di Fabio SCALETTI
Pubblichiamo in anteprima su gentile concessione dell’autore, Fabio Scaletti, il testo e le immagini del documento inedito scovato presso l’Archivio di Stato di Roma dalla ricercatrice dott.sa Nadia Bagnarini riguardante una ‘donna piangente assisa colla faccia ascosa’; il documento riferito al dipinto in collezione privata raffigurante la Maddalena addolorata (o piangente) ne attesta l’autografia caravaggesca. Pubblichiamo con piacere il testo come facciamo sempre quando ci sia un rilievo professionalmente adeguato da parte di chi scrive e sempre che siano rispettate le opinioni di tuttI. Il quadro, già noto ed esposto in varie mostre, verrà ripresentato in una esposizione a cura di Pierluigi Carofano e Tamara Cini dal titolo Miti, Eroine e Ribelli. Tra Caravaggio, Artemisia e Tamara de Lempicka, che si tiene a Noto dal 23 aprile al 30 ottobre.
Ill.mo Sig de Renes,
Come volevasi su sua indicatione, si vide giovedì scorso il quadro del Caravaggio raptnte una donna piangente assisa colla faccia ascosa, di palmi cinque per alto. La tela fu tenuta per buona dal Donadei, da voi stesso nominato. In quanto al prezzo, s’è risolto per 80 scudi, ma si doverà altri dieci per la mancia al pittore, credo che qual sarà di vostra sodisfatione. Secondo il vostro ordine, disporrò la lettera de credito da voi mandatami.
di Roma li 28 novembre 1607
Jacobo Fossano
Quando all’inizio dell’anno in corso mi è stato fatto conoscere il documento, di recente scoperto nell’Archivio di Stato di Roma[1], che riportava queste righe, mi sono subito accorto della sua eccezionale importanza nel percorso critico di un dipinto, la Maddalena addolorata (o piangente) di collezione privata romana, che mi era noto da tempo e che nel mio Catalogo ragionato del Caravaggio avevo collocato tra le opere attribuite e dibattute[2] perché, se il quadro era forte dal punto di vista stilistico e iconografico (è identico alla figura, tra l’altro quella più in primo piano, situata nel quadrante inferiore destro della celeberrima Morte della Vergine oggi al Louvre[3] – fig. 1)
e solido sotto il profilo delle analisi scientifiche, l’assenza di una citazione nelle antiche fonti o carte inventariali giustificava per certi versi la mia ritrosia ad ammettere che Michelangelo Merisi detto il Caravaggio approntasse, per le composizioni più complesse come una pala d’altare, una specie di dipinto di prova settoriale, da sfruttare poi, replicandolo e quasi inglobandolo, nel dipinto definitivo, ferma restando, anzi con ciò implicando come premessa, la rinuncia (nella prassi ma anche ideologica) da parte del nostro artista allo strumento disegnativo cartaceo preliminare alla composizione, a cui avrebbe fatto da aborrito filtro idealizzante[4].
Ora, la lettera ha una “eloquenza” tale da fugare ogni perplessità, perché ci dice che a poco tempo – due anni scarsi, con Caravaggio stesso domiciliato a Malta dopo essere scappato da Roma – dall’esecuzione della pala d’altare (1605-1606) e quindi del connesso dipinto qui esaminato, esisteva ed era oggetto di stima e vendita un quadro come quest’ultimo, e ce lo dice chiaramente e inequivocabilmente, perché l’immagine descritta corrisponde ad esso ad unguem (e collimano pure le dimensioni) mentre non si attaglia alle altre “Maddalene” conosciute del Merisi (come la Maddalena penitente Doria Pamphilj e la Maddalena in estasi, il cui originale coincide con l’esemplare scoperto nel 2014, già dei conti Pacelli a Terni, oggi in collezione svizzera), né può riferirsi a un eventuale perduto ritratto muliebre, essendo difficile, per non dire inconcepibile, che una donna si faccia raffigurare – nel caso di un ritratto nel vero senso della parola – in lacrime e soprattutto con il viso nascosto. Senza contare, aspetto che sotto un certo profilo fa chiudere il cerchio, che il de Renes, destinatario della missiva e acquirente del quadro, era francese, e in Francia, in un’asta a Vichy, esso è riapparso giusto vent’anni fa (maggio 2002), come opera di scuola caravaggesca[1].
