di Chiara GRAZIANI*
L’Epifania di Pasqualino
Alle 4 del mattino il fotografo de Il Mattino – appostato ai piedi delle macerie di una casupola sgretolata dal terremoto di Casamicciola del 21 agosto 2017 – sente un richiamo dalla folla di soccorritori, febbrile nella nube di polvere e sudore tagliata dalle luci di emergenza. “Il medico, il medico” si sente chiamare da qui e da là. Sono le 4 e dalle macerie, nitide e abbaglianti su uno sfondo nero inchiostro per il contrasto freddo delle fotoelettriche che isolano le figure come punti di luce in movimento, sale un pianto.
“‘Na criatura piangeva”,
in quelle ore prossime all’alba in cui gli uomini nascono o muoiono. Era il momento del parto dalle macerie. Un bimbo di sette mesi, pannolino, magliettina e piedini nudi, Pasqualino, risorgeva piangendo dal sepolcro di pietra e mattoni dopo sei ore di travaglio e doglie sue, dei genitori disperati in attesa, di una schiera di levatrici – quasi tutte al maschile, per la verità, molte in divisa – che l’avevano cercato con furia e determinazione fino a strapparlo fuori miracolosamente vivo, un solo graffio in fronte.
Caravaggio l’avrebbe dipinta così la resurrezione-natività di Pasqualino.
E fosse stato a Ischia quella notte, probabilmente non avrebbe aggiunto nulla alla perfezione di una scena miracolosamente equilibrata, nelle espressioni dei protagonisti – chi distrutto dalla fatica, chi assorto nel porgere il piccolo alle tante mani che si levano dal basso, chi semplicemente in adorazione incredula – tutti orientati e convergenti sul punto di fuga prospettico di un neonato appena venuto alla luce e mostrato a chi lo aspettava come una liberazione. Caravaggio avrebbe visto una scena che sembrava, in tutto e per tutto già dipinta da un altro. Non c’era che da copiarla. Antonio Di Laurenzio, di storica famiglia di fotografi, era lì nella zona interdetta alla stampa con la macchina fotografica nascosta da un panno. Il cronista deve saper diventare mosca in certe circostanze. Ma quando l’epifania di Pasqualino si è manifestata su uno sfondo perfetto, ha colto l’attimo. Dieci, venti scatti a raffica.
Era “la” foto.
La perfezione dell’immagine che si perde in un attimo e che, qualche volta, uno scatto salva con tutto il suo messaggio che diventa per tutti.
In quelle ore Ischia era una bolgia, con la gente che si accalcava al porto in attesa di fuggire dall’isola per il terrore di nuove scosse. Ad agosto migliaia di persone, undicimila si calcola tra turisti stranieri e napoletani in vacanza, più i residenti: all’ aperto, nei giardini, molti si erano accampati senza sonno, in un’ansia claustrofobica, un silenzio irreale rotto, spesso, da crisi isteriche di chi si lanciava contro una divisa accusando i soccorritori instancabili di non fare abbastanza. In un attimo come questo, all’esplodere di grida e di un parapiglia, era stato possibile avvicinarsi – discretamente – e mescolarsi allo sciame delle centinaia di divise, camici e giubbotti fosforescenti catapultati sul posto da mezza Italia. Tre fratellini sotto le macerie di una palazzina. Lo aveva gridato la mamma di Pasqualino – incinta di una bimba che nascerà quattro mesi dopo – mentre la tiravano fuori da un lato della casa meno colpito: il padre, che era in giardino al momento della scossa, era impazzito e minacciava di uccidersi per la colpa di essere vivo davanti al sepolcro dei figli. Ciro ha 12 anni, Mathias ne ha 8. E poi c’è Pasqualino, che era in un box, mezzo nudo per il caldo. Tutto era perduto, all’apparenza.
Alle 4, il pianto sulle macerie: Pasqualino riassaggiava l’aria fuori dalla placenta di polvere e detriti , come sette mesi prima, e tutto ripartiva da quella prodigiosa riapparizione sul tetto, i piedini al vento, la maschera per l’ossigeno. Ciro, che poi diventerà il piccolo eroe della stampa, trova qualcosa – si disse una scopa, ma chissà – e batte forte per farsi trovare. Nei video dei soccorritori si sente una voce che gli grida: “Il tuo fratellino è salvo. Ora prendiamo anche voi”. Una promessa. “La” promessa. Ciro, da sotto grida nel panico, rivolto a quella voce: “Mi vuoi bene? Mi vuoi bene?“. Non è vero, come scrissero in tanti con tenerezza, che Ciro se ne stava lì, lucido, a guidare i soccorritori. Era un piccolo spaventato, avvinghiato a Mathias che piangeva e lo schiacciava con una responsabilità più oppressiva delle macerie: proteggerlo, portarlo fuori. Soli mentre cadevano le pietre attorno al letto sotto il quale s’erano nascosti. “Ti voglio bene, Ciro”, gli risponde la voce senza faccia. E lì cominciano altre dieci ore di travaglio e doglie, con i fratellini che supplicano, talvolta scherzano, mentre le levatrici di Pasqualino promettono loro la pizza quando li sentono sul punto di impazzire per la paura di qualche maligno smottamento nella montagna di sassi. Allora le grida si fanno strazianti e rimangono registrate nei video dei vigili: “Mi vuoi bene? Mi vuoi bene? Sto morendo! Muoio!”.
La luna è la svolta. Scrivono le cronache che, ad un certo punto, fra le pietre Ciro la vede.
“Muvitv ” grida.
Ossia, spicciatevi, muovetevi. Gli risponde una voce in alto toscano: “o Ciro, un avè furia”. Niente fretta, Ciro. E lui, di rimando: ” Ca’ itt chist?!” (Cosa ha detto questo qua?). Traduzione del pompiere napoletano: “nun ghi‘ ‘e pressa“. Devi stare tranquillo, non andare di corsa. Lui ci prova, ci riesce anche. Quando arriva il momento di affidarsi ad una mano che tira su per il pertugio, lui spinge avanti Mathias. La voce gli ha ripetuto, instancabile “Ti voglio bene, sono quasi da te. Ci mangeremo una bella pizza“. E Ciro trova la forza e la fiducia. Quando tocca a lui emergere quasi nudo, una statua di polvere, unica ferita registrata dai medici la frattura del terzo metacarpo del piede destro, trova il sole. Lo mettono in barella e lui dice, per ripeterlo poi ai giornalisti: “E’ stato Dio, lui esiste davvero”.
Ciro diventerà alfiere della Repubblica, invitato al Quirinale con Mathias, celebre per qualche tempo. Pasqualino avrà una sorellina che si chiamerà Dalila Grazia, come Grazia ricevuta. La famiglia, passati clamore e commozione,vive in una casa messa a disposizione dalla diocesi di Ischia, dal vescovo monsignor Pietro Lagnese che quella notte di resurrezione era lì vicino alle macerie. Della casupola-sepolcro, che non è riuscita prendersi i tre fratellini, rimase in piedi una sola porzione di parete con un quadretto della Madonna con Bambino rimasto appeso per un chiodo. I Marmolo li hanno staccati tutti e due e se li sono portati via. Piantare quel chiodo per quel quadro nella parete della canonica della chiesa di Serrara Fontana messa a loro disposizione, è stato come ricominciare da un punto sicuro d’appoggio.
Chiara GRAZIANI Napoli 2019