di Marco FIORAMANTI
DADA Atto intellettuale assoluto
Marcel Duchamp, L.H.O.O.Q., 1919. Tecnica mista su tavola, cm 19,7×12,4
FIG. 1
Un movimento liberatorio che ha codificato l’assurdo nell’arte e ne ha introdotto l’avvento del caso. Grazie alla sua componente insurrezionalista ebbe grande diffusione internazionale. Marcel Duchamp e il Grande Vetro.
COGITO, ERGO CREATOR SUM?
Nel 1915 Marcel Duchamp partì dal presupposto che qualunque oggetto, se contestualizzato, può essere considerato opera d’arte. Attraverso il ready-made elevò l’oggetto di uso comune su scala industriale a opus magnum, cancellando la figura dell’artista genio-creatore. Nel 1966 Sol LeWitt, nel redigere il Manifesto della Minimal Art teorizzò il concetto secondo cui la realizzazione dell’opera è ritenuta attività superflua e compito dell’artista è solo quello di formulare il progetto, delegando ad altri, con precise istruzioni, la realizzazione dell’opera. La grandezza di quest’ultima si dedurrebbe dunque solo dai bozzetti, schizzi e appunti, non certo dall’opera finita. Lo scultore Alberto Viani (1906-1986), a detta del suo fonditore, non realizzava di sua mano neanche i gessi, limitandosi ai soli schizzi. Dovremmo forse scomodare Michelangelo per convincerci che l’Artista è homo faber, e che il processo di creazione parte sì dall’idea, e si sviluppa nei disegni, bozzetti e cartoni, ma deve passare – i n e v i t a b i l m e n t e – dalla mano viva del Maestro per avere l’opera compiuta? Certo, non necessariamente sdraiato col pennello sul ponteggio della Sistina!
“Ciò che noi chiamiamo DADA è una follia sorta dal niente, nella quale entrano in gioco tutte le domande più alte…”. Hugo Ball
Quale sia l’origine del termine Dada importa poco in questa sede. Le leggende sono tante e tutte legittime (dalla parola trovata aprendo a caso il vocabolario al nome della coda della mucca per i neri Kru all’affermazione in slavo da-da = sì). Si tratta di un movimento radicale, anti-artistico e anti-poetico, volto a esaltare l’aspetto spontaneo, immediato, contraddittorio, trotzkista dell’arte (in ogni momento per vivere Dada deve distruggere Dada). Il gesto sottile, incisivo, casuale evidenzia l’importanza della scelta rispetto alla capacità manuale, mantenendo sempre viva l’espressione molto spesso finalizzata allo scandalo. Dada segna nell’arte e nel costume un momento di libertà assoluta fino ad annullare il concetto di tempo storico e di rapporto causa/effetto con le esperienze artistiche del passato. Con l’avvento del Dada l’arte si manifesta nella sua istantaneità, è un puro prodotto intellettuale. È l’intenzione che fissa l’opera, semplice oggetto o somma di oggetti del quotidiano, nel suo farsi tale. L’attimo in cui l’immagine di un oggetto imprime per la prima volta la sua forma sulla rètina è l’attimo Dada assoluto che, col tempo, perde la sua assolutezza e diventa cosa.
“Libertà: DADA, DADA, DADA, urlìo di colori increspati, incontro di tutti i contrari e di tutte le contraddizioni, di ogni motivo grottesco, di ogni incoerenza: la vita”. Tristan Tzara
FIG. 2
Dada a Zurigo, le origini
5 febbraio 1916. Zurigo, Spiegelgasse 1. Hugo Ball (1886-1927), poeta, scrittore, filosofo e intendente teatrale, insieme alla futura moglie, Hemmy Hennings, inaugura il circolo letterario Cabaret Voltaire. La Svizzera, unico paese neutrale al centro degli eventi bellici, accentrava rifugiati di ogni genere, artisti, pacifisti, rivoluzionari (al 12 della Spiegelgasse abita Lenin fino all’aprile del 1917). A seguito di un annuncio stampa per invitare giovani artisti, ecco che si presentano da Budapest, Tristan Tzara (focoso giovane poesta) e Marcel Janco (pittore e architetto, sua la copertina della rivista Dada n.1-3, Zurigo 1917-18, foto a lato), da Zurigo, Hans Richter e Hans Arp. Poi da Berlino, Richard Huelsebeck. Il fatto di non essere un movimento organizzato e soprattutto il fatto di esprimere e riflettere uno spirito comune di quei tempi, permise a Dada di diffondersi e attivarsi in numerose città europee come Berlino, Barcellona, Mosca, Roma, Colonia, Budapest e oltreoceano. Si deve al fotografo statunitense Alfred Stieglitz il merito della diffusione di Dada negli USA e dell’arte americana in Europa. Nelle sue riviste Camera Work e 291 riunì a New York tutti gli artisti d’avanguardia.
