di Maria Grazia BERNARDINI*
*Maria Grazia Bernardini ha ricoperto numerosi incarichi di alta responsabilità nel corso della sua carriera di funzionario ministeriale; è stata soprintendente per il Patrimonio storico artistico etnoantropologico di Modena e Reggio Emilia; direttore del Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo, codirettore della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Corsini; ha diretto come storica dell’arte i restauri di importanti opere tra cui gli affreschi della Basilica di San Clemente a Roma, la volta di Giovanni Lanfranco alla Galleria Borghese, la cappella Bongiovanni nella chiesa di Sant’Agostino, il ciclo della Passione all’Oratorio del Gonfalone; numerose sono le esposizioni che l’hanno vista come curatrice scientifica, tra queste Arte Sacra in Umbria, Perugia, Palazzo dei Priori 1991; Tiziano Vecellio. Amor Sacro e Amor Profano, Roma, Palazzo delle Esposizioni 1997; Vermeer. La ragazza alla spinetta e gli artisti di Delft, Modena, ma è riconosciuta come eminente studiosa del barocco e della figura e dell’opera di Gian Lorenzo Bernini, di cui ha curato, con C. Strinati e M. Fagiolo, un’importante antologica: Gian Lorenzo Bernini. Regista del Barocco, Roma, Museo di Palazzo Venezia 2004, nonchè, in collaborazione con Marco Bussagli Barocco a Roma. La meraviglia delle Arti. Numerosissime le sue pubblicazioni di cui è impossibile dare conto. Con questo articolo inizia la sua collaborazione con About Art online.
Bernini
Mostra a cura di Andrea Bacchi e Anna Coliva
Per ricordare la riapertura della Galleria Borghese, avvenuta il 28 giugno del 1997, dopo 16 anni di chiusura, la direttrice Anna Coliva, insieme ad Andrea Bacchi, dedica una mostra a Giovan Lorenzo Bernini, l’artista simbolo dell’arte barocca e principale protagonista del museo Borghese per la cospicua presenza di suoi capolavori, i quattro gruppi borghesiani, i due ritratti del cardinale Scipione Borghese, il bozzetto di Luigi XIV a cavallo, gli autoritratti. La mostra si riallaccia idealmente all’esposizione organizzata subito dopo la riapertura della Galleria Borghese, Bernini scultore. La nascita del Barocco in Casa Borghese (1998), la quale si affiancava all’altra mostra promossa dall’allora soprintendente Claudio Strinati, Gian Lorenzo Bernini. Regista del Barocco (a cura di M. G. Bernardini e M. Fagiolo dell’Arco, Museo Nazionale di Palazzo Venezia, 21 maggio-16 settembre 1999), poiché cadeva proprio nel 1998 il quarto centenario della nascita dell’artista.
Questa volta la mostra ha un titolo essenziale, Bernini, poiché, nelle intenzioni dei due curatori, vuole essere un omaggio al grande artista, alla sua arte nel suo complesso, alla sua figura di straordinario interprete del suo tempo. Andrea Bacchi e Anna Coliva sono riusciti a portare nelle sale della Borghese un incredibile numero di opere, alcune delle quali veri e propri capolavori, che, accanto alle opere già presenti nel museo, attraversano tutta la vita di Bernini, da quando giovanissimo fa i suoi primi passi all’ombra del padre Pietro, fino agli ultimi anni della sua vita, quando realizza il Busto del Salvatore, opera che esprime l’intensa religiosità della sua maturità, testamento spirituale dell’artista.
E tuttavia, dando ovviamente per scontate le buone intenzioni dei curatori, resta il fatto che, almeno a mio parere, la Galleria Borghese, scrigno preziosissimo di opere di rara magnificenza, non si presti ad accogliere la mostra (ma in realtà qualsivoglia mostra) sia perché perde la sua armonia e perfetto equilibrio, sia perché non permette di esporre le opere secondo un filo logico; di qui i limiti espositivi che vedremo.
