La Medusa? Caravaggio ne dipinse due! Un inedito contributo su uno dei ‘quesiti caravaggeschi’ più dibattuti

di Fabio SCALETTI

Proseguiamo l’idagine sulla tecnica esecutiva di Caravaggio ospitando uno studio integrale ed inedito che l’autore, Fabio Scaletti, ha gentilmente concesso in anteprima ad About Art. Fabio Scaletti (Milano, 1964) è uno scrittore eclettico, autore di saggi e romanzi di genere vario, che gli hanno procurato numerosi riconoscimenti. Da circa 15 anni si occupa in particolare della figura e dell’opera di Michelangelo Merisi, su cui, oltre ad articoli vari, ha scritto la monografia Caravaggio. La vita del grande artista raccontata attraverso i suoi quadri, Milano, 2008, e le due sezioni dedicate alle opere originali e a quelle di autografia discussa nel volume curato da Claudio Strinati, Caravaggio Vero, Scripta Maneant, Reggio Emilia, 2014 (traduzione francese, Caravage, Editions Place des Victoires, Paris, 2015).  L’ultima sua pubblicazione è: Caravaggio. Catalogo ragionato delle opere autografe, attribuite e controverse, 2 voll., Artstudiopaparo, Napoli, 2017. Il saggio inedito che qui pubblichiamo è la prosecuzione di uno studio iniziato nel 2011 sul dipinto Testa di Medusa di collezione privata, visionato direttamente. Da esso nel 2012 fu tratto l’articolo I due volti della Gorgone uscito su “Art e Dossier”, n. 289, giugno 2012, pp. 58-63. Da allora il dipinto è stato esposto come originale in Brasile nel 2012 e a Tokyo nel 2016, ed è stato classificato dall’autore, sempre come autografo, nel  contributo al volume a cura di Claudio Strinati Caravaggio Vero, Reggio Emilia, 2014, p. 340 (trad. francese, Caravage, 2015, p. 244) e naturalmente nel recente Catalogo ragionato (vol. I, scheda OR15).

Non progettando preliminarmente su carta la composizione, la qual cosa deve essere ribadita con fermezza, è possibile che Caravaggio, in rare occasioni, svolgesse la sua attività pittorica in due fasi, entrambe direttamente al cavalletto, abbozzando nella prima l’idea che aveva in mente e perfezionando il lavoro nella seconda, con il risultato di avere due manufatti autografi, entrambi completi, ma il primo più accidentato e ricco di rilevanti modifiche, quasi “impressionistico”, il secondo più accurato e con minori variazioni, come a dire a regola d’arte, e questa speciale circostanza poteva capitare soprattutto quando l’esecuzione comportava delle particolari difficoltà, come nel caso della pittura condotta su un supporto anomalo quale uno scudo dalla superficie convessa.

Questo è accaduto allorché Michelangelo Merisi (1571-1610) decise di dipingere, su una “rotella”, cioè uno scudo circolare da parata, un soggetto classico come la decapitazione di Medusa (la Gorgone che pietrificava con lo sguardo, uccisa da Perseo con l’ausilio di uno specchio), dando vita a due opere distinte ma simili, la Testa di Medusa oggi in collezione privata di Milano (olio su tela applicata su scudo di pioppo, diametro cm 48), qui in esame, e la Testa di Medusa della Galleria degli Uffizi (olio su tela applicata su scudo di pioppo, diametro cm 55), capolavoro celebrato dell’artista lombardo, a Firenze dal 1598, in sostanza da quando fu creato.

L’esemplare milanese (fig. 1), introdotto nel circuito critico nella seconda metà degli anni Novanta da Maurizio Marini, che, tramite una serie di pubblicazioni[1], ne ha comprovato l’autografia, accettata da Denis Mahon (comunicazioni scritte del 2002 e del 2003), Mina Gregori, massima esperta italiana del Merisi[2], e da altri studiosi come Federica Gasparrini[3], Claudio Strinati e Sergio Benedetti[4], è la prima versione, mentre l’esemplare fiorentino (fig. 2) diventa di conseguenza la redazione finale, predisposta dal Caravaggio per il proprio mecenate, cardinal Francesco Maria del Monte, che intendeva donarla al granduca di Toscana Ferdinando I de’ Medici, di cui era ambasciatore presso la corte pontificia.

