di Sergio ROSSI
In alcune delle scene degli affreschi quattrocenteschi della Cappella Sistina, tutte tra l’altro dipinte da Sandro Botticelli, con andamento circolare e quasi a mo’ di puzzle, in modo che non tutti dovessero coglierne i precisi rimandi storici, si dipana un racconto drammatico e incalzante, come un moderno thriller, dei coevi avvenimenti storici culminati con l’assassinio di Giuliano dei Medici. Mi sono già occupato della questione in tre miei saggi (citati in bibliografia) ed ai quali rimando per ulteriori approfondimenti ed i necessari riferimenti bibliografici, in particolare dei fondamentali studi di Maurizio Calvesi ed Heinrich Pfeiffer. In questa sede, per mantenere viva la necessaria suspense del racconto, proverò a mettere in continua relazione gli affreschi ed i coevi avvenimenti (direi quasi di cronaca), che li hanno ispirati.
All’inizio del suo pontificato papa della Sisto IV della Rovere era in ottimi rapporti con il giovane Lorenzo il Magnifico; ben presto però, per una serie di vicende che non possiamo qui riepilogare, i rapporti tra i due si deteriorarono irreparabilmente, tanto che Sisto affidò la cura delle finanze pontificie alla famiglia fiorentina più ostile ai Medici, quella dei Pazzi. Questi ultimi, insieme all’arcivescovo di Pisa Salviati e altri nobili fiorentini ordirono presto una congiura con l’obiettivo non solo di rovesciare i Medici, ma addirittura di ucciderli. Sisto IV era solidale con questa coalizione e con la sua finalità politica, ma non voleva che si arrivasse ad uno spargimento di sangue omicida.
Cosa che invece avvenne la domenica del 26 aprile del 1478, quando l’arcivescovo di Firenze Riario Sansoni officiò in S. Maria del Fiore, luogo in cui i Medici si sarebbero recati senza armi, una messa solenne: alla cerimonia religiosa erano presenti i due giovani signori di Firenze e i congiurati, tra cui due preti ingaggiati come sicari, Stefano da Bagnone e il vicario apostolico Antonio Maffei da Volterra, oltre naturalmente ai capi dei ribelli, Francesco de’ Pazzi e Bernardo Bandini.
Ed ecco che nell’affresco botticelliano con le Tentazioni di Cristo notiamo, sulla sinistra in primo piano, tre persone riccamente abbigliate e che parlano tra loro in modo ravvicinato (fig.1). In particolare quella sull’estrema sinistra tiene in mano un oggetto allungato, che ad una più attenta analisi ci appare inconfutabilmente come un pugnale; si tratta di figure assolutamente non pertinenti con la scena rappresentata e cioè con La purificazione del lebbroso e pertanto esse devono alludere a qualcosa di diverso, che molto probabilmente solo in pochi dovevano immediatamente percepire; e questo qualcosa non poteva che essere proprio la congiura dei Pazzi, come da Pfeiffer giustamente intuito.
I tre personaggi prima descritti sono dunque, da sinistra a destra, Francesco de’ Pazzi, raffigurato appunto con un pugnale in mano e pronto a colpire; l’arcivescovo di Pisa Francesco Salviati e Jacopo Bracciolini, cioè proprio i tre congiurati che, come vedremo subito, vennero impiccati il giorno stesso della congiura fallita a metà.
Ma tornando al fatidico aprile del 1478 in Santa Maria del Fiore: nel momento in cui il cardinale Riario sollevò l’ostia si consumò il vero e proprio agguato e mentre Giuliano cadeva in un lago di sangue sotto i colpi del Bandini, Lorenzo, accompagnato da Angelo Poliziano e dai suoi scudieri Andrea e Lorenzo Cavalcanti, veniva ferito solo di striscio dai preti prima citati e riusciva a riparare in sacrestia, mettendosi definitivamente in salvo. E di tutto questo troviamo ancora una volta puntuale riscontro nei nostri affreschi, anche se dobbiamo spostarci a quello noto come “Mosé e le figlie di Jetro”. Secondo Pfeiffer nella figura dell’ebreo ferito alla testa al margine destro del dipinto si può cogliere un preciso riferimento a Giuliano de’ Medici ed al suo assassinio, ma in realtà allo studioso gesuita sfugge un dato di fondamentale importanza.
