di Carla GUIDI
“Creatività, libertà e identità” in Convegno
Roma, al Convegno Nazionale ANS (Associazione Nazionale Sociologi) del 12 dicembre scorso, in collaborazione con la Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia e Comunicazione, UniRoma1 “Sapienza” sul tema “Libertà e diseguaglianze sociali” l’intervento della street artist Ale Senso su “la creatività come ricerca identitaria”.
Sono stata invitata dal giornalista e Presidente dell’ANS Pietro Zocconali (chiuderà questo articolo il suo intervento) a relazionare sulla tematica del Convegno, trovando idoneo introdurre il discorso sulla libertà creativa dell’artista e le ripercussioni sociali di un tipo di intervento pubblico come quello dell’attuale “Arte Urbana”, ovvero Street Art. Per citare l’antropologo Ugo Fabietti possiamo dire che la storia dell’umanità è sempre stata accompagnata da un continuo processo di costruzione di confini e del loro continuo sconfinamento, come forma di creatività, di emancipazione e di simbolizzazione linguistica, rappresentativa metaforica della nostra umanità.
L’attuale Street art cittadina porta l’arte fuori dai musei, ma è anche una forma ancestrale di figurazione, rivisitata con nuovi presupposti. Così gli artisti che si sentono nel pieno possesso della loro funzione di interpreti-catalizzatori dello spirito del tempo, ritrovano un nuovo Habitus dell’essere in tempi di “società liquida”, di metamorfosi digitale, di fantasie postumane e “pulsazioni ipermoderne”. Dalle grotte dipinte della preistoria, dove si svolgevano rituali forse magici per favorire la caccia, o dove si veneravano dei e defunti, con funzione di coesione e di identità di gruppo, adesso nelle città le pitture murali possono funzionare come cifre trasgressive auto/promozionali, oppure come espressioni politiche di critica sociale o forme di valorizzazione storica di identità del territorio. In tutti i casi gli artisti, per proteggere la propria identità, utilizzano nomi d’arte o nickname.
Si ottiene così una forma di libertà creativa ma anche un compromesso che permetta l’inserimento di questi artisti in un circuito professionale pubblico, retribuito o sovvenzionato dagli stessi cittadini che fungono da mecenati e committenti privati. In questo modo l’arte uscita dai musei diventa pubblica, andando a creare un ponte tra disuguaglianze sociali, tra centro e periferie, andando bonificare anche zone abbandonate o problematiche da recuperare, con opere visive godibili da tutti, ricreando una identità storica locale ed un rispetto. Ho ritenuto idoneo dare direttamente la parola alla street-artist Ale Senso riguardo la sua esperienza.
(Alessandra Odoni all’anagrafe, ma figura emblematica come artista internazionale. Immagini e notizie in dettaglio sul sito https://www.alesenso.it )
Sono un’artista urbana e questo termine è ormai entrato nel linguaggio corrente, ma quando ho iniziato le cose erano diverse. Nella mia provincia nebbiosa del nord venivamo chiamati graffittari, vandali, sporcamuri, secondo alcuni eravamo dei murales, altri passandoci accanto mentre dipingevamo, non potevano evitare di urlarci dall’auto “Ma vai a lavorare!” Adesso è diverso, l’anno prossimo festeggerò i miei trent’anni di attività con una mostra personale che sto organizzando proprio a Ponte S. Pietro, dove abitavo all’epoca. Le cose cambiano, spesso prendendo strade che non avremmo mai immaginato, pensate che da bambina volevo fare l’archeologa, ma questa è un’altra storia.
Tornando all’arte urbana, a cambiare non è stata solo la percezione di questa forma d’arte da parte del pubblico, ma l’arte urbana in sé. Prima di addentrarmi nell’argomento penso sia necessario fare una breve premessa: il mondo dell’arte urbana è ed è sempre stato molto variegato e popolato da sensibilità anche molto differenti, quindi quanto sto per dire riflette solo il mio punto di vista, la mia storia personale e professionale, visibile con l’aiuto delle foto allegate a questo testo. Fatta questa premessa considero tre fasi dell’arte urbana; quella delle origini, molto di nicchia e malvista – una fase di assimilazione da parte del sistema capitalistico – quella odierna in cui la street art è, con le dovute distinzioni, parte del sistema a tutti gli effetti.
