di Sergio ROSSI
Stefano Balassone è stato consigliere d’amministrazione Rai dal 1998 al 2002 e precedentemente, vicedirettore di Raitre fianco di Angelo Guglielmi (con il quale ha pubblicato numerosi saggi). E’ considerato giustamente tra coloro che hanno ideato un nuovo modello di televisione in Italia. Negli anni che vanno dal 1987 al 1994 Raitre diviene infatti una rete innovativa e coraggiosa; per la prima volta in Italia si parla di “TV verità” e programmi come “Milano Italia”, “Avanzi”, “Samarcanda”, “Blob”, “Chi l’ha visto”, “Un giorno in pretura” riescono ad innalzare lo share della terza rete Rai dal 2% a oltre il 10%. Nel 2000 diventa docente di “economia dei media” presso la Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, dove tuttora insegna. È stato Segretario Generale dell’ANICA e nel biennio 2019-2020 critico televisivo di Repubblica. Presiede Articolo Quinto, (www.art5.it) l’associazione no profit ed apartitica sorta il 18 aprile 2024 con l’unico scopo di promuovere l’indipendenza del Servizio Pubblico, applicando quanto prescritto dall’art 5 del recente European Media Freedom Act.
D: Voglio iniziare questa intervista da una mia radicata convinzione: la presunta egemonia culturale della sinistra, di cui tanto si parla specie da parte della destra, in realtà non c’è mai stata; casomai bisognerebbe parlare di egemonia culturale esercitata da un ristretto gruppo di “intellettuali organici” al PCI prima e poi via via fino al PD di adesso e che in realtà ha emarginato molti tra gli intellettuali e artisti di sinistra veramente liberi e scomodi. Tu che ne pensi?
R: Se prendiamo il termine egemonia nel suo senso etimologico originario, quello usato per primo da Erodoto, allora dobbiamo intenderlo come dominio strategico-militare. Mentre da Gramsci in poi lo applichiamo a una sorta di predominio culturale entro un universo di presupposti cognitivi e valoriali condivisi. L’egemonia nel senso corrente del termine, cioè, è il frutto dell’allineamento di pianeti storico-sociali. Ma si sa che ogni potere declina in portineria. L’affinità che avvicina pensieri e anche ideali comuni si trasforma in quotidianità e complicità di interessi, si trasforma in pratica di scambio e non è più di relazioni sociali a largo spettro. Nel dopoguerra i comunisti sono stati portatori, nei confronti di giovani come io ero, di un riferimento di senso, una chiave interpretativa che creava comunità di “credenti” animati da entusiasmo. Ma le medesime comunità non sono sfuggite al destino di essere conservatrici nel pensiero e tenute insieme dalla colla di un qualche tipo di potere a ridosso delle istituzioni rappresentative e di Governo centrali e periferiche. A queste evoluzioni non si può applicare il giudizio morale. Non sono frutto di scelte sbagliate, ma di inevitabile destino. Quel che è certo è che alla politica attuale non mancano le pratiche di potere mentre la forza dell’egemonia è del tutto assente in quanto la sua manifestazione presuppone ampiezza di visione, profondità analitica, sintesi comunicativa.
Insomma, chi s’arrabatta contro egemonie presunte ed inattuali dovrebbe dire verso sinistra che l’egemonia non c’è e le combriccole che ne hanno da tempo preso il posto non meritano rispetto più delle che si fanno sotto affamate di spoglie. La sinistra tarda, a mio parere, a liberarsi (come se in altro non consistesse) dal gioco stretto di combriccola e assumere sul tema delle spoglie un atteggiamento “liberatorio e costituente”, Destra e Sinistra possono ad esempio non subire, ma cogliere l’occasione di porre termine alla spartizione della Rai in combriccole partitiche a cascata attuando velocemente l’art 5 del Regolamento Europeo sulla Libertà dei Media che obbliga gli Stati a rendere indipendenti i Servizi Pubblici come la Rai.
D: Ma secondo te c’è questo pericolo reale da parte della destra, non dico di una dittatura culturale che sarebbe comunque eccessivo, ma appunto di un’occupazione strategica di ogni leva di potere specie nel settore dell’informazione?