La mostra inizia con la sezione dedicata all’ Apprendistato con Pietro, e sono esposte opere di Pietro, sculture in cui collaborarono padre e figlio, opere di Gian Lorenzo. Dopo due piccole sculture di Pietro esposte nella sala Paolina, la Virtù sottomette il Vizio e Andromeda, si entra nel salone di ingresso della Galleria, il Salone con gli affreschi di Mariano Rossi, che offre al visitatore un susseguirsi di opere sulle quali si impone per altezza e per l’ altissima qualità e innovazione la Santa Bibiana e accanto si staglia la grande statua della Verità.
Le opere qui raccolte furono realizzate principalmente da Pietro Bernini alle quali il figlio Gian Lorenzo collaborò in vario modo: si va dalle Quattro Stagioni Aldobrandini (in realtà il committente fu Leone Strozzi) al Satiro a cavallo di una pantera di Berlino, realizzata nel 1598 da Pietro, allo scherzoso Fauno molestato da putti, una delle più importanti scoperte del Novecento, merito di Federico Zeri, acquistata poi dal Metropolitan Museum of Art. A questa prima sezione si collega strettamente la seconda sezione La nascita di un genere: i putti che presenta tre sculture, la Capra Amaltea, Putto con il drago del Getty Museum e Putto morso da un pesce di Berlino, collocate in una delle sale successive della Galleria e quindi logisticamente separate, ma concettualmente unite. E’ certamente interessante e importante il confronto che si viene a stabilire tra le varie sculture, e permette di riflettere ulteriormente su uno degli aspetti dell’attività di Giovan Lorenzo Bernini, gli anni giovanili, ancora oggetto di acceso dibattito critico. A fronte del Satiro a cavallo su una pantera, il Fauno del Metropolitan presenta una forza plastica, una composizione articolata, un tono scherzoso, che giustamente fa ritenere indiscussa la presenza del Giovan Lorenzo, mentre le Quattro Stagioni Aldobrandini (anche esse ritrovate da Federico Zeri) rivelano al confronto, tutta la loro arcaicità e la loro vicinanza stilistica e tematica con Priapo e Flora e le Erme borghesi, tutte sculture databili intorno al 1616. Sorprende dunque la proposta di Andrea Bacchi di posticipare la datazione della serie dal 1615-1616, come la critica l’aveva unanimemente datata, al 1620 in base ad un documento che non essendo puntuale non può con certezza essere riferito ad essa.
Il documento è un pagamento effettuato da Leone Strozzi il 2 gennaio del 1622 a Pietro di 100 scudi “per saldo”, somma cospicua e che quindi giustifica una commissione rilevante come appunto, secondo Bacchi, la serie delle quattro Stagioni. Baglione però ricorda che Pietro realizzò per gli Strozzi varie “statue e gruppi” e la stessa Maria Barbara Guerrieri Borsoi che ha rintracciato i documenti sostiene giustamente che non è possibile connettere quel pagamento alle Stagioni Aldobrandini per la “vaghezza” dell’indicazione e perché Pietro aveva realizzato altre opere, tra le quali l’Autunno di collezione privata di New York. La presenza di Gian Lorenzo si avverte nel grande grappolo di uva nell’Autunno e nella splendida cascata di fiori della Primavera, sul quale Bacchi invece si interroga: è “da riferire a Gian Lorenzo…O si tratta di un brano che nella sua qualità anche grafica è da ricondurre al miglior Pietro?”.
Bacchi apre un altro fronte di discussione: l’autografia della Capra Amaltea. L’attribuzione al giovane Bernini si deve a Roberto Longhi che colse un passaggio della famosa Academia Picturae Eruditae di Sandrat in cui la piccola scultura viene indicata come la prima opera dell’artista. Da allora l’attribuzione non venne più messa in discussione, ma recentemente Bacchi esprime qualche perplessità di cui dà conto Stefano Pierguidi nella scheda di catalogo, invitando a riflettere sull’autografia dell’opera, per la sua evidente incertezza e sgrammaticatura in alcuni passaggi.
