di Rosario DAIDONE
E’ noto a coloro che si interessano per motivi culturali o passione collezionistica al mondo della ceramica antica che le immagini dipinte nei vasi usati nelle spezierie come contenitori di medicine siano generalmente considerate “ritratti di stato”. Per la devozione religiosa congiunta alla cura delle malattie, particolarmente numerose sono le figure di santi dipinte nelle opere pervenute dei quali non contano le sembianze, ma gli “addentellati”. Essi permettono la loro identificazione attraverso la presenza di oggetti simbolici legati agli atti compiuti, in vita o in morte, secondo le opere agiografiche, la tradizione popolare o la storia.
Pur esistendo immagini con addentellati poco chiari o insufficienti, il loro riconoscimento da parte dei contemporanei poteva avvenire attraverso un gesto, un atteggiamento della figura o un’integrazione verbale da parte degli utenti. Però, a distanza di secoli, le interpretazioni restano difficoltose se non si indaga, nelle pieghe degli avvenimenti, sulle intenzioni connesse alle limitate capacità espressive degli autori e, soprattutto, se si ignorano le motivazioni e le esigenze dei committenti, speziali e aromatari.
Ciò premesso, un metodo che possa aiutare la decodificazione delle figure può essere applicato, come esempio dovuto alle attuali contingenze, all’immagine dipinta nel medaglione di una boccia di spezieria palermitana datata 1628. In questi giorni, corredata da una mia scheda critica, l’opera si trova esposta nella Mostra “Rosalia400” organizzata a Palermo, in occasione della ricorrenza del ritrovamento dei resti della Santa, nel Palazzo Branciforte a cura della “Fondazione Sicilia”.(Fig. 1)
Considerando gli addentellati che conducono all’agnizione della figura dipinta nel medaglione del vaso, costituiti dall’abito monacale, dal crocifisso a cui si abbraccia, dal teschio che tiene in grembo e, soprattutto, dall’edificio in riva al mare disegnato alle sue spalle, l’immagine, secondo il proprietario, è riconducibile a quella di Santa Rosalia, la fanciulla eremita sul monte Pellegrino che nel 1624 aveva salvato Palermo dalla peste.(Fig. 2)
Per dare ragione ai suoi convincimenti e allargarne la condivisione occorre fare alcune osservazioni di ordine storico tenendo presente innanzitutto che si tratta di una delle più antiche rappresentazioni di Rosalia che si trovi in una maiolica. Essa fu eseguita da un decoratore itinerante tra Palermo e Sciacca nel 1628, ad appena quattro anni dal rinvenimento dei suoi resti, quando non si possedevano ancora modelli iconografici certi a cui ispirarsi, notizie chiare e sedimentate intorno alla fanciulla appartenente alla nobile famiglia Sinibaldi che, per sottrarsi alle nozze imposte dal padre, si era data alla fuga e all’eremitaggio. E c’è da scommettere che alla stessa officina, in seguito alla miracolosa cessazione della peste avvenuta pochi anni prima, fossero stati commissionati dagli speziali diversi vasi dedicati alla Santa palermitana.
E’ infatti pervenuta un’altra boccia con lo stesso soggetto allestita nel 1629 a ridosso della prima. Le due maioliche erano chiamate a rappresentare nei corredi vascolari delle spezierie la figura della giovane Rosalia diventata da qualche anno talmente cara ai Palermitani da aver soppiantato in breve tempo le antiche protettrici della città (Agata, Cristina, Ninfa e Oliva) impotenti, nonostante il numero, rispetto al miracolo che essa era stata in grado di compiere. (NOTA N° 1)
E’ possibile immaginare che i due vasi, allestiti nella stessa officina, accomunati dalla stessa figura rappresentata nell’atteggiamento divenuto consueto nel corso degli anni, (Fig. 3) fossero destinati a contenere un portentoso preparato come la Teriaca (NOTA N° 2) ritenuto da medici illustri, compreso il protomedico Filippo Ingrassia (Regalbuto 1510- Palermo 1580), l’unico rimedio efficace contro le ricorrenze del “pestifero e contagioso morbo”. (NOTA N° 3).