Fig 1.(sx)  Testa di Medusa (1597), Firenze, Galleria degli Uffizi; Fig 2. (dx) Testa di Medusa (1596-97), Milano, collezione privata: conosciuta come “Medusa Murtola” (Per l’immagine si ringrazia Caravaggio400 blogspot.com)

L’esistenza di due esemplari della composizione si deduce dall’epigramma del poeta (e amico del Merisi) Gaspare Murtola, che dedicò a uno “scudo di Medusa, pittura del medesimo Caravaggio” un madrigale scritto a Roma intorno al 1600, quando la versione Medici era dimostratamente già a Firenze (ed è su questa che invece un altro poeta, Giambattista Marino, stilò altri versi, consacrati appunto alla “Medusa del Granduca di Toscana”), mentre quella oggi a Milano era verosimilmente ancora in possesso dell’artista, là dove la vide il Murtola (che infatti scrisse altre rime ispirandosi a quadri del Merisi allora a Roma), per finire poi accatastata nel 1605 tra le sue “robe” sequestrate per mancato pagamento dell’affitto, in cui spiccava appunto, ed eloquentemente, “una rotella”, e così mancare da registri e inventari (almeno per quel che oggi se ne sa[5]) fino alla fine del Novecento quando rispunta a Roma (proveniente da un convento, forse in precedenza a Parigi) e prima di passare di lì a poco all’attuale sede.

Tralasciando la lettura iconografica del tema mitologico, essendo qui in gioco l’aspetto attributivo e poiché è pacifico che l’esegesi che vale per il dipinto di Firenze, ampiamente e circostanziatamente interpretato dalla critica[6], vale anche per quello di Milano, dall’esame delle indagini scientifiche (di valore cruciale) effettuate su entrambi si intuisce il peculiare cammino compositivo da cui scaturiscono.

Fig 3. Particolare riflettografico della Medusa di Milano: si nota il cambiamento sostanziale della posizione dell’occhio sinistro

Analizzando con la riflettografia la “versione Murtola” qui in discussione (fig. 3), Maurizio Seracini riscontra “la presenza di un disegno preparatorio riconoscibile nel volto e nei serpenti della capigliatura […] Nella prima stesura del disegno il volto era stato impostato dall’artista con occhi su un livello più basso dell’attuale, la bocca spostata verso sinistra e il naso arrivava al labbro superiore della stesura pittorica attuale della bocca […] Anche il disegno del mento rivela una linea diversa dalla pittura, con contorni meno marcati, risultandone quindi un volto meno scavato di quello dipinto dall’artista […] Una fitta rete di tratti di disegno preparatorio testimonia l’intento chiaramente creativo dell’artista nel cercare di impostare il movimento sinuoso dei serpenti […] Nel montaggio riflettografico si possono riconoscere innumerevoli tentativi di tracciare il movimento dei serpenti che non sono poi stati tradotti in pittura. Fra questi citiamo la testa del serpente sulla fronte della Medusa e l’intreccio dei serpenti disegnato intorno all’orecchio destro del tutto diverso da quanto osservabile a occhio nudo[7].

Maurizio Marini coglie perciò nel segno quando afferma che tutti questi piccoli e grandi cambiamenti “attestano che per tradurre in pittura questa prima Medusa è stato necessario un difficile iter tecnico basato sul disegno e sulla verifica speculare rispetto a una superficie estroflessa. Uno studio attento alle valenze geometriche che appare simile, ma meno analitico, nella versione Medici. Infatti, proprio perché gran parte dell’indagine formale era stata già svolta nel supporto grafico della prima versione Murtola, le riflettografie della Medusa fiorentina hanno evidenziato un tracciato disegnativo meno elaborato”. In effetti, in quest’ultima non è dimostrabile uno schizzo preparatorio sottostante e “la pittura è fluente, diretta e disinvolta, condotta con grande sicurezza sia nelle campiture più larghe, sia nei finissimi dettagli degli occhi di Medusa e delle teste dei rettili[8].

Il punto di vista di Marini è abbracciato da Mina Gregori, per la quale “Le radiografie hanno rivelato cambiamenti di tale entità da non potersi spiegare che come un iniziale approccio al tema. È lecito pertanto pensare che questa sia stata una prima versione della Medusa”, e da Federica Gasparrini, che ha posto l’accento sulle “difficoltà causate al pittore dalla superficie convessa e, di conseguenza, sul modo di porre rimedio alle deformazioni visive, altrimenti inevitabili. Viceversa, nella redazione degli Uffizi, questi pentimenti sono ridotti al minimo, tanto da far pensare a un ricalco con carta oleata” (comunicazione scritta).

