di Nica FIORI
Roma Universalis. La dinastia dei Severi
Settimio Severo, Caracalla, Elagabalo e Severo Alessandro sono gli imperatori romani che regnarono tra il 193 e il 235 (con l’intermezzo di Macrino), rappresentando per Roma un periodo di relativa stabilità dinastica e di grandi novità in campo amministrativo, sociale ed economico. Sono loro, i Severi, i protagonisti della mostra Roma Universalis. L’impero e la dinastia venuta dall’Africa, che si tiene nel Parco archeologico del Colosseo fino al 25 agosto 2019. Il manifesto dell’evento ritrae il volto, replicato tre volte, di Caracalla, noto a Roma soprattutto per le grandiose Terme, ma più importante storicamente per aver promulgato nel 212 la Constitutio Antoniniana, un editto che concedeva la cittadinanza a tutti gli abitanti liberi dell’impero, rendendolo così quanto mai “universale”. Del resto, come specifica il titolo, parliamo di una dinastia che veniva dall’Africa romana (Settimio Severo era nato a Leptis Magna, in Libia) e le cui primedonne, Giulia Domna, Giulia Mesa e le sue figlie Giulia Soemia e Giulia Mamea erano siriane. Il percorso espositivo si snoda tra il Colosseo, il Foro Romano e il Palatino, dove sono visitabili i luoghi “severiani”: non solo quelli che portano i loro nomi, ma anche quelli da loro restaurati.
Questa mostra, ideata da Clementina Panella, che l’ha curata insieme ad Alessandro D’Alessio e Rossella Rea, “non è un evento effimero, ma è l’occasione per aprire al pubblico parti del parco prima non fruibili”, come ha precisato la Direttrice del Parco archeologico del Colosseo Alfonsina Russo. L’idea è nata da una scoperta casuale della prof.ssa Panella della Sapienza Università di Roma, durante gli scavi da lei diretti alle falde del Palatino. Nelle c.d. Terme di Elagabalo, un’area che ha subito nel tempo diverse trasformazioni, sono stati rinvenuti nel 2013 e 2014 reperti marmorei di grande bellezza di età severiana, riutilizzati nel muro di fondazione di un edificio successivo. I reperti, estratti dal muro e restaurati, sono ora esposti al pubblico per la prima volta nel Tempio di Romolo, nel Foro Romano, in un felice allestimento che esalta diversi ritratti, tra cui uno di Settimio Severo, una statua frammentaria di Mercurio e due erme integre, una bifronte e l’altra trifronte, di epoca precedente.
Le stesse c.d. Terme di Elagabalo sono state oggetto di una sistemazione che dà l’idea, in chiave contemporanea, della presenza di vasche (realizzate con strutture reversibili) e che illustra in particolare lo stibadium, una sorta di zona pranzo semicircolare, entro un’esedra in mattoni (un tempo rivestita di marmi) che si è conservata, dove i commensali mangiavano sdraiati, allietati dallo zampillo di una fontana. Alcune immagini, tra cui quella del Codex purpureus di Rossano Calabro relativa all’Ultima Cena, danno un’idea di questo tipo di banchetto tipico del mondo romano.
Nella galleria del II ordine del Colosseo è il focus espositivo con una sequenza di ritratti dei membri della dinastia, la cronologia e alcuni approfondimenti sulla militarizzazione, sulle riforme, sull’approvvigionamento, sulla religione e sull’arte del periodo severiano. Ci accoglie la coppia imperiale di Settimio Severo e Giulia Domna (raffigurata a figura intera come Cerere), preceduti dal ritratto di Marco Aurelio, l’ultimo degli imperatori adottivi dal quale Settimio Severo proclamava una sua discendenza ideale, nel desiderio di dare legittimità al suo regno, dopo una lunga e sanguinosa sequenza di guerre civili. Era stato proclamato imperatore dalle legioni di stanza a Carnuntum (presso Vienna) e costante fu la sua attenzione per il mondo militare, tanto da consigliare ai figli, in punto di morte, di prestare attenzione soltanto ai soldati. La stessa Giulia Domna sottolineò spesso la sua vicinanza a questo ambiente, assumendo il titolo di mater castrorum (che era stato coniato per Faustina, moglie di Marco Aurelio).
