di Nica FIORI
L’11 febbraio 2024 si chiude la mostra “La città del Sole. Arte barocca e pensiero scientifico nella Roma di Urbano VIII”, organizzata a Palazzo Barberini dal Museo Galileo di Firenze in collaborazione con le Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma.
A cura di Filippo Camerota con la collaborazione di Maurizio Fagiolo, la mostra, inaugurata il 16 novembre 2023, si riaggancia alla grande esposizione del 2023 che celebrava i 400 anni dall’elezione di Urbano VIII (Maffeo Barberini) al soglio pontificio e vuole ricordare, in particolare, la pubblicazione nel 1623 de “Il Saggiatore” di Galileo Galilei.
Sappiamo bene che l’osservazione degli astri e della natura è antica quanto l’uomo, ma, prima di mettere a punto strumenti scientifici come il telescopio o il microscopio, l’approccio “magico” al mondo costituiva uno dei più solidi modelli culturali. La grandezza degli scienziati del Seicento fu proprio quella di essere riusciti a liberarsi da una visione fantasiosa della realtà per acquisire quel modo di procedere nella ricerca scientifica che Galileo per primo aveva introdotto nella fisica: il metodo sperimentale. “Il Saggiatore”, pubblicato dall’Accademia dei Lincei e offerto al neoeletto Urbano VIII come dono augurale, nasce da una disputa tra lo scienziato pisano e il gesuita Orazio Grassi sull’origine delle comete e viene considerato come il trattato che pose le fondamenta del metodo di ricerca sperimentale della scienza moderna.
L’elezione di Urbano VIII, un uomo colto e interessato all’astronomia, che all’epoca significava anche filosofia naturale e astrologia, venne salutata come “mirabile congiuntura” (una congiuntura astrale raffigurata in un affresco da Andrea Sacchi nella Sala della Divina Sapienza) ed egli venne definito dai contemporanei “perfettissimo astrologo”. Pur tuttavia egli fu inflessibile con gli astrologi (ricordiamo che l’abate di Santa Prassede Orazio Morandi venne chiuso in carcere, e lì morì poco dopo, prima di subire il processo, perché aveva pronosticato la morte del pontefice per il 1630) e lo fu pure con l’astronomo Galileo, cui sembrava inizialmente legato da un rapporto amichevole, quando il Sant’Uffizio lo processò e condannò in seguito alla pubblicazione del “Dialogo sopra i due massimi sistemi” (1630), ma nel frattempo le scoperte di Galileo avevano acceso un dibattito che vide impegnati i maggiori protagonisti dei tre poli scientifici di Roma, il Collegio Romano dei Gesuiti, l’Accademia dei Lincei e il Convento dei Minimi a Trinità dei Monti.
Il percorso esositivo si snoda, pertanto, tra i lavori degli scienziati appartenuti a queste istituzioni (oltre a Galileo e a Orazio Grassi, ricordiamo Athanasius Kircher e Cristoph Scheiner), in un intreccio creativo con gli artisti più celebrati della Roma barocca, tra cui Andrea Sacchi, Gian Lorenzo Bernini e Francesco Borromini.
Il titolo della mostra sembra richiamarsi al libro La città del Sole di Tommaso Campanella, il filosofo che Urbano VIII aveva liberato dalla prigionia (era stato processato più volte dall’Inquisizione romana) e accolto nella sua corte. Il libro, pure pubblicato nel 2023, descrive un modello utopistico di stato gerarchico guidato dal Sole e sembra ispirarsi al governo assolutistico dello stesso pontefice, che non a caso scelse il Sole come immagine araldica da associare alle api barberine. Del resto le api sono un esempio di monarchia assoluta, con a capo l’ape regina, che comanda una struttura sociale radiocentrica.
Sono proprio le api a denominare le tre sezioni del percorso espositivo, diviso in Apiarum I, ovvero api scienziate, osservatrici del cielo, Apiarum II, api euclidee, misuratrici del tempo e Apiarum III, Api architette, edificatrici della “Città del Sole”.
