di Monica LA TORRE
Il nostro viaggio attraverso la storia della marina prosegue con il focus sulla compagine più sottaciuta, sconosciuta e in fondo – perché no – anche misteriosa della ricerca odierna: quella dello Stato della Chiesa
(prima parte: https://bit.ly/2VF2O9h)
Il quadro dello stato dell’arte della marina italiana alla vigilia dell’Unità non sarebbe completo senza una trattazione a parte della compagine meno conosciuta, studiata, e analizzata tra le forze navali dell’epoca: la marina pontificia. La flotta del Papa Re. Ovvero, quella sulla quale, complice la difficoltà oggettiva di reperire informazioni e documentazione, vige ancora una nebbia fitta.
Navi battenti bandiera “San Pietro e Paolo”
Le navi battenti bandiera papalina hanno di fatto avuto un unico, grande studioso, del quale si leggerà in seguito. Dopodiché, il buio pesto. Non a caso, il prof Marco Gemignani*, docente di storia navale all’Accademia Navale di Livorno, già autore della precedente trattazione sulle marine preunitarie, ha auspicato al termine della nostra conversazione il riaccendersi della ricerca in materia.
Come nasce la “Flotta di Dio”?
Ma come nasce questa flotta che tanta parte ebbe nel determinare gli equilibri di un mediterraneo conteso tra oriente ed occidente per mille anni, oggi totalmente scomparsa, tanto nella memoria collettiva quanto nel paesaggio urbano? E perché questa totale volatilizzazione delle sue tracce?
La battaglia di Ostia
«La sua nascita si fa risalire tradizionalmente all’849 dopo Cristo – dichiara il prof. Gemignani a tale proposito -, anno della battaglia navale di Ostia, che oppose una coalizione cristiana (alla quale avevano aderito, insieme al Papato, alcuni dei maggiori ducati dell’epoca, tra i quali Napoli, Amalfi, Gaeta e Sorrento) ad una flotta araba intenzionata a conquistare Roma. La battaglia, tenutasi di fronte all’antico porto di Roma, si concluse con la vittoria delle forze cristiane, e di fatto segnò un primo freno sul mare alla lunga stagione dell’espansionismo arabo, iniziata nel VII secolo. Da lì in poi, il Papato sarebbe stato molto attivo nella costituzione di leghe navali aventi l’obiettivo di difendere la cristianità dalla minaccia ottomana, trovando in età moderna nella Spagna un formidabile alleato. Il papa e il re spagnolo si muovevano insieme: e il papa si rivolgeva a lui, per poi coinvolgere insieme altre forze cristiane».
Capitana e Padrona
«Per secoli, la nave più usata dalla Marina pontificia era la galera o galea: a doppia propulsione, era un’unità che andava a vela e a remi, molto manovriera. La stessa tipologia, tra l’altro, la ritroviamo in uso anche presso gli ottomani e tutti gli altri Stati cristiani del bacino del Mediterraneo. I nomi classici di queste galere pontificie, all’epoca, sono davvero interessanti. La Capitana era il termine che si usava per indicare la nave ammiraglia. Padrona, l’appellativo della vice ammiraglia: sia queste che le altre navi più ordinarie avevano nomi di santi, come San Pietro, Sant’Andrea, San Clemente, San Francesco, San Petronio, San Pio, Santa Maria: quando una nave veniva mandata in disarmo, il nome veniva utilizzato per una nuova unità, ed è per questo motivo che nei documenti dell’epoca troviamo gli stessi nomi che ricorrono».
Gli arsenali
«L’arsenale e la base navale principali della Marina pontificia erano a Civitavecchia: nel Cinquecento l’infrastruttura fu potenziata e fortificata notevolmente da papa Giulio II, che affidò a Sangallo il Giovane e a Michelangelo la costruzione delle strutture nelle adiacenze del porto. Altre sedi erano Ancona ed il porto di Ripa Grande sul Tevere, quest’ultimo di importanza notevole sia per le attività commerciali, sia per la costruzione delle navi che venivano varate in quest’ultimo caso lungo il fiume. Inoltre nell’Ottocento la Marina pontificia aveva in servizio sul Tevere dei rimorchiatori che permettevano ai navigli di risalire la corrente, e raggiungere il centro città. Molte tracce delle attività della Marina pontificia, nella capitale, sono andate perse con la costruzione dei muraglioni che impediscono le esondazioni del Tevere, ma vi sono ancora delle costruzioni dell’antico arsenale che potrebbero essere recuperate e trasformate in un museo che racconti la storia delle navi dei papi. È interessante notare che pure la Marina toscana aveva sulla riva settentrionale dell’Arno, a Pisa, il suo arsenale: qui venivano assemblate le galere, poi solitamente completate a Livorno».