Tale caratteristica era stata già portata all’attenzione da Peter Rockwell che nella sua analisi tecnica aveva colto una mano ancora incerta, inesperta, cauta, insomma immatura, ma evidenziava anche come alcuni indizi facessero già scorgere un modo di procedere innovativo, come l’uso della subbia, l’uso di strumenti diversi per “ottenere le diverse rese tattili delle superfici, la libertà di lasciare non finite alcune zone”. L’analisi tecnica suggerisce una datazione precoce, se non il 1609 come aveva proposto Lavin, al più tardi il 1610-1612, come tanti altri studiosi e lo stesso Pierguidi avanzano, quando Bernini era giovanissimo e eseguiva le sue prime prove, ma non una cancellazione dal catalogo delle opere berniniane.
La Santa Bibiana collocata qui probabilmente per motivi logistici, e eseguita tra il 1624 e il 1626, parla un linguaggio diverso, nuovo, intensamente sentimentale e patetico, presenta un modellato magistrale, la ricerca luministica nel panneggio solcato da pieghe così ricche e profonde che creano zone di luce alternate a zone d’ombra.
Difficile comprendere il passaggio tra le opere juvenilia e la Santa Bibiana che invece si collega stilisticamente ai famosissimi gruppi borghesiani, Enea e Anchise, Proserpina e Plutone, David e Apollo e Dafne, che si collocano tra il 1618 e il 1625, nei quali Bernini passa da un’arte ancora legata ai modi stilistici del padre (Enea e Anchise) o memore dell’estetica rinascimentale e manierista (Plutone e Proserpina) a un linguaggio compiutamente barocco, nel senso di un’arte sentimentale, emozionale, drammatica, dinamica, in cui il senso dello spazio gioca un ruolo fondamentale (David, Apollo e Dafne, Santa Bibiana). Vero è che una scultura come la Santa Bibiana si apprezza meglio nel suo contesto, sopra l’altare maggiore della chiesina di pertinenza, a confronto con gli affreschi che si dispiegano sulle pareti, tanto più se si considera che fu restaurata solo vent’anni fa a cura di Vitaliano Tiberia. Tuttavia va dato atto ai curatori di aver saputo ottenerne il prestito senza che in questa circostanza si sia registrata alcuna polemica (almeno fino a questo momento) come invece accadde da parte di qualcuno del tutto impropriamente in occasione dello spostamento del Busto di Scipione Borghese dalla Galleria Borghese per essere esposto presso la Fondazione Roma nella mostra Barocco a Roma. La meraviglia delle arti
Nella sala successiva troviamo opere che si collocano tra il 1617 e il 1619: il San Sebastiano realizzato tra il 1616 e il 1617 per la famiglia Barberini, prestito prestigioso del Museo Thyssen-Bornemisza, e l’Anima Beata e l’Anima Dannata custodite nell’Ambasciata di Spagna presso la Santa Sede. Queste opere segnano lo sviluppo dello stile di Bernini, che si allontana sempre più dall’eloquio manierato del padre per dirigersi verso un’arte più patetica ed emozionale, in sintesi barocca.
La sequenza delle opere non segue dunque un filo cronologico bensì logistico, dovuto ovviamente alla dislocazione delle sale della Galleria Borghese e alle numerose opere lì conservate, ed è arduo riallacciare le opere del Bernini tra di esse e ai gruppi borghesiani e comprendere la nascita dell’arte barocca.
A questa prima fase dell’attività di Gian Lorenzo Bernini, che vede una stretta collaborazione tra padre e figlio, si colloca anche il Busto di Antonio Coppola, posto nella mostra al primo piano, inserito in una carrellata di busti davvero sorprendente. Il Busto di Antonio Coppola, fissato al 1612 grazie ad alcuni documenti ritrovati da Irving Lavin, è forse l’opera più emblematica della difficoltà da parte della critica di ricostruire la carriera artistica degli anni giovanili di Giovan Lorenzo Bernini.
Dato all’artista giovanissimo da Lavin, nel catalogo che accompagnava la mostra di Bernini a Palazzo Venezia (1999) veniva attribuito da Bacchi (nel saggio introduttivo) a Bernini junior, e da Kessler (nella scheda relativa) a Bernini senior. Dopo la mostra di palazzo Venezia, dove il Busto di Coppola era stato messo a confronto con le altre opere di Bernini, Montanari in un articolo del 2005 dichiarava di accogliere la proposta attributiva di Lavin, proprio perché aveva potuto verificare la qualità e l’originalità del ritratto. Ora, in questa mostra, il Busto viene assegnato nuovamente a Bernini senior seguendo l’opinione di Kessler che intanto aveva ribadito il suo giudizio nella monografia su Pietro Bernini (2005).