R: Francamente non credo. Mi sembra che vadano a tentoni e che le loro combriccole soffochino sul nascere ogni ambizione di leadership più ampia e significativa. Problema identico a quello che ha condizionato e reso inane il fronte politico opposto. Del resto la condizione del mondo non aiuta. Forse il mondo si è occidentalizzato dal punto di vista degli stili di vita, ma sicuramente non è monocentrico riguardo agli aspetti di potenza, di potere, anche proprio di “soft power”, che è la capacità di narrare il mondo, di analizzare quel che accade e restituirlo come informazione strutturata. Certo Hollywood è sempre un grande centro intellettuale con i suoi sceneggiatori, i suoi registi, ma più tempo passa e meno soli sono. Appigli organici paragonabili a quelli dell’ ‘800 e ‘900 non ne vedo. Siamo in una fase in cui è utile aprirsi alle esperienze, confuse, del protagonismo di massa di ogni sfumatura, cercare di coglierne il senso interno e addestrare l’occhio a vedere il mondo in modo multiplo. Non c’è altro da fare a fronte della crisi socio-culturale del sogno americano che sembra implodere (non è facile dire chi è “Biden” né chi è “Trump”) proprio mentre il modello capitalistico è divenuto circolo sanguigno dell’intero mondo. Posto che la Cina conduce la sua esperienza di capitalismo strettamente integrato con lo Stato, nella misura in cui funziona e senza, a me pare, traccia di universalismo ideologico.
D: Tornando al tuo discorso sull’Oriente, io l’anno scorso ho fatto un viaggio in Vietnam che negli ultimi trent’anni (l’embargo statunitense è finito solo nel 1993) si è pienamente ripreso, lavorano praticamente tutti e questa sorta di loro “capital comunismo” emergente, portato avanti con disciplina ferrea e pienamente accettato dalla popolazione è qualcosa di assolutamente nuovo e da noi non compreso e adeguatamente indagato; comunque un qualcosa di fortemente aggressivo col quale dovremo sicuramente fare presto i debiti conti.
R: Il tuo Vietnam somiglia all’idea che mi sono fatto della Cina. E nel complesso è ovvio che l’Oriente allargato attragga sguardi ed attenzione. Passata la fase coloniale e di liberazione, il retaggio di millenni traspare. Si tratta di tutto un mondo che si sta facendo scoprire e che può provocare scossoni economici, culturali molto forti nel tornare diritto dopo che l’egemonia europea l’aveva quasi steso a terra. Non vedo come questo processo possa essere contrastato, né perché dovremmo farlo. Dopo di che mi preoccupo, come chiunque, dei lasciti del passato: siamo seduti, in Italia, su depositi di basi nucleari, Ucraina e Palestina sembrano condannarci a uno stato di guerra permanente fatale per l’Europa non meno che per i russi e gli ucraini che ci rimettono la vita. Così sarà finché l’Europa sarà realtà economica (importantissima, sia chiaro) ma priva di profilo unitario sul piano fiscale, militare e della politica estera. Stiamo subendo la crisi della egemonia USA, ma non contribuiamo a far evolvere il mondo verso una sorta di ossimorica egemonia policentrica.
D: Prima parlavi della guerra in Ucraina e a questo proposito, fermo restando che l’invasione dell’Ucraina io la condanno senza se e senza ma e che per me chiunque provochi la morte anche di un solo bambino in qualsiasi parte del mondo commette un delitto contro l’umanità intera, tuttavia, da uomo di sinistra quale sono, questa deriva iperatlantista e guerrafondaia di molti esponenti del PD (per fortuna non tutti) mi addolora e mi indigna nello stesso tempo.