Proprio nella zona dell’affresco suindicata, infatti, è rappresentato quasi alla lettera quanto accadde quel fatidico 26 aprile del 1478 nella cattedrale di Firenze. In primo piano abbiamo un giovane che sta per essere assassinato a colpi di spada e appena più dietro un altro giovane ferito che, sorretto da una figura femminile, riesce a mettersi in salvo riparando nell’edificio posto alle sue spalle. Giuliano pertanto, contrariamente a quanto pensa Pfeiffer, è da identificarsi nell’egiziano che sta per essere colpito a morte da Mosé, mentre Lorenzo, le cui fattezze (capelli neri, scuri e leggermente ondulati) coincidono per altro con quelle del fratello, è l’ebreo che sta per mettersi in salvo (fig.2).
Interpretazione condivisa di recente anche da Michele Nigro, che identifica giustamente la figura femminile vestita d’azzurro come la Vergine Maria o “Salue Regina”, provvidenziale salvatrice.
Ma cosa accadde realmente dopo il sanguinoso attentato? Quando Jacopo de’ Pazzi, arrivò in Piazza della Signoria al grido di “Libertà”, la reazione popolare fu in effetti opposta a quella che lui si attendeva, perché il popolo fiorentino si dimostrò schierato completamente a favore dei Medici e contro i congiurati, che furono tutti catturati e in qualche caso addirittura linciati dalla folla inferocita. Francesco de’ Pazzi, Jacopo Bracciolini e l’arcivescovo di Pisa Francesco Salviati furono impiccati sul momento; mentre i due preti che si erano rivelati degli incapaci sicari vennero catturati pochi giorni dopo e linciati dalla folla prima di essere giustiziati in piazza della Signoria ormai tumefatti e senza orecchi. Pochi giorni dopo anche Jacopo e Renato de’ Pazzi furono uccisi, mentre Bernardo Bandini, riuscito a fuggire a Costantinopoli, fu catturato e messo a morte anche lui, anche se solo il 29 dicembre del 1479.
E dove troviamo l’ennesimo riscontro visivo di tutto ciò, anche se nessuno prima di me vi aveva mai pensato?
Nell’affresco, sempre botticelliano, della cosiddetta Punizione di Core, Datan e Abiron. Ebbene in questa scena tre congiurati vengono puniti con la morte, perché la terra si apre ai loro piedi inghiottendoli (fig.3).
E se nessuno finora, e tanto meno Pfeiffer, ha mai messo in relazione questo dipinto con gli altri da noi presi in considerazione è perché tutti i critici, pur cercando precisi collegamenti storici con l’atto di ribellione descritto, hanno sempre ritenuto che quest’ultimo dovesse essere rivolto contro Sisto IV e che quindi Core, Datan e Abiron fossero da identificare con quanti (per esempio l’arcivescovo slavo Andrea Zamometich) avessero in qualche modo messo in dubbio l’autorità del Pontefice o ne avessero addirittura chiesto la rimozione.
Ma così facendo hanno del tutto ignorato quanto è scritto a caratteri cubitali sul frontone del tempio che compare in bella vista proprio al centro dell’affresco sistino (fig.4): NEMO SIBI ASSUMMAT HONOREM NISI VOCATUS A DEO TANQUAM ARON (Nessuno si arroghi alcuna autorità se non chiamato da Dio come Aronne).
Colui che si è arrogato un diritto che non gli competeva, cioè punire con la morte tre ribelli che pure si erano macchiati di una indubbia colpa, è Lorenzo il Magnifico e non certo papa della Rovere, che a più riprese e anche pubblicamente si era sempre dichiarato contrario, almeno in via di principio, alla pena di morte, anche in occasione della congiura dei Pazzi:
«Io non voglio la morte de niun per niente, perché non è offitio nostro aconsentire alla morte de persona; e bene che Lorenzo sia un villano e con noi se porte male, pure io non vorria la morte sua per niente» e ancora «io ti dico che non voglio la morte di alcuno, ma soltanto un cambiamento di governo e che si strappi il governo dalle mani di Lorenzo poiché egli è un villano e un uomo malvagio, che non ha alcun riguardo per noi».
Ben presto però, dopo varie ed alterne vicende che non posso qui analizzare nel dettaglio, la riconciliazione tra i Medici ed il Della Rovere era diventata improcrastinabile, sia per salvaguardare l’unità interna dell’Italia, ma soprattutto per fare fronte al pericolo sempre più imminente che andava assumendo la minaccia turca. Perché ciò avvenisse era però necessario che i fiorentini si dimostrassero disposti ad accettare alcune condizioni poste dal papa e a chiedere il proscioglimento dell’interdetto che nel frattempo li aveva colpiti: e il 25 novembre 1480 giunse a Roma un’ambasceria composta dai rappresentanti delle famiglie più nobili di Firenze, con in testa proprio il giovane Lorenzo.