Dunque tra il percorso così complesso della mostra e le proposte di diversa attribuzione e datazione di alcune opere da parte di Andrea Bacchi così come di Anne-Lise Desmas nel saggio del catalogo (ad esempio posticipa la data del Busto del Santoni che Lavin aveva giustamente fissato al 1610, proponendo una data del 1615 che difficilmente giustifica un modellato così ancora immaturo, al confronto con il San Lorenzo di quello stesso periodo, così come quella del Bustino di Paolo V al 1622-23, così come ritiene Bacchi, non accettando non solo da tradizionale datazione al 1618 circa ma neanche quella di Petrucci che aveva ipotizzato il 1621), la fase giovanile di Bernini appare non solo non risolta, ma ancora più problematica di prima.
La terza sezione è dedicata all’attività di restauro dell’artista e la mostra presenta due grandissimi capolavori, l’Ares Ludovisi, proveniente da Palazzo Altemps, scultura straordinaria del secolo d.C., e l’Ermafrodito, proveniente dal Louvre.
Sipassa al piano superiore dove si dislocano nelle varie sale cinque nuclei principali, la galleria di busti affiancata alla serie di dipinti, i modelli della Fontana dei Fiumi, le quattro opere dedicate a Cristo (i due Busti del Salvatore e i due Crocifissi, uno proveniente dall’El Escorial e l’altro dalla Art Gallery of Ontario di Toronto) e infine la serie di bozzetti in terracotta.
La galleria dei ritratti è spettacolare e veramente attraversa tutta la vita da Bernini, dai Busti di Gregorio XV e del Busto di Paolo V in bronzo (dello Statens Museum for Kunst di Copenaghen, sfortunatamente non è presente in mostra la versione in marmo del Busto di Paolo V recentemente ritrovato da Petrucci e ora al Getty Museum) degli anni 1621-22, passando per i busti di Antonio Cepparelli e di Paolo V del 1622-23, per le due meravigliose versioni del Busto del Cardinal Borghese, per il Ritratto di Costanza Bonarelli, per il Ritratto del cardinale Richelieu (del Louvre) fino al Busto di Clemente X del 1676-80.
La sezione viene illustrata in catalogo dal bellissimo saggio di Francesco Petrucci. Chiude la carrellata il Busto di gentiluomo, del Los Angeles County Museum of Art, riferito al Bernini da Ursula Schlegel. L’attribuzione è accolta dalla critica, da Avery a Bacchi, da Montanari a Kessler e Petrucci, tuttavia certe durezze di modellato, che si avvertono proprio a confronto con gli altri busti, non convincono del tutto e lasciano qualche dubbio sull’autografia.
A fronte della superba galleria dei busti, la sequenza dei dipinti dispiegata sulla parte di fondo appare non del tutto soddisfacente, se consideriamo che ad alcuni lavori certamente autografi se ne affiancano altri a mio parere da ritenere ancora sub judice. Come il Ritratto di giovine (cat.n.VI.12) di collezione privata, riferito a Bernini già nel 1951 da Luigi Grassi, e descritto e analizzato in modo davvero puntuale da Luigi Ficacci nella scheda dell’opera, ma che presenta caratteri pittorici piuttosto lontani dal fare berniniano, forse anche d’epoca più tarda e certo di non eccelsa qualità; così pure il Ritratto di Giovanni Battista Gaulli, anch’esso di collezione privata, riferito a Bernini da Angelini (2005), Petrucci (2006) e Montanari (2007), senza però l’ausilio di confronti stilistici adeguati a sostenerne non solo l’autografia ma anche l’identificazione del personaggio e la datazione. L’espressione del personaggio appare spenta e anonima, la pennellata debole, i passaggi tra luce e ombra duri e non convincenti.
Del resto è noto che l’attività pittorica di Bernini è un argomento complesso e difficile, per la scarsezza di documenti e per l’esiguità del numero di opere certe con cui stabilire confronti stilistici; sicché ci appaiono necessari ulteriori approfondimenti per allargarne il catalogo e comprendere meglio questo aspetto dell’arte berniniana.