R: Non ne dubito. Ma secondo me ci sono anche rapporti personali, rapporti piccoli diciamo, beghe interne al partito che prevalgono su visioni di sistema. Di sicuro non sono contributi utili a costruire una visione strategica e di respiro, perché il difetto di queste posizioni è che possiamo dire: “Va bene. Ok. Continuiamo a mandare armi all’infinito ma poi che facciamo?” Siete per una soluzione alla coreana, Donbass da una parte e Ucraina dall’altra? Oppure vogliamo che l’ex Unione Sovietica frani dall’interno? Ci sono un paio di think tank americani, che non da oggi ma da sessant’anni teorizzano, e sono rappresentati nei vari governi che si sono succeduti, sia democratici che repubblicani, di provocare l’estensione dell’impegno russo per tenerlo sempre sulla corda, per tenerlo sotto controllo. Del resto la Russia, l’impero russo, è un sistema che ha enormi limiti e forse non è in grado di dare un senso alla sua enorme dimensione territoriale. E allora l’dea è quella di dargli sempre una rogna da inseguire, una volta l’Afghanistan, una volta l’Ucraina, come trappole. Non lo so, è ancora una buona strategia questa? E soprattutto lo è per l’Europa? Sono domande che mi pongo.
D: Proprio su questa Rivista, il 15 maggio del 2022, a proposito della Cancel Culture nei confronti dell’arte russa, scrivevo non smentito: «Non credo che l’impedire di cantare nei principali teatri lirici del mondo ad Anna Netrebko, il più grande soprano dai tempi di Maria Callas, possa contribuire alla causa ucraina; così come comprendo poco l’ostracismo verso il principale direttore d’orchestra russo, Valery Gergiev, perché “amico di Putin”. Applicando lo stesso metro di giudizio nell’immediato dopoguerra si sarebbero dovuti censurare Wilhelm Furtwängler ed Herbert von Karajan, perché avevano continuato a dirigere ed avere successo sotto il regime nazista, privando così la musica della seconda metà del Novecento di due dei suoi maggiori interpreti. E che dire allora di Roberto Rossellini, amico personale del figlio del duce Vittorio ed autore di quella che è stata definita come una “trilogia della guerra fascista” con La nave bianca del 1941, Un pilota ritorna del 1942 e L’uomo dalla croce del 1943, solo due anni prima di diventare un simbolo della Resistenza con Roma città aperta. Anche in questo caso avremmo privato la filmografia europea di alcuni dei suoi massimi capolavori. Ma quello che più mi preoccupa è che questa smania censoria si stia pericolosamente estendendo per onde concentriche sempre più larghe finendo per colpire anche coloro che semplicemente non condividono questa orribile retorica post dannunziana della bellezza della guerra a tutti i costi, per cui essere pacifisti e rifiutare l’idea che il massacro del popolo ucraino debba continuare all’infinito significa essere traditori dell’Occidente ed amici di Putin, papa Francesco compreso». E da allora non è cambiato molto se è vero, come è vero, che uno dei massimi direttori d’orchestra emergenti, Tugan Sokhiev, di cui ho seguito di recente uno splendido concerto all’Auditorium, si è dimesso dal doppio incarico di direttore dell’Orchestra del Teatro Bolshoi di Mosca e di quella dell’Orchestra di Toulouse dicendo: “Mi viene chiesto di scegliere una tradizione culturale piuttosto che un’altra, devo scegliere un artista rispetto a un altro. Presto mi verrà chiesto di scegliere tra Cajkovskij, Stravinskij, Sostakovic e Beethoven, Brahms, Debussy. Sta già succedendo in Polonia, paese europeo, dove la musica russa inizia a essere proibita”.
R: Non sapevo di questi precedenti di Rossellini che trovo fantastici, ma per non meravigliarsi troppo di queste cose bisogna partire dall’idea, forse un po’ antiplatonica (perché il sistema di Platone è basato sulle scissioni, o di qua o di là) che invece la cultura è sferica e forse non esiste neanche un confronto tra sistemi culturali, ma vi è una circolazione entro parametri culturali. Con le culture si parla, non si sventolano le bandiere. Ed è per questo che trovo l’attacco alla cultura, russa in questo caso, inammissibile. Noi Tostoj, Gogol, Puskin, Turgenev, Dostoevskij, li abbiamo nel sangue, che faremmo senza? Allora queste sono caricature di mobilitazione, come è una semplificazione definire Putin un dittatore. Io penso che lo sia davvero, ma nel senso che in Russia s’è imposta una dittatura della maggioranza, che comporta (come antivedeva Tocqueville nel 1840) l’interdetto repressivo ai rompicoglioni. Penso che questo conformismo repressivo in Russia ci sia. E che sia una minaccia incombente su ogni sistema democratico. Bisogna avvistarla per tempo per stroncarla. Quanto alla Russia, non saprei da che parte cominciare. Vedo girare parole improvvisate e senza, mi pare, retroterra di pensiero. Quale è la politica, anche culturale, e moltissimo economica, che l’Europa deve mettere in campo per incidere sulle scaturigini del blocco sociale nazional imperiale al comando in Russia e nel quale gran parte del popolo russo pare aver fatto il nido. Come pensare? Cosa fare?