A metà degli anni ‘90 sia gli artisti urbani, per lo più graffiti writer, sia il pubblico di appassionati che li seguiva afferivano alla subcultura hiphop assieme ai DJ, agli MC (rapper) e ai breaker (ballerini di break dance. Una pletora di iniziative collettive autoorganizzate, in massima parte Jam, si svolgevano prevalentemente nei fine settimana, perché si dava per scontato che durante la settimana gli artisti fossero impegnati con lo studio o col lavoro. I curatori di queste iniziative erano a loro volta artisti o giovani appassionati particolarmente intraprendenti, per partecipare bastava una telefonata e anche se i muri a disposizione erano esauriti, gli organizzatori uno spazietto da qualche parte spesso lo trovavano. L’idea di chiedere preventivamente un bozzetto, di indicare un tema da sviluppare o di imporre la firma di una lettera di assunzione di responsabilità, per quanto si sarebbe dipinto, nemmeno sfioravano le menti delle persone coinvolte (nemmeno quelle degli amministratori pubblici che concedevano gli spazi dove dipingere). Il principio era solo di conoscersi. stare insieme, fare festa e confrontarsi sportivamente mostrando di cosa si fosse capaci.
Il movimento aveva una fortissima identità di gruppo ma, allo stesso tempo, chi ne faceva parte era decisamente stimolato a trovare una propria identità ed ad affermarla davanti agli altri, sviluppando le proprie tecniche e un proprio stile personale che avrebbero portato al riconoscimento del merito da parte degli altri e, con esso, alla possibilità, ad esempio, di accedere a muri più impegnativi. È importante sottolineare che in questa fase la libertà di espressione, sia sulle superfici autorizzate che, ovviamente, su quelle “spontanee” (per usare un eufemismo) era totale, anche la critica sociale era capillarmente diffusa. La seconda fase, “l’assimilazione”, può essere collocata temporalmente nella seconda metà degli anni 2000, così è possibile identificare uno spartiacque nelle mostre “Street Art Sweet Art” presso il PAC di Milano nel 2007 e “Scala Mercalli” presso l’Auditorium Parco della Musica qui a Roma nel 2008.
Come spesso succede a chi vive una trasformazione, molti di noi non si resero conto di quanto stesse accadendo e io stessa uso il termine “assimilazione” col senno di poi. La percezione era che, finalmente, il mondo dell’arte si stesse aprendo all’arte urbana riconoscendone l’importanza. Le istituzioni museali organizzavano mostre e sempre più gallerie e curatori di arte contemporanea iniziavano ad interessarsi di street art. Questo implicava anche un drastico incremento del fatturato del settore; se prima erano più o meno tutti ben disposti a dividersi le quattro noccioline a disposizione, ora che da spartirsi c’erano delle vere torte, emergeva la competizione commerciale. Il riconoscimento del merito iniziava a spostarsi all’esterno del gruppo a causa della progressiva importanza assunta dagli operatori istituzionali, commerciali (gallerie, curatori) e informativi (nasce una stampa specializzata al posto delle fanzine autoprodotte).
Per motivi che varrebbe la pena di approfondire si diffuse nel largo pubblico l’idea che il graffiti writing fosse stato e restasse sostanzialmente vandalismo, mentre la street art era vera arte. Il movimento si sfilacciava sotto i colpi della concorrenza commerciale e della caduta di attenzione per il collettivo a vantaggio del singolo, di pari passo identificarsi in un gruppo sempre meno riconoscibile diventava un’impresa. Piccola nota personale: fu proprio in questo momento che decisi di trasferirmi a Berlino, alla ricerca di un contesto ancora aderente allo spirito originario del movimento, solo per assistere allo stesso fenomeno anche lì, fino al punto che constatai che il famoso Street Art Museum altro non era che un’imponente operazione di gentrificazione. Ebbi però l’occasione di vivere i momenti più pionieristici dell’arte urbana nei paesi dell’ex blocco sovietico, grazie ai numerosi progetti ai quali avevo preso parte.