Al di là dell’utilizzo dell’indicato strumento di trasferimento delle immagini, a mio avviso improbabile considerando la personalità e il modus operandi del Nostro, è indubbio che l’esemplare milanese non può essere una copia di quello (autografo) di Firenze, poiché, se è logico pensare che una copia possa anche contenere delle correzioni e delle modeste variazioni rispetto al prototipo, dal momento che persino il miglior riproduttore può commettere degli errori che poi aggiusta, non lo è altrettanto ipotizzare che una copia nasconda sotto di sé i segni di un’elaborazione sperimentale, alcuni mutamenti sostanziali e differenti posizionamenti di punti cardine, come ad esempio l’altezza degli occhi: tutti elementi che, insieme a molti altri – qui mi limito a menzionare, per compatibilità con il metodo “dal naturale” del Caravaggio, l’esistenza di un nitido abbozzo preparatorio che si discosta dall’immagine finale e l’iniziale esecuzione di ciocche di capelli che poi sono state trasformate in serpi – sono stati evidenziati nel corso di una sofisticata e innovativa campagna diagnostica i cui risultati, stupefacenti e inoppugnabili, sono stati diffusi e non mancheranno di moltiplicare gli aderenti all’autografia, facendo di questa Medusa uno dei dipinti scientificamente più solidi dell’oeuvre caravaggesca.

Insomma, è ovvio concludere che la Medusa Murtola sia una sorta di prima edizione dell’idea concepita dal Caravaggio, il quale, da quel suo primo lavoro, avrebbe ricavato l’edizione per così dire ufficiale, cioè la Medusa Medici, consegnando questa al suo committente (il Del Monte) e tenendosi l’altra per sé[9].

 

A dimostrare l’originalità dell’esemplare di raccolta privata ci sarebbe addirittura l’elemento che solitamente più di ogni altro certifica l’autografia, ossia la firma dell’autore, se non fosse che il Caravaggio usava non siglare le sue opere. Tuttavia, vi è un’eccezione riguardante la Decollazione del Battista di Malta (1608, La Valletta, Co-Cattedrale di San Giovanni dei Cavalieri), una tela che, guarda caso, raffigura anch’essa una decapitazione e che è segnata con una scritta praticamente identica nella forma e nella soluzione iconografica/narrativa (figg. 4 e 5).

Come ha osservato Marini:Alcuni schizzi nel sangue della prima Medusa, in basso, davanti al serpente a destra, formano (frammentariamente ma inequivocabilmente), col supporto dello ‘scanner elettronico’: ‘Michel A. f.’ cioè ‘Michel A[ngelo] f[ecit]’”, una firma che sarà richiamata una decina di anni dopo apponendo nella pala maltese un “f. michel. Ang.” intinto nel sangue del Battista sgozzato (la “f” nel primo caso sta però per “fecit”, di contro al “fra’”, abbreviazione di “fratello”, del secondo caso – quando il Merisi era stato appena accolto nella congregazione dei Cavalieri di Malta).

Se una tale firma induce Mina Gregori (comunicazione scritta) “a considerare che il pittore non pensava di tenere per sé questa versione”, per Marini al contrario essa “indicherebbe una peculiare identità tra il pittore e il dedicatario del monito morale”, e così pensa anche Federica Gasparrini reputando “che il Caravaggio abbia realizzato il dipinto anzitutto per se stesso” (comunicazione scritta).

Che quella firma rappresenti una dichiarazione di autografia in vista di una cessione o che rivesta una funzione autobiografica, non ha un’importanza decisiva sul fronte attributivo, mentre ciò che mi sembra ragionevolmente da escludere è che essa sia apocrifa, non comprendendosi i motivi per cui un eventuale imitatore dell’epoca avrebbe dovuto contraffare la firma di un artista che notoriamente non sottoscriveva le sue produzioni e non essendo plausibile una conoscenza così puntuale, quasi accademica o da esperto odierno, del corpus delle opere autentiche, replicando su una copia la firma, con tutto il bagaglio esistenziale sviscerato dalla critica moderna (necessario per renderla credibile), che si trovava in un quadro, il Battista decollato di Malta, tanto lontano nel tempo e nello spazio[10].

A una visione diretta (primavera 2010) il dipinto, di una tonalità più plumbea rispetto alla versione fiorentina, mi sembra vantare una resa praticamente perfetta, specie in virtù, come già rimarcato da Mina Gregori, di una esecuzione pittorica di alta qualità e segnatamente di una superficie compatta che è conforme con la produzione giovanile dell’artista e che qui, forse in conseguenza del particolare supporto adottato (il cui retro manifesta le scheggiature del tempo), raggiunge vertici di densità tali da apparire quasi laccata, “pietrificata” verrebbe da dire[11]. Anche a occhio nudo si legge la firma con cui il Merisi ha inteso riconoscere questo suo personalissimo tour de force.