I dubbi che si potrebbero avanzare sull’identificazione poggiano sulla presenza di ciò che l’immagine della prima boccia reca sul capo ravvisabile come una sbiadita corona di spine ritenuta incompatibile con la figura consueta di Rosalia. Ma occorre tenere presente che in diverse pitture del passato, eseguite da artisti di fama come Van Dyck (1599-1641) e Pietro Novelli (1603- 1647), scarsissima importanza viene attribuita alla corona di rose anche se si trova nella figura della maiolica, eseguita nell’anno successivo, che è però posta nello stesso atteggiamento della prima ed è contornata dalla medesima decorazione sussidiaria. Rose che soltanto in seguito diventeranno motivo di sicura identità (Fig. 4).
Pur ammettendo che dall’atteggiamento le immagini delle due bocce si potrebbero avvicinare a quella di Caterina da Siena, occorre mettere in evidenza l’importanza dell’ambientazione nella maiolica datata 1628 e la presenza delle rose nella figura del 1629 nonché la mancanza in entrambe le rappresentazioni dei gigli e delle stimmate che contraddistinguono la tradizione iconografica della Santa senese. (NOTA N° 4) Fig. 5
Le rassomiglianze si possono addebitare al consueto fenomeno della “contaminazione”. Il decoratore, da non confondere con i pittori colti delle tele, nell’intenzione di fornire nella boccia del 1628 un’immediata rappresentazione particolarmente articolata, non disponendo del modello cartaceo necessario allo “spolvero”, avrebbe potuto utilizzare una stampa iconograficamente vicina corredandola del simbolo che da solo e incontestabilmente servisse ad identificarla come Rosalia: il disegno della città –Panormus tutta porto- posto dietro alle sue spalle, panorama presente sia nel quadro di Van Dyck che in quello di Vincenzo La Barbera, che, dipinto tra il 1624 e il 1625, viene considerato la prima espressione iconografica della patrona palermitana (Fig.6).
A proposito degli equivoci cui possono condurre le valutazioni non concettuali basate sulla semplice lettura degli addentellati resta emblematico un caso noto alla storia dell’arte europea relativo a un quadro esposto nel 1876 al Salon di Parigi che raffigura una donna dai lunghi capelli rossi completamente nuda, sdraiata all’entrata di una grotta. Ritenuta icona di Maria Maddalena, venne acquistata dallo zar Nicola II e venerata per diversi anni nelle stanze del Palazzo d’Inverno.
Il dipinto, entrato a far parte delle collezioni dell’Hermitage, dovette sembrare ad una semplice immediata lettura degli addentellati perfettamente aderente ad un episodio tratto dalla Leggenda Aurea di Jacopo da Varazze, secondo il quale, dopo la Resurrezione, la Maddalena era partita alla volta della Gallia per divulgare il messaggio di Gesù e, alla foce del Rodano, aveva trascorso gli ultimi anni della vita a piangere in solitudine i suoi peccati. Tutto a posto sino a quando Albert Grigorevič Kostenevič, eminente studioso dell’arte russa, osservò che, possedendo l’immagine un aspetto evidentemente erotico, non poteva essere un soggetto di arte religiosa e affermò che si trattava sicuramente di una ninfa, cosicché nel catalogo del Museo pietroburghese, a partire dal 1958, il dipinto, alla luce della nuova interpretazione, viene citato col titolo di “Ninfa sdraiata”. A questa avvenente creatura lo zar aveva rivolto le preghiere evidentemente non esaudite considerata la tragica conclusione che ebbe la sua vita la notte del luglio del 1918.
Tornando alle immagini dipinte nelle due maioliche esse si completano a vicenda e sono da ritenere entrambe figure di Santa Rosalia. Nella prima maiolica il riconoscimento avviene attraverso l’ambientazione costituita dal simbolo dirimente della città sovrastata dalle nuvole, segno della peste incombente, in cui si nota quell’edificio imbandierato che evoca il “Castello a Mare” di Palermo. Nella seconda maiolica, di più semplice esecuzione, l’addentellato cardine è costituito dalla corona di rose sul capo della figura che è dipinta nella stessa postura della prima (Fig.7)
La scelta ora dell’uno e ora dell’altro simbolo per arrivare all’identificazione non è un’operazione arbitraria poiché essa si rende necessaria nelle maioliche antiche dove le contaminazioni possono spesso trarre in inganno.