Iniziò in questa fase una compressione della libertà di espressione con l’affacciarsi di temi a cui attenersi e di minacciosissime lettere di assunzione di responsabilità (cose che venivano dai più ancora percepite come assurdità, ma non rifiutate, per poter dipingere), di conseguenza si ridusse la possibilità di portare avanti una libera ricerca artistica e, con essa, la ricerca della propria identità.
Giungiamo così alla terza fase, quella odierna, in cui la street art è parte integrante del sistema. Le istituzioni pubbliche dai municipi fino all’Unione Europea finanziano lautamente il settore, ma impongono temi che discendono direttamente dalle rispettive agende politiche, con la certezza che troveranno sempre candidati disposti a svilupparli, anche perché nel frattempo un numero impressionante di artisti contemporanei si è precipitato sui muri, alcuni col rispetto per la storia del movimento, ma la maggior parte completamente incurante, se non ignara di ciò che è stato. Nascono corsi di street art puramente tecnici, ben diversi dai laboratori dove gli urban artist (spesso di lungo corso) introducono giovani e appassionati al mondo dell’arte urbana, nei quali accanto alla tecnica, si racconta la storia del movimento e si cerca di trasmetterne lo spirito.
Oggigiorno il riconoscimento del merito è quasi completamente esterno al circuito degli artisti, la valutazione è nelle mani di committenti, operatori commerciali e informativi (troppo spesso animati da logiche che con l’arte hanno poco a che vedere) e del pubblico (limitatamente al poco significativo seguito sui social). Infatti capita troppo spesso di assistere a quello che un tempo si sarebbe chiamato “spreco di un muro” per la manifesta incapacità dell’artista cui è stato assegnato, di gestire una superficie troppo estesa o difficile. Piccola nota: in un campo in cui l’esperienza è fondamentale per poter portare a termine, con successo, progetti di una certa complessità, non si comprende come, soprattutto a livello istituzionale, si impongano sempre più spesso limiti di età per la partecipazione ai bandi. Viene quasi il sospetto che più che favorire le nuove leve si voglia escludere le vecchie. Alcune jam, per lo più organizzate da graffiti writer, ancora resistono, ma la maggior parte hanno ceduto il passo a festival caratterizzati da una forte selezione degli artisti (quando non a “partecipazione solo su invito”), tematiche spesso prestabilite dall’istituzione che finanzia l’iniziativa e pre-approvazione dei bozzetti.
Colgo l’occasione per chiarire che un tema prestabilito non sempre implica una limitazione della libertà di espressione, molto dipende dalla volontà e capacità dell’artista di svilupparlo in modo tale da esprimere ciò che si vuole. Dell’identità di gruppo di una volta non è rimasto gran che, resta qualche residuo tra gli artisti “storici” e nel graffitismo. L’arte urbana come strumento di ricerca di un’identità personale resta appannaggio di un numero relativamente esiguo di artisti, per la maggior parte si dovrebbe forse parlare di “brand identity” finalizzata al successo commerciale. Anche la critica sociale ha subito pesantemente e fin troppo spesso viene soppiantata dal politicamente corretto più banale.
Ci tengo a evidenziare che ho intenzionalmente posto l’accento sugli aspetti che trovo più critici perché, come dicevo, esistono ancora sacche di resistenza. Anche tra gli organizzatori di eventi sia istituzionali che privati, ci sono persone animate dal vecchio spirito o che, quantomeno, lasciano agli artisti un’ampia libertà di espressione.
All’inizio, da adolescente, avevo bisogno di una identità di gruppo e accettare che il mio mondo subisse profondissime trasformazioni, è stato dannatamente difficile. Oggi, adulta, non posso fare altro che prendere atto della realtà, ma la tensione a ritrovare le dinamiche di un tempo permane e in fondo, devo ammettere a me stessa che anche se non scrivo più il mio nome da molto tempo, io sono nata artisticamente e rimarrò per sempre nell’animo una graffiti writer.
Per chiudere, riportiamo il testo del Presidente Pietro Zocconali sulla parola libertà.