Berlino, Hannover, Colonia
Non fu affatto difficile ad Huelsenbeck aprire il terreno in una città come Berlino che già possedeva un gruppo ribelle pronto a fare di Dada il proprio simbolo. I nomi, Georg Grosz, grande pittore e disegnatore anti-borghese, l’aggressivo Raoul Hausmann, pittore, scrittore e filosofo, i fratelli Wierland ed Helmut Herzfelde (che si faceva chiamare americanamente Hearthfield). Al gruppo si unì poi l’architetto Johannes Baader e molti altri. L’idea nuova del Dada berlinese fu il fotomontaggio, mentre ad Hannover troviamo, al di sopra di tutti i grandi assemblaggi – i famosi quadri Merz – dell’instancabile Kurt Schwitters, introdotto da Arp alla tecnica del collage, il quale poi seguì la linea di Duchamp affermando che tutto ciò che sputa l’artista è arte. I dadaisti di Colonia furono rappresentati invece ufficialmente nella Prima Fiera Dada Internazionale di Berlino. Troviamo il primo Max Ernst con lo pseudonimo di Dadamax, in seguito grande surrealista, Johannes T. Baargeld e Arp venuto da Zurigo. Scrive Tzara per l’occasione, Nel glaciale silenzio di una spietata introspezione, nello stato intermedio tra il sonno e la veglia, si è sviluppata l’attività poetica di Max Ernst, una ebbrezza, un contatto continuo tra un mondo figurativo attraente e la sensibile personalità che li abbraccia.
FIG. 3
(Nella foto il gruppo DADA; da sin. in alto: Louis Aragon, Théodore Fraenkel, Paul Eluard, Clément Pansaers, Emmanuel Fay; al centro: Paul Dermée, Philippe Soupault, Francis Picabia, Georges Ribemont-Dessaignes; in basso: Tristan Tzara, Céline Arnauld, André Breton).
“Considero la pittura come un mezzo di espressione, e non come un punto di arrivo […]. E lo stesso per il colore che non è che uno dei mezzi di espressione non il fine della pittura. In altri termini la pittura non deve essere esclusivamente visiva o retinica. Deve interessare anche la materia grigia, il nostro appetito di comprensione. È così di tutto quello che amo: non ho mai voluto limitarmi a un cerchio ristretto e ho sempre cercato di essere tanto universale quanto era possibile”. Marcel Duchamp
Marcel Duchamp
Artista francese, Marcel Duchamp (1887-1968) fece del rifiuto delle regole la sua pratica di vita e d’arte. Viene considerato il massimo rappresentante del Dadaismo, pur non avendo mai accettato l’appartenenza al gruppo. Dopo esperienze pittoriche che hanno attraversato tutte le avanguardie del suo tempo, dal post-impressionismo al fauvismo al cubismo, egli uscì dal quest’ultimo quando l’opera Nu descendant un escalier (FIG. 4) gli fu rifiutata dal Salon des Indépendants perché “troppo futurista”. Esposta poi nel 1913 alla mostra International Exibition of Modern Art l’opera suscitò scandalo e divenne famosa al grande pubblico. Scriveva Duchamp, La pittura non dovrebbe essere soltanto retinica o visiva, dovrebbe avere a che fare con la materia grigia del nostro intelletto, invece di essere puramente visiva. Quello che l’autore vuole proporre con le molteplici invenzioni tecniche della sua attività artistica non è uno stile, ma un atteggiamento verso l’arte e verso la vita. Nel 1915 lascia la Francia per trasferirsi a New York dove, in stretto contatto con Man Ray e Picabia, inizia quell’operazione graffiante e dissacratoria che lo porterà al ready-made. Un esempio per tutti, l’opera Fountain, presentata nel ’17 con lo pseudonimo di R. Mutt e rifiutata dalla giuria, di cui lo stesso Duchamp faceva parte. In questo caso l’artista rovescia provocatoriamente un orinatoio, per definizione privo di qualunque aura estetica, ponendolo su un piedistallo. Ribalta così il senso stesso dell’arte costringendo l’osservatore a riflettere sulle infinite questioni sul significato dell’arte, dell’opera e del suo autore. Così per lo Scolabottiglie e la Ruota di bicicletta posta rovesciata su uno sgabello.
