La “Deposizione”, capolavoro di Tintoretto in mostra ai Capitolini fino al 3 dicembre.

di Nica FIORI

La spettacolare Deposizione di Cristo di Jacopo Robusti, detto il Tintoretto (1519-1594), il grande pittore veneziano che Vasari definì “il più terribile cervello che abbia mai avuto la pittura”, è ospitata fino al 3 dicembre 2023 nei Musei Capitolini, nella sala dei pittori veneti.

La monumentale tela (m 2,94 x 2,27), proveniente dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia, in sostituzione di un’opera di Tiziano prestata al museo veneziano, è un’occasione unica per ammirare lo stile impetuoso e drammatico di un artista del tutto assente nei musei romani e di mettere a confronto la sua pittura con quella del figlio Domenico, del quale la Pinacoteca Capitolina possiede quattro opere. L’esposizione, in effetti, s’intitola “La Deposizione di Cristo di Jacopo Tintoretto. Incontro romano di Tintoretto padre con Tintoretto figlio” ed è curata da Federica Papi e dal Sovrintendente comunale Claudio Parisi Presicce.

È stato un felice intervento di restauro, effettuato nel 2008-2009, a permettere di recuperare pienamente lo splendore artistico di quest’opera complessa, precedentemente nascosta nelle Gallerie dell’Accademia, e di restituirne la paternità a Jacopo. La sua visione richiama subito alla mente l’aneddoto che il Tintoretto avesse dipinto nel suo studio il motto “Il disegno di Michelangelo e il colore di Tiziano”, come ideali artistici cui aspirava, anche se poi in realtà egli diede vita a un linguaggio molto personale, che rispecchia la sua intensa visione religiosa ispirata ai valori della Controriforma.

Jacopo Robusti, il cui soprannome Tintoretto è dovuto all’attività del padre tintore di seta, fu indubbiamente un talento precocissimo, tanto che, quando giovanissimo entrò nella bottega di Tiziano, in quegli anni al centro dell’attività artistica veneziana, vi rimase solo pochi giorni perché entrò subito in conflitto con il maestro, che forse aveva visto in lui un futuro rivale. Già nel 1538 Jacopo aveva aperto una sua bottega e nel 1548 ottenne il primo successo pubblico con il Miracolo dello schiavo, per il quale ricevette le lodi pubbliche di Pietro Aretino. Il telero venne realizzato per la Scuola Grande di San Marco grazie all’appoggio del futuro suocero Marco Episcopi. Dal matrimonio con Faustina Episcopi Jacopo ebbe numerosi figli, il primo dei quali fu Domenico, nato nel 1560, mentre nel 1554 era nata da una precedente relazione Marietta, la prediletta figlia pittrice, detta la Tintoretta, che sarebbe morta nel 1590: una perdita questa che avrebbe segnato profondamente il maestro, come ben ha evidenziato Melania Mazzucco nel suo romanzo “La lunga attesa dell’angelo”.

A differenza della serenità bucolica delle opere di Giorgione e del primo Tiziano, le figure eroiche del Tintoretto esprimevano una gestualità altamente emotiva, essendo allungate o sottoposte a torsioni poco naturali, il cui effetto drammatico era accentuato da forti contrasti chiaroscurali e, anche se la sua pittura suscitò molte critiche, perché ritenuta troppo stravagante e sbrigativa, fu proprio la sua velocità d’esecuzione a permettergli di giocare d’anticipo sulla concorrenza e di ottenere numerose e prestigiose commissioni. Del resto all’accusa che gli veniva fatta dall’erudito Ludovico Dolce (in L’Aretino o Dialogo sulla pittura, 1557) di colorare meno bene di Tiziano, egli rispose sostenendo che i colori si potevano trovare già pronti a Rialto, mentre l’arte del disegno soltanto nello scrigno del talento.

La Deposizione di Cristo si colloca, secondo la maggior parte degli studiosi, intorno ai primi anni Sessanta del Cinquecento (1562), all’apice della sua carriera, quando il maestro ha ormai messo a punto il suo stile e la tecnica esecutiva. Precede, quindi, di diversi anni la Deposizione al sepolcro (1594) del monastero di San Giorgio Maggiore, che è considerata l’ultima opera in cui è possibile riconoscere la mano del maestro.

Jacopo Tintoretto, La Deposizione di Cristo, Venezia, Gallerie dell’Accademia

Il dipinto raffigura il momento in cui il corpo senza vita di Cristo è stato ormai rimosso dalla croce, come indicano la scala vuota sul fondo e il martello e le tenaglie in basso a destra. Giuseppe d’Arimatea sorregge Gesù da dietro, mentre la madre Maria sviene mentre lo accoglie sulle gambe. La figura di Maria è quella forse più significativa ed emozionante. Il suo colorito cereo, cadaverico come quello del figlio, rende l’idea della sua immensa disperazione, ulteriormente esaltata dalle altre due figure femminili, quella che la sostiene, forse Maria di Cleofa, e quella dalle braccia allargate nel classico gesto delle dolenti, identificabile con Maria Maddalena, che si china verso il volto di Cristo.