Note
[1]  Si vedano le due schede rispettivamente in AA.VV., Il Cinquecento lombardo. Da Leonardo a Caravaggio, Milano, 2000, scheda IX.5, e in M. Marini, Michelangelo Merisi da Caravaggio “pictor praestantissimus”, Roma, 2001, scheda n. 25 (nuova ed. 2005, scheda n. 24); il volume monografico M. Marini, Caravaggio, Gaspare Murtola e la chioma avvelenata di Medusa, Venezia, 2003 (riedizione di un testo uscito a New York nel 1997); nonché l’articolo di sintesi a firma M. Marini e D. Mahon, Caravaggio, Murtola e “la chioma avvelenata di Medusa”, in “Artibus et Historiae”, 2004, vol. 25, n. 49, pp. 175-184. L’attribuzione del Marini viene riferita da J. Spike, Caravaggio, New York-London, 2001, n. 12 (c.1); L. Spezzaferro in AA.VV., Caravaggio: la Medusa, Cinisello Balsamo (Mi), 2004, p. 19; G. Berra, ibidem, p. 56; Alberto Cottino, in V. Sgarbi, Caravaggio, Milano, 2005, p. 78; S. Schütze, Caravaggio. L’opera completa, Colonia, 2009, n. 15a; nonché, con maggior apertura, dallo scrivente (cfr. Caravaggio. La vita del grande artista raccontata attraverso i suoi quadri, Milano, 2008, p. 41). Il dipinto è compiutamente analizzato nel volume AA.VV., Caravaggio. La prima Medusa, Milano, 2011.
[2]  Cfr. AA.VV., Caravaggio e Caravaggeschi a Firenze, Firenze, 2010, scheda n. 3, a conferma di una expertise.
[3]  Cfr. la scheda in AA.VV., Caravaggio. Originale und Kopien im Spiegel del Forschung, Düsseldorf, 2006, n. 40. È il catalogo della mostra in cui è stata esposta per la seconda volta (la prima a Milano nel 2000) la Medusa qui in oggetto.
[4]  Il consenso degli ultimi due è riportato da M. Marini, op. cit., 2000, p. 485. Il dipinto, che viene definito “deuxième version autographe” da Arnauld Brejon de Lavergnée (“La Tribune de L’Art”, 20 luglio 2010), è preso in considerazione come originale da Sybille Ebert-Schifferer (Caravage, Paris, 2009, pp. 103-105), Vittorio Sgarbi (in AA.VV., Gli occhi di Caravaggio, Cinisello Balsamo, Milano, 2011, scheda 6.3) e Carla Cerati (in AA.VV., Caravaggio a Roma, Roma, 2011, p. 141). Come curiosità segnalo che un articolo di cronaca caravaggesca (G. Parrini, Nella fortezza del viceré il radar bracca Caravaggio, “La Stampa”, 21 aprile 2010, p. 29), illustrato con la Medusa degli Uffizi, reca una didascalia che parla di due versioni, precisando che “la prima versione è del 1596”.
[5]  Marini (2003, op. cit., p. 128) ha congetturato che possa identificarsi in quella “testa greca del Caravaggio” vista nel 1776 dal marchese de Sade tra i “bei quadri” presenti nel palazzo romano dei Colonna, depositari dei beni del pittore fuggiasco, da loro protetto. A mero titolo informativo segnalo che in un inventario del 1736 dell’Armeria Medicea (Archivio di Stato di Firenze, cit. in Heikamp, 1966; v. anche Macioce, Michelangelo Merisi da Caravaggio. Documenti, fonti e inventari, Roma, 2010, p. 389) lo scudo degli Uffizi è erroneamente  indicato come “di fico” (e non di pioppo), curiosamente lo stesso materiale assegnato allo scudo ambrosiano per una certa fase degli studi: si poteva anche ventilare l’ipotesi, ora caduta, che il compilatore del documento avesse avuto notizia dell’esistenza di un esemplare su tale tipo di legno e l’avesse abbinata, per estensione, pure a quello mediceo. Sempre il Marini (ibidem, p. 129), ha opportunamente richiamato l’attenzione sulla “Rotella con la testa di Medusa dipinta in essa Rotella” del pittore caravaggesco Orazio Borgianni (nel 1965 a Roma, collezione M. Cellini), da questi  nominata nel proprio testamento (registrato a Roma nel novembre 1615), supponendo che il Borgianni, residente nell’Urbe, abbia reinterpretato proprio l’esemplare lì rimasto, magari presso una famiglia patrizia (i Colonna?) che l’aveva riscattato dal tribunale o dalla creditrice dopo il “pignoramento” causa morosità) e non quello andato a Firenze.