Lettera di Marcel Duchamp a Jean Suquet, critico d’arte (New York, 25 dicembre 1949)
Caro Suquet
Ho ricevuto con piacere la vs lettera e quasi contemporaneamente il lungo testo che mi ha riempito di gioia. Voi sapete senza alcun
dubbio che siete il solo al mondo ad aver ricostituito la gestazione del “verre” (Il Grande Vetro, FIG.5) senza i particolari, anche con le numerose intenzioni mai realizzate. Il vostro paziente lavoro mi ha permesso di rivivere lunghi anni nei quali furono scritte le note della Scatola Verde nello stesso tempo in cui il Verre prendeva forma; e vi confesso che, non avendo riletto queste note dopo tanto tempo, avevo perso completamente il ricordo dei numerosi punti, non illustrati sul vetro che m’incantano ancora. Una cosa importante per voi è che voi sappiate quanto devo a Raymond Roussel (1) che mi ha liberato, nel 1912, di tutto un passato fisico-scultoreo da cui io cercavo già di uscire. Una rappresentazione al teatro Antoine di “Impressions d’Afrique” alla quale ho assistito con Apollinaire e Picabia nell’ottobre o novembre del 1912 (vi pregherei di controllare la data) fu una rivelazione per noi tre; in quanto si trattava veramente di un uomo nuovo in quel momento. Ancora oggi considero Raymond Roussel di certo il più importante che non ha fatto scuola. Naturalmente, caro Suquet, fate riprodurre tutto ciò che reputate necessario al vostro testo così luminoso. Avoir l’apprenti dans le soleil (Avere l’allievo nel sole) (FIG.6) se ben mi ricordo esattamente la frase che accompagna il profilo del ciclista che sale una montagna, facente parte di una breve serie di testi brevi in una scatola a immagini fotografiche (1912 o 1913?); io sono felice che voi abbiate potuto vederne un esemplare (ce n’erano soltanto tre) da Villon che sa molte cose sul mio conto. Servitevi naturalmente dell’apprenti se pensate ne sia degno. Un punto importante anche se voi avete sentito così esattamente, porta all’idea che il Vetro, in fin dei conti, non è fatto per essere guardato con occhi estetici, doveva essere accompagnato da un testo letterario il più possibile amorfo, che non prende mai forma; e i due elementi, vetro per gli occhi, testo per le orecchie e l’idea doveva completarsi e soprattutto impedire l’un l’altro di assumere una forma estetico-scultorea o letteraria. Dopotutto io vi riconosco l’abilità di aver messo a nudo la mia messa a nudo. Molto cordialmente Marcel Duchamp
1. Raymond Roussel (1877-1933), scrittore e poeta plurimilionario, sacrificò tutto alla sua unica passione: la letteratura. I suoi libri non riscontrarono in vita alcun successo, ma con i romanzi Impressioni d’Africa e Locus Solus attirò le attenzioni di dadaisti e surrealisti. La sua tecnica narrativa nascondeva un «procedimento» segreto: Roussel sceglieva due enunciati identici e congegnava un racconto che iniziava con il primo e che si concludeva in modo logico con il secondo. Nel mezzo c’era la creazione imprevista dovuta a combinazioni foniche. Il procedimento favoriva l’espressione del suo inconscio, che affiorava con i suoi fantasmi prediletti: supplizi e temi sadici, rebus e invenzioni pseudo-scientifiche. Gli ultimi vent’anni della sua vita li passò viaggiando. Morì a Palermo il 14 luglio 1933, al Grand Hôtel et des Palmes, per un’intossicazione da barbiturici. Fu definito da Breton «il più grande magnetizzatore dei tempi moderni» e negli anni ’60 fu considerato l’iniziatore del Nouveau Roman.