E’ ciò che accade nella scheda di una pubblicazione a proposito di un’immagine che si trova dipinta su un albarello palermitano di spezieria del XVII secolo interpretata come una “Dama che si rimira allo specchio”. (Fig. 8).
Il commentatore, nella valutazione degli addentellati, si era lasciato convincere dalle vesti del soggetto e non si era accorto che il simbolo cardine della rappresentazione, insieme al serpente cui avrebbe dovuto prestare maggiore attenzione, non era l’abbigliamento secentesco della figura evidentemente tratta da una stampa, ma l’oggetto apparentemente secondario che essa teneva in mano.
Non uno specchio, ma l’effigie di un uomo calvo che, unita al serpente rimandava inequivocabilmente a Cleopatra, la regina d’Egitto nell’atto di suicidarsi davanti al ritratto di Antonio.
In conclusione, aver individuato addentellati diversi nelle due maioliche dedicate a Rosalia non è un fatto singolare se si considerano le scelte operate dal decoratore, gli accadimenti e le cogenti necessità del periodo in cui i due vasi furono quasi contemporaneamente concepiti dallo stesso decoratore convinto che il riconoscimento potesse avvenire in una tramite l’ambientazione e nell’altra tramite le rose.
I committenti speziali, mescolando la devozione con gli affari, non potevano farsi sfuggire il miracoloso evento. Occorrevano contenitori farmaceutici che recassero immagini della Santa da associare al portentoso preparato medicinale adatto a quel periodo funestato dai contagi.
Per comprendere quanto le immagini dei loro vasi, come etichette pubblicitarie, fossero necessarie e contassero più degli elettuari in essi contenuti, basta l‘eloquente testimonianza dell’epitaffio di tono beffardo inciso sulla lastra tombale della loro maestranza che si trovava dal 1637 nel pavimento della Chiesa di Sant’Andrea:
“Qui sono conservati coloro che conservavano i farmaci, omnia mors vincit, farmacha nulla iuvant”.
Del resto, contando molto le apparenze (i colori scintillanti delle maioliche sulle scansie e la variegata schiera di santi taumaturgici in esse dipinti) bastava, come aveva candidamente affermato uno di loro, soltanto “un pozzo d’acqua e un sacco di zucchero” a rendere particolarmente redditizia la professione in verità collocabile a metà strada tra scienza alchemica e millanteria. Negli inventari delle antiche botteghe nei quali, per necessità notarili non si poteva mentire, sono infatti elencati oro finto, perle false e polvere di un osso spacciato per corno di rinoceronte come potente afrodisiaco.
Non si può infine immaginare che le spezierie, insieme alle chiese uniche detentrici di immagini in un mondo che ne era così povero, restassero estranee alle raccomandazioni consuete da parte degli speziali. Sacerdoti laici che illustravano le figurazioni dei vasi indicando il nome del santo, non sempre individuabile dai profani, al quale occorreva, durante la cura, rivolgere le preghiere per la guarigione. E a chi, se non a Rosalia occorreva affidarsi in quei terribili anni di morìa?
Rosario DAIDONE Palermo 30 Giugno 2024
NOTE
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Vita di S. Rosalia vergine romita palermitana. Del dottor don Vincenzo Auria suo compatriota. Dedicata all’illustrissimo Senato Palermitano, MDCLXIX
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Un intruglio periodicamente preparato in pompa magna davanti al collegio degli aromatari in cui, tra gli altri ingredienti, entrava a far parte la carne della vipera
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Nella sua “Relazione” sulla peste, in evidente conflitto d’interesse il protomedico Ingrassia aveva affermato che la migliore Teriaca si vendeva alla Vucciria, nella spezieria di Luigi Garillo. Suo genero.
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Le stimmate di Santa Caterina, non riconoscibili come tali nella figura della boccia del 1628, sono state al centro di una lunga disputa fra domenicani e francescani i quali ammettevano solo quelle di San Francesco. La questione fu, più tardi della data segnata nella maiolica, risolta da Urbano VIII (Papa dal 1623 al 1644) che le riconobbe come attributo anche della Santa di Siena. (A. Scarciglia, Santa Caterina nei documenti papali – Quaderni cateriniani, Siena 2002)