si sparse subito per la città. Nella dea Bona era stato colpito qualcosa di assai profondo, un sentimento sacro, antico come la città stessa. La dea Bona era stata per un seguito ininterrotto di generazioni il nume tutelare delle donne romane e delle loro virtù più tradizionali, come la castità, la maternità e l’operosità, e quindi veniva con quel gesto offesa la pietas femminile.
La vicina scadenza del mandato dei consoli non consentì che venissero presi immediati provvedimenti, ma, quando a gennaio del 61 a.C. entrò in carica la nuova coppia di magistrati, Pupio Pisone e Valerio Messalla, questi proposero una nuova legge, in virtù della quale veniva istituito un tribunale speciale che, con apposita procedura, avrebbe giudicato i delitti analoghi a quelli di Clodio.
Il primo passo lo fece Cesare ripudiando la moglie Pompea con la celebre affermazione che “la moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto”, ma questo non bastò a soffocare lo scandalo.
Il processo contro Clodio, dopo una serie interminabile di schermaglie procedurali e di pressioni politiche, si aprì nel mese di maggio. Clodio si era trincerato, fin dall’inizio, dietro un alibi, e cioè che in quella notte non si trovava a Roma bensì a Terni. Ma Cicerone, tra amici, dichiarò che quella sera Clodio gli aveva fatto visita proprio poco prima del fattaccio. Forse Cicerone non aveva intenzione di lasciarsi impelagare in una vicenda giudiziaria dagli sviluppi imprevedibili, ma le sue parole imprudenti giunsero alle orecchie di Clodio, che attaccò l’oratore chiamandolo, in tono di derisione, “colui che sapeva tutto”. L’espressione (in latino omnia comperisse) era ripresa pari pari da una delle celebri orazioni di Cicerone contro Catilina. A quel punto Cicerone ritenne di non potersi sottrarre alla deposizione contro Clodio.
Il processo finì però con l’assoluzione dell’imputato, in quanto molti giurati davanti a minacce di violenza e a ricatti vari, preferirono esprimersi per la non colpevolezza, che alla fine passò per 31 voti contro 25. Clodio, quando qualche anno dopo divenne tribuno della plebe, si vendicò di Cicerone ritorcendogli contro proprio quello che era stato il suo maggior titolo di merito, cioè la repressione della congiura di Catilina, che aveva comportato l’esecuzione sommaria di cittadini romani con una procedura al limite della legalità.
Cicerone, nel 58 a.C., fu costretto all’esilio, la sua casa sul Palatino fu rasa al suolo e al suo posto Clodio ebbe la sfacciataggine di far erigere un tempio alla Libertà.
Ma la Bona Dea, a sua volta, avrebbe compiuto la sua vendetta; la sera del 20 gennaio del 52 a.C. il cadavere di Clodio fu riportato a Roma dal senatore Sesto Fulvio che lo aveva raccolto ferito a morte sulla via Appia, vicino a Bovillae. Per uno strano caso del destino, Clodio era stato ucciso (dagli uomini del suo avversario Annio Milone, secondo quanto riferisce Cicerone nell’orazione Pro Milone) proprio sui gradini di un tempietto dedicato alla dea. Così l’onore offeso delle donne romane aveva finalmente trovato giustizia.
Ed è da un terreno di Albano Laziale, vicino ai resti dell’antica Bovillae, che proviene l’unica immagine certa della dea: una statuetta marmorea, che si conosceva da un disegno ottocentesco riprodotto nel Bollettino Archeologico Comunale, e che è ricomparsa sul mercato antiquario qualche anno fa. Come ha precisato Scarlett Matassi, responsabile dell’Ufficio stampa di Bertolami Fine Arts, la statuetta non era scomparsa, ma si trovava nella collezione di Ettore Roesler Franz (e in seguito dei suoi eredi), il celebre pittore di “Roma sparita”, morto nel 1907.
Si tratta di una scultura votiva (alta 45,6 cm), con iscrizione del dedicante, che raffigura la divinità seduta in trono, con la gamba sinistra avanzata rispetto all’altra, e con la cornucopia appoggiata al braccio sinistro. Il braccio destro, in gran parte mancante, doveva recare un altro attributo, ovvero una patera alla quale si abbevera un serpente, avvolto attorno all’avambraccio, di cui parla Macrobio nei Saturnalia descrivendo l’iconografia della dea. La figura indossa un chitone, allacciato sotto il seno da una cintura, e un mantello panneggiato. La testa non è pertinente ed è separata dal collo da una linea netta di frattura alla base del collo. È di un marmo più compatto ed è caratterizzata da una pettinatura a larghe bande ondulate, che si ritrova nei ritratti di Tranquillina, moglie dell’imperatore Gordiano III (241-244), e di Salonina, moglie di Gallieno (253-268). Il corpo, invece, sembra databile alla seconda metà del II secolo d.C.
L’iscrizione, disposta su tre righe (sulla base e sulla pedana), va letta così:
Ex visu iussu Bonae Deae / sacr(um) / Callistus Rufinae n(ostrae) actor
“In sogno, per suo ordine, Callisto, amministratore della nostra Rufina, ha consacrato (questa immagine) alla Bona Dea”.
È interessante notare che la dea era apparsa in sogno a Callisto, chiedendogli il simulacro, e il sogno è un elemento tipico delle divinità oracolari, che attraverso di esso manifestavano la loro volontà, come pure la diagnosi in caso di malattie. In effetti la dea veniva anche chiamata Fatua, nome che deriva da fari (parlare) e allude alle sue capacità divinatorie.
La statuetta doveva probabilmente essere collocata in un sacello dedicato alla dea nel podere di Rufina, sacello che potrebbe anche coincidere con quello di cui parla Cicerone a proposito della morte di Clodio, in seguito ridedicato con un nuovo simulacro. Lo schema iconografico della statuetta potrebbe riferirsi a quello di una qualunque dea della fecondità, ma l’iscrizione non lascia dubbi sul fatto che avesse a che fare con il culto di Bona e probabilmente riproduce in piccolo le fattezze della stessa statua di culto che si venerava nel santuario del Piccolo Aventino, del quale purtroppo sappiamo pochissimo, se non che si trovava in una zona del colle anticamente ricca di grotte e sorgenti.
Nonostante la ricchezza delle fonti letterarie (in gran parte legate allo scandalo del 62 a.C.) ed epigrafiche relative al culto, la documentazione archeologica sulla Bona Dea è scarsa, a eccezione di due santuari rinvenuti a Ostia antica, uno presso Porta Marina e uno in via degli Augustali, che dovevano però essere luoghi di culto privato.
Nica FIORI Roma 3 maggio 2020