La mostra è molto complessa e l’allestimento in ambienti scuri non favorisce la lettura delle didascalie, ma per fortuna è possibile approfondire ciò che sfugge a un primo sguardo grazie a una guida bilingue (italiano-inglese) e a un ricco catalogo, entrambi in coedizione Museo Galileo e Sillabe.
Sono in mostra un centinaio di opere, tra dipinti, disegni, incisioni, libri e strumenti vari (alcuni originali e altri ricostruiti) che ci spiegano soprattutto la storia dell’ottica e dell’astronomia, a partire dal telescopio di Galileo (replica dell’originale, Museo Galileo, Firenze), realizzato in pelle, legno, carta e vetro.
Il telescopio è stato definito nel passato come “lo strumento che ha cambiato il mondo”: un’espressione non esagerata, visto che le osservazioni fatte da Galileo a partire dal 1609 produssero una vera e propria rivoluzione sul piano religioso, filosofico e antropologico. Fu proprio l’ingegno dello scienziato pisano a trasformare in uno strumento raffinato un oggetto curioso venduto all’epoca come giocattolo. Si trattava dei cosiddetti “occhialetti olandesi” che permettevano, grazie a un paio di lenti sistemate alle estremità di un tubo, di ingrandire gli oggetti di due o tre volte. La felice intuizione di Galileo fu quella di puntare il nuovo strumento verso il cielo, dopo averlo perfezionato in modo da ottenere un ingrandimento di oltre trenta volte, che gli permise di compiere le prime osservazioni ravvicinate del cielo. Attraverso il telescopio Galileo potè osservare la Luna (sono in mostra suoi disegni delle fasi lunari) e le fasi di Venere, scoprire i quattro satelliti orbitanti intorno a Giove (Io, Ganimede, Europa e Callisto) e le macchie solari. Queste scoperte fornirono la prova osservativa della correttezza del sistema eliocentrico copernicano, ma costrinsero anche lo scienziato a doversi difendere dall’accusa di eresia.
Dal punto di vista artistico è particolarmente interessante l’affresco (riprodotto in una grande copia fotografica) del 1612 della Donna dell’Apocalisse di Ludovico Cigoli, un artista amico di Galileo, dal tempo in cui a Firenze erano stati entrambi allievi del matematico Ostilio Ricci, che teneva lezioni di geometria e prospettiva.
L’affresco venne realizzato tra il 1610 e il 1612 nella Cappella Paolina della basilica di S. Maria Maggiore, su commissione di Paolo V Borghese. L’iconografia è tratta dall’Apocalisse, come aveva chiesto il pontefice:
“Nella cupola si dipingerà la visione dell’Apocalisse cap. 12, cioè una donna vestita di sole, sotto i piedi la luna, intorno al capo una corona di dodici stelle. Incontro San Michele Arcangelo in forma di combattente. Intorno le tre hierarchie distinte ciascuna in tre ordini: sotto a basso esca un serpente con la testa schiacciata, come al capo 3 del Genesi. Intorno li dodici Apostoli”.
Secondo moltissime interpretazioni teologiche, la donna che calpesta il serpente allude alla Madonna che vince sul male ed è da questa visione che deriva la tradizionale iconografia dell’Immacolata che, pur con diverse varianti, nei suoi elementi essenziali è rimasta immutata. Le dodici stelle simboleggiano le tribù d’Israele, come pure i dodici apostoli, il serpente rappresenta il maligno sconfitto, la veste bianca con il mantello azzurro è un simbolo di purezza. Più complesso è il significato della luna, simbolo della purezza della Madonna e, allo stesso tempo, dei cambiamenti del mondo. Si potrebbe anche pensare ad una mutuazione dalle immagini di alcune dee dell’antichità, raffigurate con il crescente lunare. La chiesa vedeva la luna come astro incorrotto, con la superficie liscia, ma il Cigoli la raffigurò come la descrisse Galileo nel Sidereus Nuncius (1610), ovvero con rugosità, montagne e crateri, evidenziando così, all’interno di una chiesa papale, l’operato dello scienziato che anni dopo sarebbe stato denunciato al Sant’Uffizio per le sue idee astronomiche.