La riorganizzazione del Settecento
E ancora, tornando alla Marina pontificia: «Nel 1775 essa aveva vissuto un discreto salto di qualità, dato che, sull’esempio di quanto stava accadendo nelle altre Marine mediterranee, anche quella pontificia aveva iniziato ad annoverare navi a vela. Le prime moderne navi esclusivamente a vela che entrarono in servizio furono due fregate dai nomi indicativi, la San Paolo e la San Pietro, acquistate in Gran Bretagna». Nel 1786, ad affiancare la Marina da guerra pontificia, fu organizzata da monsignor Ruffo una marina di dogana, formata da navi piuttosto piccole, in sostanza feluche e grosse lance, in grado di garantire una vigilanza commerciale della costa».
Un comune nemico: Napoleone
«All’epoca, in Italia, non erano molti gli arsenali in grado di costruire tipologie di navi di tal genere, ed i grandi cantieri erano oberati di lavoro. Pensiamo ad esempio a Castellammare di Stabia, fondato alla fine del Settecento, e già impegnato fortemente per la riorganizzazione della Marina delle Due Sicilie voluta da Ferdinando IV. La borbonica, per inciso, aveva avuto un deciso salto di qualità grazie ad un inglese, John Francis Edward Acton. Costui, già intervenuto con successo sulla marina toscana di Pietro Leopoldo, aveva poi proseguito con il riorganizzare anche quella borbonica ispirandosi alla britannica ed alla francese, le più grandi e potenti dell’epoca. Ripeto: è un errore sottovalutare la flotta dei Borbone. Era un’ottima forza, se consideriamo il suo ambito d’azione, il Mediterraneo. Dopo questa fase di notevole sviluppo nell’ultimo quarto del Settecento, vi fu una crisi con l’arrivo dei francesi. I Borbone dovettero lasciare in fretta Napoli e riparare in Sicilia e, non essendovi in quel momento abbastanza marinai per trasferire le navi che erano ormeggiate nella capitale del Regno, parte di esse dovettero essere bruciate per evitare che cadessero in mano ai francesi. Una pagina tristissima della nostra storia».
Una lenta agonia
Anche per la Marina pontificia, l’arrivo di Napoleone si rivelò fatale. «Nel 1798 passarono sotto il suo controllo anche le poche navi della flotta papale – prosegue Gemignani -. Nella fattispecie, le navi della Marina pontificia vennero impiegate per la disastrosa spedizione in Egitto, ed andarono perdute». Dopodiché, passato il periodo napoleonico, per le poche navi battenti la bandiera di San Pietro, fu una lenta agonia. «Ricordiamo tra l’altro che con la caduta di Algeri e la scomparsa della corsa barbaresca, era venuta meno anche la funzione difensiva delle navi. Gran parte delle incursioni compiute dai nordafricani, finalizzate non tanto alle uccisioni, quanto alle razzie e al reperimento di prigionieri, partiva da quella città, sede di un fiorentissimo mercato degli schiavi. Interessante ricordare, a proposito, l’alto numero di confraternite nate nel Cinquecento e nel Seicento con lo scopo di reperire i fondi per liberare i prigionieri non in grado di pagare il riscatto. Insomma: con la caduta di Algeri, il Mediterraneo diventò senza dubbio un mare più tranquillo, e l’impiego dei navigli militari di alcuni Stati che vi si affacciavano fu ricondotto prevalentemente a scopi diplomatici, di vigilanza doganale e sanitaria. L’ultimo impegno bellico della Marina pontificia fu nel 1848, quando partecipò alla fase iniziale della Prima Guerra d’Indipendenza».