D: D’altra parte, oramai lo sanno pure i bambini che i russi, tutte le volte che si sentono minacciati o comunque accerchiati, che vengono invasi, da Napoleone a Hitler, si stringono intorno al capo del momento, anche se fino a un attimo prima non era particolarmente amato, è successo con lo Zar, poi con Stalin, ora con Putin.
R: E non ci si può meravigliare di questo perché nella loro memoria storica c’è che tutti hanno sempre cercato di invaderli. Del resto penso che questa visione la impari ogni ragazzo russo andando a scuola. Da qui la prontezza nel serrarsi e combattere.
D: Torniamo all’Italia. Io vivevo ancora a Messina ai tempi del famigerato “boia chi molla” di Ciccio Franco nella prospicente Reggio Calabria, quindi puoi immaginarti l’opinione che ho del fascismo, però mi sembra francamente che usare l’antifascismo come unico modo per attaccare la destra, o quasi, sia come minimo sterile.
R: E’ una risorsa da disperati. Di questo sono convinto. Io sono assolutamente antifascista nel senso che non riesco ad immaginare niente di più inutile e dannoso delle ricette di tipo fascistoide, ma è comunque un mondo che mi provoca a capirlo. Certo le Curve Sud, le truppe di manigoldi no, quelli sono ragazzacci, hooligans della politica. Ma, come dire, la vulnerabilità di ognuno di noi al desiderio di sicurezza fisica, che è quello che rischia di portarci a visioni d’ordine, patriarcali, assertive, di divisa, mica viene da un altro mondo, viene dallo stesso mondo, respira la stessa aria che respiro io e le devo metabolizzare. Certo il discorso dell’anti è utile per chiamare a raccolta, anche a combattere se serve e a volte ci sta, ma il dovere della cultura, della ricerca sociologica è di non rifugiarsi negli schemi di mantenimento: vi è una contraddizione in termini tra mantenimento e ricerca. E’ sempre necessario provare ad avere una visione dell’altro.
D: E forse se oggi da sinistra (ma non solo) si cominciasse a rileggere Marx, il Capitale, ma anche i Grundrisse, si eviterebbero molte figuracce, come quelle di dare retta a certe caricature di chi vuole equiparare antifascismo e anticomunismo. E a questo proposito potrebbe tornare utile quanto affermato nel 1974 da Arnold Hauser nella sua Soziologie der Kunst, e cioè che ci si può professare marxisti nel senso di condividere questa filosofia come filosofia della storia e della società senza essere un marxista dal punto di vista politico-attivista. Ma temo che pochi tra i nostri intellettuali e politici, di destra come di sinistra, abbiano menti tanto raffinate da apprezzare questa distinzione.
R: Che io invece condivido in pieno.
D: Tornando a parlare di guerra, naturalmente l’altra grande tragedia è quella della Palestina. Ora, fermo restando che secondo me Hamas è un’organizzazione terroristica alla quale non gliene frega niente del popolo palestinese, è altrettanto vero che ha teso una trappola nella quale Netanyahu è caduto con tutte le scarpe, perché con la sua reazione disumana e sproporzionata sta provocando la rinascita di sentimenti antisemiti in tutto il mondo. Io, per parte mia, sono convinto che si può essere assolutamente filo ebraici e filo israeliani e detestare al contempo Netanyahu, ma questo in Italia, da troppe parti, si fa ancora finta di non capirlo.
