di Carla ROSSI
La Milvia Bronziniana
LXXXVIII
S’io venni, Milvia, oimè, venn’io pur troppo, / Così non fosse, che poiché la terra / Battei col piede, e ch’acquattato in terra / M’era fra il muro e ‘l tuo fronzuto pioppo / S’aperse il Ciel d’un tal baleno e doppo / D’un altro infino in tre, che Cielo e terra / Parea di foco, ond’io, sì terra terra, / Mi partì lento, un po’ facendo il zoppo. / E per quel ch’io sentii cricchiar da basso / L’uscio di Ronchio, io temo che ’l patrigno / Suo mi vedesse e conoscesse al certo. / Stolto, che sempre soglio in mano un sasso / Portare, e non l’avea, vecchio maligno, / Ma forse anch’erro e fu dal vento aperto.
Si è soliti suddividere la produzione poetica bronziniana in ‘rime burlesche’ e ‘rime gravi’.
Delle prime esiste un’edizione assai discutibile, per via d’una restitutio textus sommamente deficitaria e di un’esegesi in sola chiave omoerotica, a cura di Franca Petrucci Nardelli, edita col titolo di Rime in burla.[1] Delle seconde si ha una altrettanto esecrabile edizione effettuata dal canonico di San Lorenzo Domenico Moreni, che raggruppò le liriche austere del pittore secondo il genere metrico, pubblicando nel 1822 le canzoni e ogni altro metro che non fosse il sonetto, e nel 1823 i sonetti,[2] sovvertendo così l’ordine dell’idiografo che le ha trasmesse, il codice BNCF, II. IX. 10.[3]
Ad una prima lettura, il sonetto appena riprodotto parrebbe appartenere alle rime burlesche, ma così non è. Esso figura invece tra le ‘rime gravi’, nel fascicolo E dell’idiografo fiorentino e, sebbene un po’ terra terra nello stile (si noti quanto sul termine terra l’autore stesso insista), la composizione va analizzata nel contesto in cui è inserita, ossia tra i componimenti di ambientazione pastorale per quella Donna, nuovo incarco e nuova fiamma che, nel nome, reca l’alloro.
A distanza di un solo sonetto da questo (XC Se l’alma fronde tua, chiaro Peneo), ecco apparire anche il padre di Dafne, a fugare ogni dubbio in merito all’identità della nuova musa del Bronzino che, con la precedente, presente in tutta la sezione iniziale del canzoniere, condivide il nome della pianta in cui Dafne venne mutata, come lo stesso poeta tiene a precisare al v. 8 del sonetto LXXXVII Doppio tributo ad un sol nome pago e a ribadire, nel sonetto a Peneo, laddove precisa che due sono gli allori ai quali ha consacrato il cuore:
Se l’alma fronde tua, chiaro Peneo, / Ch’Apollo invan seguio per le tue rive, / In due piante felici, e’ntere vive / Nel mio cor com’Amor volle e poteo. / E se dell’una al vago ardo e recreo, / E dell’altra al valor, né par ch’ arrive / Al ver, se questa assembra, e quella scrive / La man, ch’a tanto ardir sempre cadeo.
La scelta di risolvere il tema del panegirico amoroso nel gioco onomastico, attraverso l’uso di senhals, neppure così velati,[4] caratterizza la maggior parte della produzione petrarchesca del Bronzino. E se la prima musa dovette avere, forse, l’alloro nel cognome, la nuova è senza dubbio, come la critica ha appurato da tempo, Dafne-Laura Battiferri Ammannati e Peneo, suo padre, l’illustre Giovanni Antonio, la cui morte venne ricordata in vari componimenti dai corrispondenti poetici della rimatrice, tra cui lo stesso Bronzino. In tutto il fascicolo, d’altronde, signoreggia la Battiferri.
Ma chi è quest’inattesa e inopportuna Milvia che si fa largo tra i sonetti dedicati alla poetessa urbinate?
Nel contesto delle rime intrecciate quale tributo al lauro, il sonetto per Milvia non stona se non per lo stile umile, ma anche qui vi è l’accenno ad una pianta, un fronzuto pioppo.
Non è mancato chi[5] ha proposto di ravvisare in Milvia quella Milla Capraia, descritta come bellissima e gentilissima a maraviglia,[6] che figura, più volte e non sempre come donna dabbene, nelle Rime del Lasca: una cortigiana al seguito di Bianca Cappello, amata, tra gli altri, da Filippo Angeni.
