di Francesco PETRUCCI
Finalmente ha visto luce, dopo circa quarant’anni di instancabili ricerche e continui approfondimenti, il monumentale lavoro di Enzo Borsellino La collezione Corsini di Roma, pubblicato in due ponderosi volumi da Edizioni Efesto. Sebbene la pubblicazione porti la data dicembre 2017, problematiche editoriali e il manifestarsi della pandemia ne hanno impedito sino ad oggi la promozione e la distribuzione.[1]
L’opera verrà presentata presso l’Accademia dei Lincei il 9 marzo 2022, con interventi di Maria Barbara Guerrieri Borsoi, Paolo Carpentieri, Salvatore Settis e Alessandro Zuccari.
Si tratta di un’imponente ricerca di filologia archivistica e storico-critica, tesa a ricostruire in ogni dettaglio la storia della collezione romana dei principi Corsini, formata in prevalenza dai cardinali Neri senior (Firenze 1614-1678), Lorenzo, poi papa Clemente XII (Firenze 1652 – Roma 1740. Fig. 1), e soprattutto Neri Maria (Firenze 1685- Roma 1770), oltre alcune integrazioni ottocentesche.
Tale collezione, con atto di straordinaria generosità e coscienza civica verso la nuova nazione appena formata, fu donata nel 1883 dal principe Tommaso Corsini (Firenze 1835 – Manciano 1919), che fu sindaco di Firenze e senatore del Regno, allo Stato Italiano, dopo il pubblico acquisto del palazzo Corsini alla Lungara.
Un’impressionante raccolta, ora in parte dispersa in diverse sedi, tra dipinti (606), sculture (100 circa), mobilia (67), libri (la Biblioteca Corsiniana dei Lincei), disegni e incisioni (il Fondo Corsini del Gabinetto Nazionale delle Stampe, oggi Istituto Nazionale per la Grafica), costituente la più imponente donazione di opere d’arte e beni culturali mai offerta all’Italia sino ad oggi.
Tale atto di liberalità, come noto, è all’origine della costituzione nel 1895 della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Roma, oggi divisa tra le sedi di palazzo Corsini e palazzo Barberini.
Peraltro la casata fiorentina ancora possiede una cospicua raccolta di opere d’arte, da sempre autonoma rispetto a quella romana, in buona parte conservate a Firenze, nello splendido palazzo Corsini al Parione con affaccio monumentale sul Lungarno.
In effetti i Corsini, dopo i Farnese nel XVI secolo, sono tra le poche grandi famiglie papali dell’aristocrazia italiana a poter vantare due principali dimore – oltre a numerose ville e casali -, in due diverse capitali preunitarie, Firenze e Roma, con le rispettive ingenti e distinte collezioni di opere d’arte.
D’altronde il legame tra le due città ha sempre caratterizzato la storia della famiglia, che vantava numerosi incarichi pubblici nella capitale pontificia sin dagli inizi del XVII secolo, accogliendo indistintamente nelle proprie residenze opere di scuola romana e di scuola fiorentina, oltre che di altri ambiti culturali.
Ricordiamo, tra l’altro, che nell’avita dimora sull’Arno è confluita nel XIX secolo una parte della collezione Barberini, a seguito dei matrimoni tra le sorelle Anna e Maria Luisa Barberini, nipoti di Francesco principe di Palestrina (1772-1853), con i fratelli Tommaso e Pierfrancesco Corsini, rispettivamente nel 1858 e 1863.