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à voir: l’empreinte qui dans le sol est = osservate l’impronta che è in basso, a terra
Il Grande Vetro
Una delle più enigmatiche espressioni dell’arte del Novecento è La mariée mise à nu par ses célibataires même, nota soprattutto come Le Grand Verre, (Philadelphia Museum of Art, collezione Arensberg). L’autore ci introduce in una dimensione completamente nuova, per tentare di trasmettere al fruitore – come scrive nella lettera a Suquet – qualcosa che non si potesse percepire con gli occhi. Si tratta di una grande lastra di vetro trasparente all’interno della quale vengono riprodotte le opere dell’artista. Ma il discorso è molto più complesso. Bisogna partire dal gioco delle omofonie, secondo cui la pronuncia di una stessa frase trasforma il significato a seconda di come viene scritta o di come sono accorpate tra loro le singole sillabe. Uno dei ready-made è un finestra in stile francese che porta il titolo di Fresh Widow (Vedova Impudica), giocando sulla corrispondente pronuncia del testo French Window (Finestra Francese). Duchamp, ispirato da Raymond Roussel che ne traeva materia fondante per i suoi romanzi, fece di questi giochi linguistici il suo alone di mistero. Il Grande Vetro è un’immensa opera simbolica sottoposta a un’infinita serie di interpretazioni secondo raffigurazioni alchemiche tanto care all’artista. Il titolo La mariée mise à nu par ses célibataires même (La sposa messa a nudo dai suoi scapoli) diventa per omofonia La Marie est mise à nue par ses céli-batteurs même (Maria è messa nella nuvola dai propri battitori celesti). L’iconografia del Grande Vetro, diviso in due metà uguali, vede in alto la zona celeste, l’Assunzione simbolica della Vergine, messa nella nuvola, e in basso il sarcofago, da cui la Madonna è uscita e dove attendono gli astanti. L’enigma del titolo, criptico per sua congenita ironia, resta in ogni caso irrisolto, come una formula magica che l’autore consegna al fruitore, offrendogli varie chiavi di lettura, tutte valide per risolvere il grande enigma.
L.H.O.O.Q.
L’opera forse più conosciuta di Marcel Duchamp è il gesto dissacrante nei confronti della Gioconda, prodotto dell’artista nel 1919 con dei brevi tratti a matita su una riproduzione della Monna Lisa formato cartolina. Come titolo usò una sequenza di lettere, L.H.O.O.Q., apparentemente incomprensibili, le quali lette in rapida successione secondo lo spelling francese, portano a dissacrarla, Elle a chaud au cul (Lei ha caldo al sedere). Ma accanto all’aspetto ironico bisogna tener presente sempre quello serio, impegnato, il modello alchemico e androgino di Duchamp. Scrive Arturo Schwarz, suo collezionista, La decifrazione delle lettere, indicata dallo stesso artista, ci fornisce la chiave di lettura dell’opera, che simboleggerebbe in termini alchemici l’unione di ciò che è al di sopra (uomo-fuoco-terra) con ciò che è al di sotto (donna-acqua-luna), vale a dire la conjunctio oppositorum fra il Sole (sole/Scapolo) e la Luna (Luna/Sposa). Non contento del gesto irriverente, molto anni più tardi Duchamp completò l’operazione manipolatoria del capolavoro leonardesco eliminando baffi e barba titolando l’opera, Rasée, distruggendo ancora una volta una delle icone più famose della società borghese attraverso l’atto, beffardo e trasgressivo, di Dada.
Rrose Sélavy
Una foto di Man Ray pubblicata nel 1921 sul New York Dada (FIG. 7) ritrae Duchamp nelle sembianze di Rrose Selavy – la cui omofonia porta a Eros, c’est la vie (L’eros è la vita). Indossa un cappellino con interessanti motivi geometrici prestatogli da Germaine Everling, compagna di Picabia e una stola di volpe. Il viso e la bocca ben truccati accennano un sorriso. In qualche modo indifferente e misterioso, che richiama quello della Gioconda su cui aveva già operato in precedenza con baffi e pizzetto. L’ambiguità tra maschile e femminile è presente in molte opere di Duchamp. L’artista cerca di distinguere, mescolandoli, diversi ambiti operativi, tornando però sempre al concetto base, secondo il quale un oggetto comune può essere assunto a opera d’arte a seconda del contesto in cui è collocato.
Neo-DADA
A cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta si manifesta negli USA un chiaro ritorno al DADA europeo. Gli esponenti più autorevoli sono Robert Rauschenberg il quale, con i suoi combine-paintings, annulla la separazione tra oggetto artistico e quello extra-artistico; Jim Dine e Jasper Johns analizzano invece il rapporto tra oggetto e immagine rappresentata. Anche in Italia nacque l’interesse per l’oggetto, Pino Pascali e Piero Manzoni rendono l’arte immediata ed esauribile. Il primo cerca di inserire l’opera sul banco del supermarket. Il secondo è convinto della grande complementarità tra arte e gioco.
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