di Massimo FRANCUCCI
Gli enigmi della collezione Poletti
Nei giorni scorsi si è aperta presso la Galleria Corsini di Roma una mostra curata da Paola Nicita e dedicata alla collezione Geo Poletti, pittore e collezionista, venuto a mancare nel 2012.
Si tratta di una proficua collaborazione, quella tra i suoi eredi ed il museo, che permette di far dialogare le opere raggruppate nel Settecento dal cardinal nepote di Clemente XII, Neri Corsini, che si era affidato al gusto di Giovanni Gaetano Bottari, con la raccolta novecentesca di Poletti, particolarmente interessato al filone naturalista seicentesco e al genere della natura morta che proprio alla metà del secolo scorso cominciava a vivere i suoi anni di fortuna più intensi.
Un interesse questo non precoce, dato che la sua iniziazione alla pittura era iniziata con Mario Sironi, prima che altri artisti influissero sul suo stile, tra i quali Boccioni, De Chirico, Martini e, soprattutto Francis Bacon, nonché credo, Ennio Morlotti. Sarà l’incontro e il continuo confronto con grandi storici dell’arte e conoscitori, in primis, Testori, ma anche Francesco Arcangeli, Roberto Longhi, Carlo Volpe e Arbasino, che lo ha definito “il miglior conoscitore milanese della pittura italiana del Seicento”, a indirizzare il suo gusto collezionistico al vero seicentesco, con una passione per le opere di qualità, ma spesso inestricabili rebus attributivi, come questa esposizione tiene a confermare.
Se non è passato molto dalla mostra di Palazzo Reale a Milano, la prima occasione di ammirare le tele dedicate alla natura in posa è solo con la presente esibizione che si espongono al pubblico alcune opere di figura, pronte a relazionarsi con dipinti presenti nel palazzo di via della Lungara. Il confronto più serrato è di certo quello dedicato al Pescivendolo che sventra una rana pescatrice di cui sono esposte tre delle quattro versioni note, essendo l’altra, dopo un passaggio in asta, di ubicazione sconosciuta.
Si tratta di una serie di tele di mano diverse ma di chiaro ambito napoletano, il cui prototipo sembra essere la tela di collezione Corsini, sia per la qualità sostenuta, sia per il tratto che lascia ipotizzare una datazione leggermente più antica delle altre, conservate a Varsavia e, appunto, nella collezione Poletti.
Nessuna proposta convincente è stata formulata sugli autori delle tele – sono stati fatti i nomi di Caravaggio, Cagnacci e di Orazio Fidani – che si tende ora a inquadrare in ambito napoletano, in particolare quella Corsini mi sembra realizzata da un pittore della stretta cerchia giordanesca. Probabilmente il dato pittorico o lo sguardo languidamente indagatore che coglie il soggetto intento a sezionare il pesce preparandolo per la cucina non bastano a spiegare la fortuna della composizione e vi è infatti la possibilità di ipotizzare che ad essere ritrattato sia il rivoluzionario partenopeo Masaniello, protagonista della rivolta antispagnola del 1647 che, pescatore come il padre, aveva un banco del pesce al mercato di Napoli. Dopo la sua morte la sua immagine aveva subito una subitanea damnatio memoriae al quale quest’opera potrebbe essersi sottratta, oppure, ancor più probabilmente, potrebbe essere un ritratto immaginario.
Nella sala del Caravaggio emerge prorompente il naturalismo messo a nudo dal “maestro della Maddalena Briganti”
un nome appena coniato per il dipinto esposto che da quella collezione era transitato per il Getty Museum e lì riferito allo spagnolo Antonio Puga, sulla base di una scritta non più visibile sul retro della tela. Sfuggente come questo autore, è possibile che la tela abbia un’origine spagnola, come proposto in mostra, in un ambito influenzato da Velazquez che tanto affascinava Poletti, ma sarebbe al momento incauto proporre nulla di più stringente.
Meno problematico ma non meno affascinante è il Democrito del giovane Ribera che, come ipotizzato sempre da Papi, andrà identificato col “villano che ride e tiene una carta in mano scritta con diversi libri soprauna tavola” attribuito allo Spagnoletto nell’inventario di Vincenzo Giustiniani del 1638. Il pittore spagnolo vi tradisce la precoce adesione al naturalismo caravaggesco dipingendo, fingendolo per filosofo greco, un ‘villano’ colto dal vero e connotato dagli oggetti descritti con un fare proprio della natura morta.
È proprio in questo genere che la collezione Poletti dà il suo meglio, col precoce dipinto di Baschenis, riconosciuto al pittore da Carlo Volpe, sebbene considerato in prima battuta opera della maturità e riportato a date più precoci da Marco Rosci.
In sintonia con una certa pittura di genere spagnola, la disposizione ancora un po’ acerba dei frutti non può nascondere la piena comprensione da parte del pittore orobico della Fiscella del Caravaggio e della sua capacità di superare il piano meramente ottico e analitico degli incunaboli lombardi di natura morta della fine del Cinquecento verso esiti di più vivo sentimento.
E caravaggesche sono due belle e fascinose tele di collezione Poletti qui messe a confronto con una sfavillante natura morta Corsini in cui il tema della luce e dell’ombra appare direttamente ispirato ai modi del pittore lombardo. E lo stesso si dica per il Catino di fiori di Bernardo Strozzi, sicuramente la prova più riuscita tra i dipinti qui riferiti al prete genovese, che risalta con la sua fresca e libera pennellata, chiaramente veneta, ravvivata da brani di colore acceso. Con questi virtuosismi il pittore dà forma al vaso e conferisce una vitalità nuova ai bei fiori che fanno mostra di sé dispiegati di fronte ai nostri occhi.
È davvero incredibile la distanza di intenti che separa questo dipinto da un altro apice della mostra, anch’esso prodotto in laguna, o giù di lì, ossia la Natura morta con testa di maiale di Giacomo Ceruti. Appartenuto a Testori, che lo ha reso noto, il dipinto è stato assegnato da Mina Gregori alla produzione del pittore che ricade proprio a ridosso del soggiorno veneziano accertato al 1736. Vi si osserva una certa consentaneità col piacentino Felice Boselli, specialista del genere, sul piano pittorico, ma nel Pitocchetto le capacità di intervento sulla tela sono tutte al servizio del suo sguardo lucido e spietato spalancato sulla realtà nella quale ricercare un vero ostentato nella sua drammatica quotidianità. È questo un intento programmatico perseguito con coerenza dal pittore sia alle prese con i suoi ritratti degli emarginati, sia con la sincerità delle cose in posa.
Sono questi i sicuri apici di una collezione ricca di incognite, di misteri da svelare, di occasioni per allenare l’occhio attento del conoscitore che con la natura morta ha la possibilità mettersi alla prova giungendo alla radice della pittura fino a comprendere che “tanta manifattura gli era a fare un quadro buono di fiori come di figure”.
Massimo FRANCUCCI Roma 27 ottobre 2019