Una collezione privata, quella fiorentina, che ancora accoglie capolavori, come il giovanile ritratto di monsignor Maffeo Barberini di Caravaggio (fig. 2), che riportai all’attenzione degli studi dopo la perentoria negazione di Roberto Longhi – credo per rivalità con Lionello Venturi, il quale lo aveva reso noto -, riferendolo a Pietro Fachetti, artista di cultura tardo-manierista e di tutt’altro linguaggio, oltre che di ben più modesto spessore. Il quadro, dopo la mostra caravaggesca del 1951, non era stato più accessibile al pubblico per volontà dei principi Corsini, ma, paradossalmente, come mi riferirono i proprietari in una mia visita alla dimora fiorentina del 7 aprile 2006, nessuno studioso aveva mai chiesto di prenderne visione dopo il veto longhiano.[2]
Naturalmente l’imponente messe di notizie raccolte da Borsellino, con documenti in buona parte inediti estratti dall’archivio ancora presso la famiglia, non costituisce l’unico contributo sulla collezione, integrando le indagini in merito ad alcuni inventari di Giuseppina Magnanimi (1980) e Maria Letizia Papini (1998), le specifiche messe a fuoco su numerosi dipinti da parte dell’ex direttore Sivigliano Alloisi, compresi apporti più recenti.
Ma il lavoro dello studioso romano, già professore di museologia presso l’Università degli Studi di “Roma Tre” e attualmente docente del Master di Tutela e Valorizzazione dei Beni Culturali presso la medesima università, assorbe e ingloba criticamente tutti gli studi precedenti, fornendo un quadro esaustivo della raccolta, esteso ai passaggi ereditari, ai restauri, alle dispersioni, arrivando sino ad oggi.
Borsellino analizza per la prima volta in maniera esaustiva anche la collezione di sculture e reperti antichi, di cui era stata in precedenza ipotizzata addirittura una provenienza della collezione di Cristina di Svezia (G. De Luca, 1976), già proprietaria del preesistente palazzo Riario, che invece sappiamo essere stata acquistata nel 1692 da Livio Odescalchi e venduta dai suoi eredi nel 1724 a Filippo V di Spagna.[3]
L’autore è stato tra l’altro benemerito protagonista del salvataggio della collezione, che, secondo uno maldestro e pernicioso progetto della Soprintendenza (2006), doveva essere rimossa dalla sede per la quale è nata e che l’ha ospitata per secoli, la maestosa dimora progettata da Ferdinando Fuga alla Lungara (figg. 3, 4, 5), per essere accorpata alla eterogenea quadreria di palazzo Barberini, altra sede della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Roma, allo scopo di creare una specie di Louvre romano (!).
Ma Roma, che ha già il più impressionante museo del mondo, i Musei Vaticani, non ha bisogno di mega musei, perché è tutta un museo, compresi i tanti palazzi e le sue infinite chiese, che sono espressione di arte totale, non contenitori di opere d’arte disposte secondo criteri classificatori, ad uso e consumo degli storici dell’arte!
Peraltro le sedi museali romane, ospitate in palazzo storici spesso più importanti delle opere che contengono (vedi palazzo Barberini), dovrebbero essere allestite come si arredano le dimore nobiliari, non come involucri asettici, ma con disposizioni a quadreria e inserti calibrati di mobilia, se disponibili (non si potrebbero acquistare, se mancano?).[4]
Invece assistiamo ad allestimenti minimalisti totalmente avulsi dal contesto, con pochi quadri disposti su un’unica fila, pareti dipinte di bianco come nosocomi, sul modello di musei del Texas o dell’Arizona. Centinaia di opere, compresi veri capolavori, restano così permanentemente in deposito per mancanza di spazi! (figg. 6, 7, 8, 9).
Ma questo è un altro discorso, che mi sembra interessi poco all’attuale gestione dei beni culturali, vista la riforma che ha annullato il sistema capillare di tutela territoriale precedente, ove i musei erano in rapporto osmotico con i contesti di appartenenza e non monadi autosufficienti e autoreferenziali.
Tornando all’eccellente lavoro di Borsellino, lo studioso pone sicuramente con questa sua fatica una pietra miliare negli studi sul collezionismo e mecenatismo, oggi tanto in voga dopo le avanguardistiche aperture di Francis Haskell (1962), distinguendosi per stringente coerenza metodologica e raro rigore filologico. Un modello da seguire anche per le vaghe idee di allestimenti museali in dimore storiche che circolano.
Francesco PETRUCCI Ariccia 2 gennaio 2022
NOTE