Nella seconda sezione, dedicata alla misurazione del tempo, ci colpiscono gli studi degli orologi solari di Teodosio Rossi e perfino un suo modello in ottone dorato del 1587, inciso da Bonifacio Natale, l’orologio notturno di eccezionale fattura di Giuseppe Campani del 1660 e un disegno dalla Perspectiva horaria di Emmanuel Maignan, il matematico dell’Ordine dei Minimi di S. Francesco di Paola, che realizzò due orologi solari catottrici nel convento di Trinità dei Monti e nel palazzo Spada, attuale sede del Consiglio di Stato, entrambi sul tipo a galleria, con le linee disegnate sulla volta e sulle pareti. Di grande interesse sono le Tavole sciateriche di Athanasius Kircher del 1636 (museo INAF, Roma), che costituiscono una testimonianza della sua visione cosmogonica, basata sulla conoscenza della gnomonica degli orologi solari. Si tratta di quattro tavole realizzate in ardesia e splendidamente dipinte, dense di dati astronomici.
Un tempo come gnomoni (aste la cui ombra serve a segnare le ore nelle meridiane) venivano usati anche degli obelischi, come nel caso della Meridiana di Augusto nel Campo Marzio, il cui obelisco è ora collocato nella piazza di Montecitorio, e in mostra vi sono alcuni riferimenti agli obelischi conservati a Roma, uno dei quali si trovava spezzato nel giardino di palazzo Barberini, e per esso Bernini aveva elaborato un progetto di elefante portaobelisco (ca. 1632, Windsor, Royal Collection Trust). Progetto che sembra ispirarsi a un disegno dell’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna e che egli utilizzò poi per la celebre scultura di piazza della Minerva. L’obelisco è un simbolo solare e pertanto è perfetto per la Città del Sole di Urbano VIII: una città realizzata da un alveare allegorico di artisti edificatori, cui si devono i più celebri capolavori architettonici della sua epoca.
Nella terza sezione grande rilievo viene dato ai disegni di Borromini, relativi al palazzo della Sapienza (l’antica Università, ora sede dell’Archivio di Stato) con l’annessa chiesa di Sant’Ivo, che ricorda nella forma l’ape barberiniana e ai disegni per il Baldacchino di San Pietro, tra cui quello esecutivo della trabeazione del Baldacchino (1625, Windsor, Royal Collection Trust) sul capitello della colonna a spirale, realizzato ad acquerello, che raffigura al centro proprio un sole raggiante con le sembianze di un volto umano.
Oltre a Borromini, anche Pietro da Cortona s’ispirò alle api, o meglio all’alveare del Re delle Api (come veniva chiamato Urbano VIII), in un progetto di palazzo con celle ottagonali, mentre Francesco Contini concepì per Taddeo Barberini un casino triangolare al centro di un giardino esagonale a sua volta inscritto in un quadrato: il cosiddetto Triangolo Barberini di Palestrina. Triangolo, esagono e quadrato definiscono anche il nucleo centrale del progetto allegorico di Palazzo Barberini come “organum sapientiae”, ideato dal sacerdote Orazio Busini.
Particolarmente interessanti per il loro legame con la scienza nella stessa sezione sono le pitture anamorfiche. Per anamorfosi s’intende un’illusione ottica molto diffusa in età barocca, il cui scopo potrebbe essere quello di osservare l’opera da un unico “punto di vista”, per farci capire che dobbiamo liberarci dalla condizione di apparenza e di falsità che potrebbe trarci in inganno. Si ricordano in particolare gli affreschi del convento di Trinità dei Monti (San Francesco di Paola raccolto in preghiera di Emmanuel Maignan e San Giovanni evangelista nell’isola di Patmos di Jean-François Niceron, entrambi del 1642.
Considerando che il matematico e teologo francese Jean-François Niceron e padre Maignan appartenevano all’Ordine dei Minimi di San Francesco di Paola, quell’unico punto di vista allude presumibilmente alla consapevolezza che solo una è la verità, e questa verità coincide con la visione di Dio. Ma allo stesso tempo, come per un mirabile paradosso, “tutto l’artificio e la bellezza della pittura risiedono nell’inganno”, come si legge nel trattato di Niceron La Perspective curieuse, magie artificielle des effets merveilleux de l’optique par la vision directe, pubblicato nel 1638 e poi ripubblicato in edizione ampliata in latino nel 1646 come Thaumaturgus opticus.