Libertà: dal latino Libertas, in francese Liberté, in spagnolo libertad, in portoghese Liberdade, in rumeno Libertata; in un altro etimo, probabilmente dalla parola sassone Fria = fioritura, derivano l’inglese Freedom e il tedesco Frehiheit; un’ultima citazione, a significare la libertà, la parola greca Eleutheria, che era una dea, come la romana Libertas.
Noi tutti sappiamo che l’assoluta libertà di un essere umano è una chimera poiché immancabilmente questa cozza contro la libertà degli altri esseri umani coi quali conviviamo; la libertà quindi risulta essere assolutamente un compromesso, a meno che un uomo non vada a vivere su un’isola deserta, a contatto con la sola natura.
Per far comprendere la difficoltà del concetto di libertà, voglio riportare un pensiero di Immanuel Kant che sembra scritto da un comico dei nostri giorni: “La donna diventa libera col matrimonio; ma l’uomo perde la sua libertà”(1); vorrei sapere a fine ‘700, qual era il concetto di libertà in Kant, uno dei più importanti filosofi dell’intera umanità, e soprattutto cosa pensava delle donne. Voglio ora riportare alcuni pensieri sul concetto di libertà, espressi da importanti pensatori di tutti i tempi, iniziando dal nostro vate per eccellenza:
“Libertà va cercando, ch’è si cara / come sa chi per lei vita rifiuta”(2); Dante Alighieri, 1310 ca; “La vera libertà è più preziosa che l’oro e l’argento”(3); Girolamo Savonarola, 1490 ca. Arriviamo ora alla fine del ‘700, ai tempi delle rivoluzioni e della nascita delle moderne nazioni europee: “Io non so qual via seguiranno gli altri; ma, quanto a me, datemi o la libertà o la morte”(5); il politico statunitense Patrick Henry;
1775 “Libertà, diletto della mia vita, senza di te il lavoro è un tormento e la vita una lunga morte”(6); il francese Pierre Paul Proudhon, 1846; “Il diritto di non essere oppresso, stremato, torturato dalla tirannide dei pochi o dall’invasione straniera è, nel cuore di tutti, un diritto sacro, imprescrittibile” (7); Giuseppe Mazzini, 1850 ca.
Per arrivare ai giorni nostri: Maura Gancitano e Andrea Colamedici, filosofi e scrittori italiani(8), in “La società della performance” (2018), così hanno scritto: “La libertà si conquista nella capacità di essere cittadini informati e attivi. Non si è liberi se si è soltanto liberi di consumare. Si è liberi se e solo se si è liberi di partecipare, di costruire attivamente il mondo che si abita. Di prendersi la responsabilità di giocare sul serio a essere umani.” D’altronde, questi ultimi concetti li aveva espressi Giorgio Gaber in una canzone di Gaber/Luporini del 1972: La libertà (9). “La libertà non è star sopra un albero / Non è neanche avere un’opinione / La libertà non è uno spazio libero / Libertà è partecipazione”. Ma, insomma, cos’è la libertà? E’ la possibilità che abbiamo di compiere una qualsiasi azione senza che vi siano ostacoli: sarebbe troppo bello, se così fosse.
Quali possono essere gli ostacoli: abbiamo già detto che non si può ledere la libertà altrui; ci sono, infine, gli impedimenti dovuti ad ostacoli naturali, quelli di natura psicologica e quelli dettati dalla morale di ognuno di noi, che ci consigliano almeno di ubbidire alla nostra coscienza.
– 1. Immanuel Kant, dal Junggesellenbrevier di F. Voneisen.
– 2. Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio, I; anno 1310 ca.
– 3. Girolamo Savonarola, Reggimento degli Stati; anno 1490 ca.
– 4. Francesco Guicciardini, Storia d’Italia, anno 1540 ca.
– 5. Patrick Henry (politico statunitense), Speech, 1775.
– 6. Pierre Paul Proudhon, Contradictions économiques; 1846.
– 7. Giuseppe Mazzini, Opere, anno 1850 ca, pubblicato nel 1939.
– 8. Maura Gancitano e Andrea Colamedici, La società della performance, 2018,
– 9. Giorgio Gaber, “La Libertà”, di Gaber/Luporini 1972.
Carla GUIDI Roma 15 Dicembre 2024