Dunque il documento ritrovato parla da solo e consente a mio avviso di superare l’anomalia procedurale del dipinto, che allo stato attuale degli studi sarebbe l’unico caso di “quadro-bozza di prova” (termine non del tutto appropriato in quanto trattasi di un’opera fatta e finita) del corpus autografo caravaggesco, e del resto questo scenario era stato delineato dal primo sostenitore dell’opera, Francesco Petrucci, che in un particolareggiato articolo del 2004[2] ha definito il dipinto “un vero e proprio modello in scala” della figura della Maddalena presente nella Morte della Madonna, confermandosi nel 2006[3] quando scrive che si tratta “di un modello per quella figura, anche se non si può escludere la possibilità di un’invenzione autonoma, poi riutilizzata nella grande pala”, incontrando il consenso di Denis Mahon, per il quale siamo di fronte a “un try-out che il pittore avrebbe fatto solo per suo uso personale, come prova di studio da utilizzare per un dipinto di grandi dimensioni”, per la cui stesura studiava appunto “le singole figure dipingendole effettivamente dal vero ma su una tela di formato più piccolo rimediata all’interno dello studio”[4], tesi che a parere di Claudio Strinati costituisce “un argomento significativo da prendere in seria considerazione[5], in ciò condiviso da Pierluigi Carofano[6], che giudica l’opera “una delle scoperte recenti più stimolanti della produzione pittorica del Maestro lombardo” e che “potrà contribuire ad aprire la via a nuove scoperte, nuove riflessioni sulla produzione e soprattutto sulla tecnica” del sommo pittore, e da Giacomo Berra[7], per il quale “possiamo supporre che il Merisi potrebbe aver dipinto anche dei singoli ‘bozzetti-modelli’ di preparazione di suoi quadri complessi”, facendo puntualmente l’esempio della Maddalena addolorata, quadro che “potrebbe essere stato eseguito dall’artista lombardo proprio come preparazione per la sua Morte della Vergine ora al Louvre”[8]. Anche per Mina Gregori è opera “suggestiva e commovente”, “che il Merisi ha dipinto come studio preparatorio per la grande pala”.
Che il quadro preceda (e non segua) il capolavoro oggi al museo parigino è comprovato indirettamente e storicamente dall’improbabilità che quest’ultimo sia stato oggetto di totale o parziale copiatura a Roma ante novembre 1607 (quando l’opera qui in discussione stava per essere comprata dal de Renes), perché come è noto la pala d’altare – commissionata nel 1601 dal giurista Laerte Cherubini per la chiesa di Santa Maria della Scala in Trastevere, eseguita tra il 1605 e il 1606 e rifiutata dai padri carmelitani per lo scarso decoro della figura di Maria priva di vita – subito prese, su consiglio del Rubens, la strada per la collezione dei Gonzaga di Mantova dopo essere stata esposta nel palazzo di Giovanni Magni, ambasciatore ducale presso la Santa Sede, all’ammirazione dei pittori e degli intenditori d’arte per una settimana nell’aprile del 1607 con il divieto di essere riprodotta[9]. Ma è dimostrato anche direttamente e tecnicamente, perché mentre il quadro sub judice presenta alle indagini diagnostiche incisioni e “pentimenti”[10] (fig. 2), tipici del modus operandi del Caravaggio, che dipingeva alla prima di fronte al modello, la zona corrispondente nella pala d’altare non manifesta in radiografia né tratti incisi né mutamenti sostanziali, come se questa figura fosse replicata da un modello preesistente[1].
Va comunque detto che proprio una tale figura è iconograficamente sorprendente all’interno del tema del Transito della Madonna, dato che, come aveva osservato Walter Friedlaender, è stata “riesumata” e naturalmente reinventata dal Merisi dopo tre secoli, quando in Italia appariva nelle immagini trecentesche e dal Duecento faceva capolino sul timpano della Cattedrale di Strasburgo[1] – fig. 3).
Se la Maddalena addolorata è stata eseguita prima della Morte della Vergine, allora – in alternativa all’ipotesi, al momento privilegiata, che essa sia il risultato della raffigurazione in diretta di un dettaglio di quella sorta di tableau vivant che veniva predisposto dall’artista nel proprio studio per la realizzazione dei lavori con molti personaggi – si potrebbe pensare, come ha fatto Giorgio Cortenova, che essa sia magari separabile dalla pala d’altare, reputando che “sia nata in modo autonomo e solo in seguito, nell’urgenza di dipingere la pala del Louvre, Caravaggio abbia pensato di utilizzarla”, sicché il quadro, potremmo dire, dovrebbe essere semmai battezzato Allegoria della malinconia, dal momento che esso scaturirebbe “da una sorta di premonizione per quella dannazione che porterà all’omicidio di Ranuccio Tomassoni, il 28 maggio 1606: quasi un pentimento anticipato e una malinconia che disegna quelle spalle curve e quel volto che si nasconde al nostro sguardo”[1]. Sarebbe pertanto una speciale riedizione di quanto era avvenuto qualche anno prima con un’altra “Maddalena”, la Maddalena penitente Doria, dove l’artista, stando al biografo Bellori (1672), aveva trasformato in Maddalena soltanto all’ultimo momento “una fanciulla a sedere sopra una seggiola con le mani in seno in atto di asciugarsi li capelli”.
Sia o non sia il nostro quadro un sinistro presagio, Caravaggio, sulla sedia, all’inizio dipinta interamente in luce[1], perché i raggi luminosi provenienti dall’alto non erano bloccati dal corpo di chi si sarebbe accomodato, ha fatto prender posto una sua amica, probabilmente la stessa che circa due anni prima aveva recitato sempre la parte di Maddalena in un’altra pala d’altare, la Deposizione di Cristo (Pinacoteca Vaticana[1] – fig. 4), disponendola in un atteggiamento che rappresentasse la disperazione e la tristezza: là, nella Deposizione Vaticana, per la morte di Cristo, qui, nella Maddalena piangente di collezione privata, per la morte della Madre di Cristo, ovvero per la morte universalmente intesa, e per questo senza volto[2].
Fabio SCALETTI Milano, 17 Aprile 2022
NOTE