Si noti però come Milla sia diminutivo di Camilla, mentre quello usato dal Bronzino è senza dubbio un nome latino di matrice classica.
Il milvus o anche milvius è infatti lo sparviero, ben più adatto di una cortigiana ad apparire in un contesto ‘pastorale’ come questo, tanto più che il volatile, secondo una tradizione cui si rifà anche Eliano, era consacrato ad Apollo ed associato al Sole, di cui era il messaggero (e in questa sezione del canzoniere è tutto uno sfolgorare di raggi solari e di omaggi ad Apollo). Ne abbiamo conferma consultando lo studio di Paolo Marpicati, Sull’Onomastica femminile nella letteratura latina,[7] che sottolinea come il nome Milva a Roma fosse associato alla femmina del nibbio reale e quanto nota fosse la Milva di Petronio.
Viene da chiedersi, però, se con questo sonetto siamo realmente in un contesto pastorale.
Il tono è infatti apertamente giocoso, data la presenza del nome parlante di Ronchio, derivato dal lat. *runcus, indicante una sporgenza, una protuberanza nella roccia: levando me sù ver’ la cima/D’un ronchione, avvisava un’altra scheggia (Dante, Inf. XXIV, 27-28).
Chi è Ronchio?
Conoscendo la produzione burlesca del Bronzino, è lecito pensare ad un soprannome à double entendre: il verbo roncare vale infatti, come seconda accezione, sarchiare: Ronchio potrebbe essere così chiamato perché ronca il fronzuto pioppo di Milvia.
Ma se si considera la prima accezione del termine, potremmo identificare Ronchio con qualcuno che, invece, ronca la roccia, ossia la sbozza, spezza il marmo: uno scultore, ad esempio.
Che il verbo roncare possa essere associato ai bianchi marmi di Carrara lo conferma un verso dantesco, Inf. XX, 46-47: […] dove ronca/lo Carrarese che di sotto alberga,/ebbe tra i bianchi marmi la spelonca. Il Vellutello così interpreta il passo:
Ne’ quali moti rompe e spezza lo Carrarese, che alberga di sotto in Carrara, perché molti di costoro non attendono ad altro esercitio che a rompere e trar fuori marmi di questi monti.[8]
Se il nome Milvia vale dunque sparviera, come non pensare a quella tavola carica di vertiginosi riferimenti letterari che è il Ritratto di Laura Battiferri, realizzato dal Bronzino attorno al 1560?
Si tratta del secondo ritratto di profilo eseguito dal pittore, sul cui sproporzionato naso aquilino sono stati versati i proverbiali fiumi d’inchiostro.[9] Nel dipinto (fig. 1), tutta la parte superiore del corpo della poetessa, con il lunghissimo collo, le spalle basse e strette, la testa piccola, è sproporzionata rispetto al naso, espediente richiesto espressamente dalla stessa modella e utilizzato dall’artista proprio per mettere in evidenza il paragone fisico tra Laura ed il sommo Dante, del quale il Bronzino stesso nel 1532 aveva realizzato la celebre effige allegorica: il suo primo profilo.
Nel Primo libro dell’opere toscane, dato alle stampe dalla Battiferri nel 1560 per i tipi di Giunti, a Firenze, e dedicato a Eleonora da Toledo, più volte la poetessa si paragona a diversi uccelli: il cigno, la fenice, la garrula cornacchia.[10] Nel frontespizio dell’edizione campeggia, inoltre, sullo stemma araldico della duchessa Eleonora, proprio un rapace di profilo, nella stessa posizione nella quale il Bronzino ha ritratto la poetessa.
Qual è dunque la funzione di questo sonetto, piuttosto terra terra, in cui pare che tutto si metamorfizzi, dal lauro ai nomi dei protagonisti?
Qualora Milvia-sparviera fosse realmente la Battiferri, Ronchio-scultore non potrebbe essere altri che il marito della poetessa, Bartolomeo Ammannati, ed il suo patrigno/vecchio maligno l’insopportabile Baccio Bandinelli. L’Ammannati, infatti, orfano in tenera età, entrò a 12 anni a bottega da Baccio che lo prese sotto la propria protezione, prima che il giovane lasciasse Firenze per Venezia.