Protettrice di giuristi, poeti e filosofi, Giulia Domna era figlia del grande sacerdote del Sole di Emesa, e aveva contribuito a favorire la diffusione di questo culto a Roma e nelle province occidentali dell’Impero, ma che particolarmente nell’Africa nord occidentale aveva trovato fertile terreno con il sincretismo con le divinità locali di derivazione punica.
I due figli della coppia imperiale, Caracalla e Geta, a dispetto del desiderio del padre che li voleva uniti nel dominio, non andavano d’accordo. Il ritratto di Geta bambino, prestato dalla Gliptoteca di Monaco di Baviera, con la sua aria malinconica sembra preludere alla sua tragica fine. Caracalla, che già aveva rivelato la sua indole sanguinaria con l’uccisione del suocero Plauziano, lo fece uccidere poco tempo dopo la loro ascesa congiunta al trono e a nulla era valso a Geta rifugiarsi tra le braccia della madre. Colpito da damnatio memoriae, la sua immagine e il suo nome furono erasi dai monumenti severiani, come si vede nell’iscrizione dell’Arco di Settimio Severo e nell’Arco degli Argentari. Ma anche Caracalla sarà ucciso a sua volta in una congiura ordita dal suo prefetto del pretorio Macrino (che si proclamò imperatore al suo posto) e dopo di lui Elagabalo, e ancora Severo Alessandro, che sarà assassinato a Magonza.
I reperti in mostra non sono tantissimi, ma di grande interesse, come per esempio i resti di un arco onorario attribuito a Settimio Severo, rinvenuto a Napoli nel corso degli scavi della metropolitana presso piazza Bovio, in particolare la parte di un pilastro con trofeo d’armi sul davanti e una scena marina di lato. Alcuni plastici ci fanno intuire lo splendore architettonico di una provincia romana come quella d’Africa, legato proprio all’ascesa al potere di Settimio Severo. Il Teatro di Sabratha e l’Arco di Settimio Severo a Leptis Magna ci colpiscono in particolare per le
soluzioni architettoniche e la ricchezza delle decorazioni. Decorazioni che abbondano anche a Roma nell’Arco di Settimio Severo realizzato per celebrare le vittorie dell’imperatore contro i Parti.
Proveniente da Gießen (in Germania), è esposto il Papyrus Gissensis 40 (215 d.C.) con la Constitutio Antoniniana, emessa da Caracalla probabilmente l’11 luglio 212. Si trattò di un provvedimento rivoluzionario che portava a compimento con un unico atto un processo plurisecolare di universalismo e cosmopolitismo dell’impero romano, iniziato due secoli prima con Augusto. Tra i giuristi di primo rango che elaborarono la riforma si ricorda Ulpiano, che è stato definito “il pioniere dei diritti universali dell’uomo”.
Il culto del Sole è ricordato in mostra da un’immagine di Sol rinvenuta a Roma nel mitreo di Santa Prisca. Anche se tutte le religioni erano diffuse all’epoca in quella che era una civiltà cosmopolita, indubbiamente per questi imperatori il culto del Sole, come già per i faraoni egizi, aveva una particolare valenza. Elagabalo deve il suo nome (che in realtà non usò in vita) al fatto di essere stato sacerdote del Sole (El Gabal in siriaco), ma, nonostante questo suo esser “pius”, è passato alla storia come un giovane fanatico e depravato, tanto da giungere a sposare una Vestale per realizzare una ierogamia sacra (ma empia agli occhi dei romani). Di lui ricordiamo anche il banchetto descritto nella Historia Augusta, durante il quale l’imperatore avrebbe sommerso di petali di rose i commensali, provocandone la morte, episodio che ha ispirato il grande dipinto di Lawrence Alma Tadema “Le rose di Eliogabalo”. Quanto a Severo Alessandro, pare che venerasse tutti gli dei e perfino Cristo.