I piemontesi ad Ancona
E ancora: «Con la conquista di Ancona da parte dei piemontesi, nel settembre del 1860, Roma perse il suo sbocco sul Mare Adriatico, e la Marina pontificia finì con il contrarsi definitivamente per numero di navi e personale. Le poche unità rimaste a Civitavecchia furono requisite dagli italiani durante la guerra contro lo Stato della Chiesa, il cui evento più importante fu la Breccia di Porta Pia il 20 settembre 1870: e comunque si contavano sulle dita di una mano. L’unica nave che rimase a disposizione di Pio IX era quella più grande della flotta pontificia, l’Immacolata Concezione, una pirocorvetta ad elica costruita in Gran Bretagna».
L’Immacolata Concezione
Quest’ultima, in particolare, era stata una delle ultime unità armate in servizio, costruita nei cantieri inglesi di Thames Iron Shipbuilding Co., a Blackwall, e consegnata a Civitavecchia nel 1859. Lunga 54 metri e dotata di 8 cannoni, poteva contare su un equipaggio che variava dai 46 ai 52 uomini. Acquisita per essere lo yacht papale, da impiegarsi per viaggi oltremare ed anche per un pellegrinaggio in Terrasanta che non venne mai compiuto, causa le vicende unitarie, venne affidata nel 1871 dal papa all’ammiraglio Alessandro Cialdi che la portò a Tolone. Qui rimase in disarmo fino al 1877. Ceduta alla scuola domenicana di Arcachon, ed ivi impiegata a scopi didattici, venne venduta all’armatore Guillard a causa delle difficoltà economiche dell’istituto. Il fallimento dell’armatore condanna la nave all’oblio: della pirocorvetta, sede degli esperimenti scientifici di Angelo Secchi sj, da lì in poi si perderanno le tracce.
Gli studi: una lacuna da colmare
Infine una riflessione sul silenzio che da anni regna sulla storia della Marina pontificia. «Sarebbe opportuno che si tornasse ad approfondire la questione. È una materia sostanzialmente rimasta in ombra… È stata, a suo tempo, oggetto di una ricerca poderosa, ad opera del teologo domenicano Alberto Guglielmotti: ma sono passati circa 150 anni da quegli studi e sarebbe il caso di tornare ad occuparsene. Certo, l’opera di questo studioso, Storia della Marina pontificia è ancora considerata un caposaldo. Figlio di un ufficiale di Marina, nato a Civitavecchia nel 1812 e morto nel 1892 alla venerabilissima età – per il periodo – di 80 anni, entrò nell’Ordine dei Domenicani nel 1827. Iniziò ben presto a compiere delle ricerche proprio sulla Marina pontificia ed a queste lavorò per oltre vent’anni. I primi libri furono pubblicati all’inizio della seconda metà dell’Ottocento e alla fine del secolo papa Leone XIII riunì l’intero corpus, facendolo ristampare in una decina di volumi dalla Tipografia Vaticana. Tra l’altro si deve a lui anche il Vocabolario marino e militare che nel 1889 fissò un lungo elenco di termini marinari arcaici o in disuso. Senza questo ausilio prezioso oggi la ricerca e l’interpretazione dei documenti sarebbe ben più ardua. Raccogliere la sua eredità e dare nuovo slancio e nuova linfa a questi studi, sarebbe molto importante per conoscere le vicende di una delle Marine più antiche della nostra Penisola».
L’AUTORE
MARCO GEMIGNANI, ricopre dal 1996 l’incarico di docente di Storia Navale presso l’Accademia Navale di Livorno, uno degli ultimi avamposti della cultura e della ricerca sul campo.Autore di circa centocinquanta pubblicazioni in Italia e all’estero, ha presentato proprie relazioni in oltre un centinaio di convegni. La Marina Militare gli ha assegnato la carica di consigliere per la pubblicistica navale dello Stato Maggiore, di consulente del Museo Tecnico-Navale della Spezia e del Museo Storico-Navale di Venezia e infine di membro del Comitato Consultivo dell’Ufficio Storico della Marina Militare.
Monica LA TORRE Foligno 5 luglio 2020