Il 3 dicembre i legati fiorentini comparvero nell’atrio della basilica di S. Pietro, dinanzi al Pontefice e al collegio cardinalizio, si prostrarono a terra, confessarono le loro colpe nei confronti della Chiesa e del suo capo supremo e chiesero perdono per sé stessi e per il loro popolo.
Anche questo episodio è raffigurato nel ciclo sistino, esattamente nell’affresco delle Tentazioni di Cristo, proprio quello da cui siamo partiti, dove gli ambasciatori sono appunto ritratti al centro della scena e tra essi è ben riconoscibile lo stesso Lorenzo nel personaggio con veste blu, maniche gialle e cappello rosso piumato in mano (proprio dietro il gran sacerdote al centro dell’affresco) nell’atto di inginocchiarsi accanto all’altare dell’olocausto e di chiedere umilmente perdono (fig.5). Ed è da notare come egli appaia molto più giovane di come non fosse in realtà a quella data.
Secondo Pfeiffer (e Nigro) però, con il suo affresco Botticelli ha girato le accuse. Non sono i fiorentini ma il papa e la sua famiglia ad avere bisogno di purificazione. Naturalmente noi non condividiamo queste ultime osservazioni, del tutto incompatibili con una spiegazione logica degli affreschi, tutti tesi a dimostrare proprio la superiore “umanità” e “cristianità” di Sisto IV e non certo a denigrare il committente degli stessi. Ma per meglio motivare il nostro assunto dobbiamo ancora una volta confrontare le due scene che hanno per tema le rispettive Conturbatio, di Mosé e di Cristo.
Mentre quella botticelliana si chiude in modo cruento, con la morte di tre ribelli, così come nella realtà si era conclusa la Congiura de’ Pazzi, in quella peruginesca, come spiegato a suo tempo da Calvesi:
«Cristo offre la vita per liberare dalla morte anche i propri nemici e quindi il pontefice, che di Cristo è il rappresentante, non può condannare a morte nessuno, neanche chi si rivolta contro di lui. Ed è proprio grazie al perdono di Gesù, al suo generoso sacrificio, che l’umanità peccatrice può redimersi e “risorgere”, così come simbolizzato dall’edificio ottagono che campeggia solenne nello sfondo della Consegna delle chiavi».
D’altra parte è la logica prima che qualsiasi dotta analisi iconologica a dirci che Sisto IV non avrebbe mai permesso che in un ciclo di tale enorme importanza e visibilità comparisse un così preciso riferimento alla Congiura dei Pazzi se non per dichiararsene completamente estraneo. Dunque, lungi dal criticare o addirittura deridere il Pontefice questi affreschi sono interamente tesi ad assolverlo da ogni complicità in quegli eventi e ad esaltarne piuttosto le qualità di equilibrio e lungimiranza.
Sisto si propone infatti come nuovo Salomone, anzi a questi superiore per devozione e saggezza politica, quest’ultima messa in pratica anche nel “perdono” da lui concesso alla fine a Lorenzo il Magnifico nel nome di una necessaria pacificazione: e non è certo un caso se proprio perdono e misericordia siano le parole chiave usate da Sisto IV (non ci importa quanto sinceramente) per delineare la sua politica e con essa tutta la visione ideologica che ha ispirato il ciclo sistino.
Comunque, con queste mie precisazioni, io non ho mai inteso sostenere l’estraneità del Della Rovere alla Congiura dei Pazzi, ma solo che questa era la tesi ufficiale che egli naturalmente voleva che si facesse trapelare e che alla fine lo stesso Lorenzo aveva dovuto accettare. D’altro canto anche il Magnifico veniva decisamente riabilitato, come è logico che fosse in delle pitture che egli stesso aveva contribuito a realizzare: innanzi tutto era riuscito ad imporre (e che l’idea sia nata da lui io sono assolutamente convinto) che nei dipinti sistini comparisse un preciso riferimento al tentativo di omicidio che aveva dovuto subire in quel fatidico aprile del 1478 ed al quale aveva sì reagito in modo eccessivo, ma macchiandosi al massimo di quello che oggi verrebbe definito come “eccesso colposo di legittima difesa”; anche di questo, però, egli si era poi pentito chiedendo grazia al pontefice e ottenendo da Sisto IV una piena assoluzione. In tal modo il suo atto di sottomissione al Della Rovere non poteva essere in nessun modo tacciato di viltà ma doveva apparire anzi come un gesto di lungimiranza politica.
Sergio ROSSI Roma 29 marzo 2020
Bibliografia