Per gli affreschi di Trinità dei Monti si parla di anamorfosi diretta (che si rivela ponendosi in un preciso punto del pavimento), ma Niceron, sulla scorta dei precoci esperimenti del celebre pittore francese Simon Vouet (Parigi 1590 – Parigi 1649), realizzò anche alcune anamorfosi circolari osservabili solo tramite uno specchio cilindrico (anamorfosi catottriche), come nel caso del Ritratto anamorfico di San Francesco di Paola e del Ritratto anamorfico di Luigi XIII, entrambi del 1635 ca. (olio su tela, 50 x 66,7 cm). Luigi XIII di Borbone (1601-1643) era re di Francia e di Navarra dal 1610 e venne rappresentato a mezzo busto con l’armatura da parata dalla quale fuoriesce un elegante colletto merlato.
Di Simon Vouet è l’incisione raffigurante Otto satiri ammirano l’anamorfosi di un elefante (1625-27 Darmstadt, Hessisches Landesmuseum), la cui scena raffigurata si svolge presumibilmente in un giardino romano. Anamorfosi di questo genere furono collezionate da Francesco Barberini ed è forse per questo che la Galleria ne conserva alcune, normalmente non esposte al pubblico.
Le anamorfosi rientrano nel programma scientifico per Villa Pamphilj di E. Maignan (1644-45, Volume Miscellanea dell’Archivio Spada ora nell’Archivio di Stato), nel quale leggiamo:
“Nel muro della loggia, che guarderà mezzogiorno, overo nell’uno, e l’altro lato, che risguarderanno all’oriente, et all’occidente, si faranno altre figure secondo il gusto del Sig.r Card.le, le quali con l’ausilio della prospettiva mostrerano un’altra persona, e si potranno mettere, o collocare due statue sopra le sue basi di qua e di là nel mezzo del Portico, che tenghino un’occhiale in mano con tal dispositione, che guardando con detto ochiale si vedino diverse altre figure Nel portico posto à settentrione tanto nell’altezza della volta, quanto da tutte due le bande, si potranno dipingere con l’arte di misurare con specchi figure tali, che non apparischino a chi guarderà per il diritto, ma solamente a chi guarderà con specchi cilindrici, quali siano non d’ord.ria ma di straord.ria grandezza”.
Questa mostra, proprio per questi approfondimenti su diverse curiosità scientifiche, tra le quali potremmo ricordare anche quelle legate all’acustica, ci appare come una sorta di Wunderkammer che richiama uno dei protagonisti della Roma barocca, quale è stato il già citato padre Kircher, che nel Collegio Romano aveva realizzato un vero museo di mirabilia. Essendo estremamente eclettico, egli si cimentava in tutti i campi del sapere, con un approccio creativo che lo portava a ideare o a perfezionare strumenti scientifici già esistenti, e allo stesso tempo a raccogliere e collezionare innumerevoli curiosità scientifiche e reperti archeologici. Ricordiamo, in particolare, tra le sue molteplici invenzioni anche l’antenato del megafono, da lui chiamato “tromba stentorofonica”. Nella sua Musurgia universalis (un trattato sul tema della forza e degli aspetti meravigliosi di consonanze e dissonanze) egli elabora l’idea di Dio come costruttore di organo e insieme organista, e istituisce un parallelo tra i sei giorni impiegati per la creazione e i sei registri di un organo cosmico. Un disegno in mostra, tratto dalla Musurgia universalis, ci colpisce particolarmente perché illustra un tubo cocleato che doveva servire per creare l’illusione delle “teste parlanti”, ovvero quelle teste di statue che apparentemente davano l’impressione di parlare, ridere e perfino muovere gli occhi.
Nica FIORI Roma 21 Gennaio 20924
“La città del Sole. Arte barocca e pensiero scientifico nella Roma di Urbano VIII”
Gallerie Nazionali di Arte Antica
Palazzo Barberini, Via delle Quattro Fontane 13
Orario: da martedì a domenica, ore 10 – 19. Fino all’11 febbraio 2024