[6]  Tra i contributi si veda, oltre a quelli di M. Marini citati, M. Bona Castellotti, Il paradosso di Caravaggio, Milano, 1998, pp. 56-58; H. Langdon, Caravaggio. Una vita, Londra, 1998, in trad. it. Palermo, 2003, p. 122-25; C. Caneva (a cura di), La Medusa del Caravaggio restaurata, Roma, 2002; AA.VV., Caravaggio: la Medusa, op. cit., 2004, in particolare i saggi di Luigi Spezzaferro, Francesco Rossi e Giacomo Berra; K. Krüger, “Un’immagine inconcepibile: la Medusa di Caravaggio”, in AA.VV., Caravaggio e il suo ambiente, Cinisello Balsamo (Mi), 2007, pp. 35-57; M. Jover, Caravaggio, Paris, 2007, p. 85 e pp. 96-97; G.J. Salvy, Le Caravage, Paris, 2008, pp. 194-95.
Se proprio dovessi scegliere una decifrazione opterei, ma capovolgendola di segno, come già aveva intuito il Longhi (1968), quella dello storico dell’arte J. Burckhardt (1855): “Caravaggio stesso ci mostra in una sola testa tutto il falso calcolo del naturalismo: si tratta della “Medusa” agli Uffizi. Sempre desideroso di esprimere l’attimo e perciò indifferente all’espressione profonda e immanente […], egli dipinge una testa di donna nel momento della decapitazione; ma non avrebbe potuto la stessa testa rappresentare anche l’estrazione di un dente?”. Eccome se lo avrebbe potuto, anzi forse è proprio grazie a quella situazione odontoiatrica che l’artista, naturalisticamente, ha cercato di avvicinarsi all’inavvicinabile: la lancinante percezione di un dolore/non dolore (perché senza coscienza), quello della propria morte violenta.
[7] In M. Marini, Caravaggio, Gaspare Murtola e la chioma…, op. cit., 2003, pp. 106-111.
[8] Cfr. S. Scarpelli in C. Caneva, a cura di, La Medusa del Caravaggio restaurata, 2002, p. 124.
[9]  In questo contesto è secondario sapere cosa può aver spinto l’artista a ideare il primo esemplare, questione che ben riassume come segue Stefano Miliani (E’ di Caravaggio la Medusa sullo scudo, “L’Unità”, 4 giugno 2003, p. 29): “Secondo Mahon Caravaggio considerò la commissione così importante (era per i Medici) e così complessa (su una superficie convessa) da voler affrontare una prova preliminare. Invece Marini considera la prima Medusa un esercizio privato, pronto a essere ripreso nel caso di una richiesta specifica”. Il primo scenario è più probabile storicamente, il secondo psicologicamente.
[10]  Tuttavia qualcuno (Vincenzo Farinella, Caravaggio, due firme e (forse) la filologia, “Predella”, n. 1, 2001) ha invitato a liquidare una tale firma “come lectio facilior di quella maltese e, di conseguenza, a giudicarla opera di un copista che, partendo dall’unica firma presente in tutto il catalogo di Caravaggio, abbia compiuto un’accorta operazione di razionalizzazione, riportando il testo originale ad una lettura più piana e più scontata”, dunque “un’iscrizione vergata da qualcuno che conosceva molto bene le opere del pittore lombardo, destinata ad accreditare l’autografia caravaggesca di un pezzo molto dubbio”, sicché rimarrebbe da chiedersi unicamente se l’opera sia da considerarsi “tout court una scaltra falsificazione moderna, oppure se si debba pensare ad una replica antica nobilitata da qualche furbo ‘restauratore’ con una prestigiosa firma”. Non essendo il dipinto (signature compresa) un tarocco novecentesco come hanno accertato le analisi scientifiche, non resterebbe che optare, sul filo di questo acrobatico ragionamento, per la calligrafica manomissione perpetrata su una copia antica da un colto buontempone sei-settecentesco all’unico scopo di dar di che discutere (e vivere) a noi studiosi d’oggidì…
[11]  Del resto anche lo scudo degli Uffizi sfoggia una tale vis pingendi, poiché, come scrive Stefano Scarpelli in occasione del restauro, “il colore possiede una lucentezza naturale, un non comune aspetto smaltato dovuto alla buona scelta dei materiali utilizzati e ad una notevole abilità esecutiva e, forse proprio per la sua robusta costituzione, il film pittorico non ha subìto guasti con le antiche puliture” (in C. Caneva, a cura di, op. cit., p. 29).