R: Naturalmente io non ho nessuna simpatia per Hamas e non mi considero assolutamente anti ebreo, anzi semmai l’opposto. Infatti considero la cultura israelitica l’architrave della nostra cultura insieme a quella della Grecia classica, una colonna portante della nostra civiltà, della quale siamo profondamente intrisi attraverso i rivoli più strani. Ma considero Netanyahu un pericolo per Israele, e penso che l’assolutismo strategico e militare permanente che lui personifica come unica arma di contrapposizione ai palestinesi sia demenziale e francamente non mi interessa affatto che lui sia ebreo, per me è un avversario e semmai mi preoccupa il fatto che abbia una linea politico strategica senza sbocchi e che provochi molti guai e anzi mette in pericolo per primo Israele. D’altra parte Israele è già stata messa in pericolo dalla sua doppia identità di casa di un popolo e di avamposto anglo americano all’incrocio tra due continenti. Questo l’ha resa oggetto d’amore anche da chi non è ebreo, ma al tempo stesso ne ha fatto un problema geopolitico in stato di costante infiammazione. Siamo di fronte a una guerra tra bande rivali che mi preoccupa molto. Forse anche più dell’Ucraina. Ma tanto è inutile fare classifiche.
D: Venendo ad argomenti più lievi, tu sei considerato insieme ad Angelo Guglielmi come l’inventore di un nuovo modo di fare televisione, nella mitica Raitre degli anni Ottanta e Novanta, con programmi come “Milano Italia”, “Avanzi”, “Samarcanda”, “Blob”, “Chi l’ha visto”, “Un giorno in pretura”. Ora capisco che può sembrare una domanda come quelle che mi facevano da bambino, “a chi vuoi più bene, a mamma o a papà”, ma fra le trasmissioni che ho citato prima ce n’è una alla quale sei più legato, che la consideri la più iconica di quel periodo?
R: Senti, ti rispondo che c’era una cosa che era la caratteristica di Raitre, una, ed era il contesto unificante dei programmi che conteneva. Un contesto molto forte e non una lista di programmi. E se estraggo quei programmi da quel contesto restano dei programmi che possono andare dovunque e quindi non sono particolarmente affezionato all’uno o all’altro. Era Raitre il ventre creativo, la famiglia. Poi naturalmente i programmi seguono il destino degli autori, gattonano per conto loro nel tempo e tra i canali.
D: E oggi come definiresti Raitre?
R: Oggi Raitre è una ex. Certo c’è ancora qualche programma molto seguito, c’è “Chi l’ha visto”, c’era Fazio. Ma sono casi singoli. Oggi è più simile al mondo dopo i social, dove hai un rapporto con una cosa che ti vai a cercare, mentre prima avevi le serate a casa ed era come se ti venissero a trovare degli ospiti. Alcuni ti erano più simpatici a priori, altri meno. Avevi proprio un rapporto con una fonte identitaria da cui attingere.
D: Ora, dato che About Art è appunto una rivista d’arte, c’è una mostra che hai visto di recente che ti ha particolarmente colpito?
R: Come mostra senz’altro quella di Michelangelo Pistoletto, per la sua energia creativa quasi fantasmagorica, per il suo percorso pieno di sorprese, perché tutto quello che gioca sulle trappole cognitive mi interessa.
D: Invece se dovessi indicare un dipinto, una statua, che ti ha particolarmente emozionato, più che colpito intellettualmente?
R: Vi sono due tipi di emozione che mi sono annotato tanti anni fa. Quella suscitata dal David e da La Pietà di Michelangelo, per il rigore classico e l’orgoglio della forma; quella del Cristo anonimo, credo, del XII secolo, con l’aria scarnificata, la barba nera, i tratti essenziali riprodotti su una tavola. L’essenza in persona, come negli Haiku, e nei lavori a china cinesi e giapponesi. Oltre, naturalmente, al cinema dove preferisco la suggestione del bianco nero alla completezza del colore.
D: E visto che hai citato il cinema, quali sono i film che ti hanno più colpito?
R: Ombre rosse; che da bambino mi ha insegnato ad ammirare chi rende conto a un quadro di “valori”. Da adolescente Hiroshima mon amour, dove ho collaudato, e sempre poi evitato, l’auto contemplazione disperata; tra i film più recenti Anatomia di una caduta, che ho trovato di grande mano.
Sergio ROSSI Roma 5 Giugno 2024