La curatrice Federica Papi, nel corso della presentazione alla stampa, ha evidenziato il plasticismo michelangiolesco in quest’opera che in origine doveva essere ancora più compatta, perché la tela ha avuto due aggiunte laterali (di 30 cm l’una), che l’hanno ampliata. Anche se Tintoretto non si spostò mai da Venezia, fu Michelangelo ad arrivare nella città lagunare, sia perché vi soggiornò per un brevissimo periodo, sia perché vi arrivarono molti disegni delle sue opere, influenzando notevolmente l’arte del pittore veneziano.

In questa Deposizione le figure sono più grandi del naturale e da esse trapela un grande senso di spiritualità. La Vergine tocca con una mano i piedi di Gesù, la parte più umile del corpo, come ha fatto notare la curatrice, e non è un caso che la tela fosse stata eseguita per la chiesa gesuita di Santa Maria dell’Umiltà, quando a Venezia circolavano le prime direttive del Concilio di Trento e Tintoretto interpreta con una forte empatia il concetto della partecipazione dei fedeli al dolore di Maria e alla passione di Cristo. Si tratta di una composizione geniale che rompe gli schemi, con due linee oblique parallele (una con le figure maschili e l’altra con quelle femminili) che s’incrociano in basso e formano una croce, creando un insieme profondamente significativo.

La chiesa gesuita di Santa Maria dell’Umiltà alle Zattere fu soppressa nel 1806 e demolita nel 1821. Divenuta proprietà demaniale, l’opera fu successivamente assegnata all’Accademia di Venezia, dove è rimasta per lo più ignorata o sottostimata dalla critica fino al restauro condotto da Giulio Bono nel 2008-2009. È stata quindi presentata per la prima volta nel 2009 come opera inedita alla mostra “Tiziano, Tintoretto, Veronese: Rivals in Renaissance Venice” al Fine Arts Museum di Boston e in seguito al Louvre di Parigi.

Domenico Tintoretto ha lavorato a stretto contatto con il padre ereditandone la bottega, nella quale si era formato insieme ai fratelli Marco e Marietta. Il suo stile, abbastanza simile a quello paterno, ma meno “fulminante”, appare influenzato dal naturalismo (del resto era già passato il “ciclone” Caravaggio) e questo comporta una maggiore attenzione al paesaggio, che acquisisce soprattutto dalla pittura dei Dal Ponte, l’importante dinastia di pittori nota con il nome di Bassano, e dai collaboratori nordici attivi nella bottega paterna.

Il ruolo di Domenico fu inizialmente quello di esecutore materiale delle opere del padre, poi di supervisore dei cantieri e infine di vero e proprio sostituto; sembra spetti infatti a lui gran parte della realizzazione del grande telero del Paradiso nel Palazzo Ducale a Venezia.

Anche Domenico ebbe committenti illustri e si distinse nell’arte del ritratto; contrariamente al padre, non si sposò mai e non ebbe figli. Morì all’età di 75 anni nel 1635.

È particolarmente interessante nel confronto romano l’approfondimento iconologico della figura della Maddalena penitente, anch’essa bionda come quella della Deposizione (caratterizzata da un’acconciatura molto elaborata), ma in questo caso scarmigliata e pudicamente nuda.

Domenico Tintoretto, Maddalena penitente, Roma, Pinacoteca Capitolina

La santa è inserita in un contesto naturalistico, con in primo piano una stuoia di paglia: appare spiritualmente intensa, ambientata come è in una luce notturna e circondata dai simboli della sua penitenza, quali il crocifisso, il teschio e un libro aperto.

Proviene dalla Collezione Pio acquisita dai Capitolini nel 1750, insieme alle altre opere di Domenico raffiguranti il Battesimo di Cristo, con evidenti riprese del Battesimo eseguito da Jacopo per la Scuola di San Rocco, la Coronazione di spine e la Flagellazione (attualmente in prestito). Le analoghe dimensioni e lo stretto rapporto iconografico hanno indotto a ipotizzare che queste opere siano tutte appartenute a uno stesso ciclo pittorico.

Nica FIORI  Roma 10 Settembre 2023

“La Deposizione di Cristo di Jacopo Tintoretto”

7 settembre- 3 dicembre 2023

Musei Capitolini – Pinacoteca – Sala dei veneti. Piazza del Campidoglio, 1

Si accede con il biglietto d’ingresso al museo.Ingresso gratuito con la Mic card.

Orari tutti i giorni 9.30 – 19.30 (la biglietteria chiude un’ora prima).

Tel. 060608 (tutti i giorni ore 9.00 – 19.00)

www.museicapitolini.org; www.museiincomuneroma.it