Sono esposti anche alcuni pezzi marmorei della Forma Urbis: un preziosissimo strumento di conoscenza della topografia di Roma antica, conservata per il 10%, come ha spiegato Rossella Rea. Era affissa in un’aula del Templum Pacis (nella parete che ora si vede a sinistra dell’entrata della Basilica dei Santi Cosma e Damiano) ed era una pianta di catasto, redatta tra il 203 e il 209. Tra i frammenti esposti riconosciamo quelli relativi alle aree del Teatro di Marcello, del Circo Flaminio, del Ludus magnus (la palestra dei gladiatori che era collegata con il Colosseo), mentre due frammenti di recente ritrovamento, proprio all’interno dell’aula di culto del Templum Pacis, raffigurano una porzione di caserma, probabilmente nell’area del Celio, e un tratto dell’Acquedotto Claudio, nella zona dove ora è piazza della Navicella.
Il Templum Pacis, detto anche Foro della Pace, viene svelato per la prima volta in questa occasione attraverso l’inedito passaggio del clivus ad Carinas, che collegava la zona del Foro con l’Esquilino, e l’Arco del Ladrone, una galleria realizzata sotto la Basilica di Massenzio e così chiamata nel Medioevo per l’oscurità che la rendeva insicura.
Ci si può affacciare sulla grande aula del Tempio, il cui pavimento marmoreo in opus sectile è caratterizzato da marmi pregiati: notiamo in particolare la presenza del porfido rosso, estratto dalle cave imperiali in Egitto, e del pavonazzetto, mentre il granito rosa di Assuan era stato usato per le gigantesche colonne, rimaste a vista in sede di crollo. Un’immagine ricostruttiva ci mostra l’aula di culto con la grande statua della Pax, raffigurata con in mano un ramo d’ulivo. Il Foro della Pace fu iniziato da Vespasiano nel 74 dopo il trionfo della guerra giudaica e completato da Domiziano nel 75, ma, in seguito all’incendio del 192, venne restaurato dai Severi, come del resto lo stesso Colosseo, pure di età flavia e distrutto superiormente da un incendio nel 217.
Nel Palatino possiamo ammirare le Arcate Severiane, lo Stadio domizianeo restaurato in epoca severiana e, nella Domus severiana, la Sala dei capitelli, che, come ha ricordato Alfonsina Russo, nell’Ottocento era una specie di wunderkammer e in occasione di questa apertura “si è ricreata la stessa atmosfera”.
Indubbiamente si tratta di un ambiente per noi inedito che, oltre a esporre capitelli e architravi marmorei, conserva un bellissimo soffitto a lacunari di stucco.
La parte più affascinante della mostra è data proprio da questi nuovi percorsi, che, ci si augura, possano essere effettivamente fruibili anche dopo questo evento. Roma è ancora una volta con i suoi marmi e le sue architetture protagonista di un periodo storico di grande rilevanza artistica, ma il nostro pensiero corre a quelle meravigliose città libiche e siriane, evocate in mostra, che sono ai giorni nostri quasi irraggiungibili per le guerre che stanno distruggendo quel concetto di universalità, che caratterizzava un tempo i paesi del Mediterraneo.
Nica FIORI Roma novembre 2018
Roma Universalis. L’impero e la dinastia venuta dall’Africa
Parco archeologico del Colosseo
Dal 15 novembre 2018 al 31 agosto 2019. Orario: aperto tutti i giorni dalle 8,30 fino alle 16,30 (fino al 15 febbraio 2019, e poi con orario via via più allungato). L’ingresso si effettua fino a un’ora prima della chiusura. Biglietto: intero 12 €; ridotto 7,50 €; gratuito per gli aventi diritto. Il biglietto è valido due giorni e consente un solo ingresso al Colosseo e un solo ingresso al Foro Romano – Palatino. Prevendita e visite guidate: tel. 06 39 96 7700 http://www.coopculture.it