Personalmente, tenderei a leggere il sonetto come contraltare a tutti quelli in lode del ritratto della Battiferri e a situarlo alla stessa altezza cronologica della realizzazione del dipinto, oltre a precedere di poco il 7 febbraio del 1560 (data di morte del Bandinelli).
Se ogni elemento, infatti, nel testo, pare subire una metamorfosi, anche la dotta mano del Bronzino, cui accenna il Varchi in uno di quei sonetti in lode dell’effige della poetessa, si tramuta qui in mano armata: il riferimento al sasso che il locutore porta sempre con sé (soglio sempre in mano un sasso) richiama fortemente l’immagine di David e proprio come David il Bronzino si era rappresentato nel 1552 nella Discesa di Cristo al limbo.
Perché colpire il Bandinelli con il sasso di David?
È noto quanto il confronto tra l’Ercole e Caco, in Piazza della Signoria, con il David michelangiolesco fosse un tormento per Baccio.[11] Il Vasari, nelle Vite, scrisse: «E nel vero il Davitte di Michelagnolo toglie assai di lode all’Ercole di Baccio», altri scrittori furono molto meno clementi dell’aretino.
È un dato di fatto che, a pochissimi metri dal goffo gruppo scultoreo dell’Ercole e Caco, il David pare guardare il suo dirimpettaio con disprezzo ed essere in procinto di scagliargli contro il suo sasso. E si sa quanto il Bandinelli fosse inviso ai colleghi artisti: evidentemente anche i suoi rapporti col Bronzino non furono dei più semplici.[12]
Se si considera poi che, nel 1559, al concorso indetto per la fontana nella stessa Piazza della Signoria avevano partecipato lo stesso Bandinelli, Cellini, Giambologna, il Danti e su tutti ebbe la meglio il marito della Battiferri, al quale venne concesso uno studio sotto la loggia, dove iniziò a lavorare dal 1560, sfruttando anche i disegni di Baccio, ma rovinando da subito un bel marmo, forse comprendiamo meglio l’ironia del Nostro.
«Si ribadivano nella libellistica vernacolare il biasimo e il cruccio per la dilapidazione di una meraviglia naturale, e la materia prima guastata dalla mano dell’artista incompetente dava vita a un altro topos che stavolta affondava le proprie radici nella storia dei giganti del Bandinelli, in quel marmo che nei motteggi popolari, quasi presentendo il proprio destino, come se avesse un’anima, arrivato a Firenze era colato a picco in Arno ed era stato con tanta fatica ripescato».[13]
Non Crisero (nome pastorale del Bronzino), non Dafne, non Fidia (nome con cui l’urbinate apostrofò il proprio marito nelle rime e ripreso anche dal Bronzino nelle proprie – Che troppo Fidia in ritrovarti avolse / Quand’Arno allegro il tuo ritorno udìo), non allori qui, ma ironiche allusioni a frondosi pioppi,[14] a rostri adunchi, a goffi sbozzatori di marmi e frustrati David.
Tutto, nel sonetto, rimane irrealizzato, dal lancio della pietra contro il maligno patrigno, all’incontro clandestino con Milvia, perché ben tre lampi (tanti quanti sono i personaggi che il Bronzino nasconde sotto altrettanti nomignoli) rischiarano la notte (una notte che potremmo definire lincéa – che permette di vedere distintamente – quanto quella del sonetto bronziniano Non ti vid’io l’altr’ier godere in seno).
Cielo e terra appaiono infocati (al pari del poeta), per cui il protagonista, rischiando di essere scoperto, è costretto ad allontanarsi, facendo lo zoppo. La scelta di questa parola in rima non mi pare casuale: si tratta di un altro di quegli elementi à double entendre presenti nel sonetto. Ad una prima lettura, il claudicare può essere interpretato come simbolo di imperfetto distacco dall’amata (si pensi all’imperfetto distacco di Dante dal mondo, prima di entrare nell’Inferno, quando attraversa un alto passo e, zoppo, si trascina un piè fermo); non avendo, però, potuto intrattenersi con Milvia, i problemi deambulatori dell’inappagato amante, come in molta poesia giocosa, sono presto spiegati.
Che il Bronzino, tra tanti versi gravi, si sia qui concesso un clin d’œil alla propria vena burlesca?
Carla ROSSI Università di Zurigo 17 maggio 2020
NOTE