Nella sala dedicata alla Fontana dei Fiumi sono esposti il grande bozzetto della Collezione Eredi Bernini databile tra la fine del 1647 e la prima metà del 1648 e quello più tardo dell’Accademia di Bologna, il bozzetto del Rio de la Plata della Ca’ d’oro di Venezia, e il bozzetto del leone dell’Accademia di San Luca. A questi si aggiunge il modello in bronzo dorato realizzato probabilmente per farne dono a Filippo IV. Proprio qui, in questa sala così suggestiva si avverte ancora una volta il limite della sede: le sale sono così ricche di opere d’arte da non permettere di ampliare lo spazio dedicato ad uno dei monumenti più importanti dell’arte barocca, e legato ad una delle vicende più intriganti e interessanti non solo dell’attività artistica di Bernini ma anche della sua vita personale, e di arricchire pertanto l’esposizione con i disegni preparatori e con apparati didattici più esaustivi in modo da seguire le varie fasi di realizzazione del monumento. Restando all’aspetto artistico, considerando l’analisi del monumento che ne ha fatto Marcello Fagiolo (Cfr About Art online https://www.aboutartonline.com/2017/11/14/la-fontana-dei-fiumi-alla-mostra-del-bernini-dalla-esposizione-dei-modelli-nuove-conferme-iconografiche/, in cui tra l’altro ha evidenziato il fascio di luce che parte dall’obelisco, e analizzando i disegni e i bozzetti relativi alla Fontana, si coglie nei vari passaggi una evoluzione del progetto di Bernini molto complessa: in un disegno della Biblioteca Vaticana che è considerato il primo studio, Bernini progetta un’opera finalizzata alla glorificazione della famiglia papale, inserendosi così giustamente nell’ idea ambiziosa di papa Innocenzo X di trasformare piazza Navona in una insula Pamphilja, poi elabora un progetto dedicato all’attività missionaria della Chiesa, focalizzando il monumento sulla simbologia dei fiumi e dei continenti (ad esempio il Nilo abbraccia la sfinge e il Rio della Plata porta abito e copricapo costituito da penne). Nella versione finale dell’opera, il concetto alla base della composizione cambia sostanzialmente, evidentemente a seguito dei contatti con Athanasius Kircker: ora il punto focale si sposta dalla roccia e dalle figure simboliche dei quattro fiumi all’obelisco, simbolo di luce e di saggezza divina, così da interpretare la Fontana dei Fiumi come massima glorificazione del credo cattolico, della chiesa e del papato che con la luce e sapienza divina illuminano il mondo.
Chiude la sezione dedicata al Mestiere dello scultore, la sala con i bozzetti in terracotta, molti dei quali relativi agli angeli del ponte Sant’Angelo. Dopo la mirabile mostra Bernini Sculpting in Clay esposta al Metropolitan Museum nel 2012 e al Kimbell Art Museum nel 2013, questa sezione appare certamente ridotta, ma pur sempre di grande fascino. La sequenza dei bozzetti degli angeli e il saggio in catalogo di Maria Giulia Barberini permette di seguire da vicino le fasi e la tecnica di quest’arte.
Si passa poi alla sala con le ultime opere di Bernini, i due busti del Salvatore e i due Crocifissi.
Il Crocifisso dell’El Escorial è un autografo accertato e la bellezza e l’armonia plastica della scultura confermano la mano di Bernini. Diverso il caso del Crocifisso di Toronto, che Maurizio Fagiolo dell’Arco riportò all’attenzione degli studiosi nel 2002.
Le ricerche si sono concentrate sulla storia della scultura e sulla sua attribuzione. Se per quanto riguarda la provenienza si è arrivati ad una conclusione, per quanto riguarda l’attribuzione la partita è ancora aperta. A fronte di Montanari che la considera “opera notevolissima e assolutamente berniniana”, Scribner la considera un pastiche, una replica dal modello berniniano ma che nulla a che vedere con Bernini. I due pareri stanno a dimostrare la difficoltà di comprendere a fondo sia lo stile che la tecnica di Bernini. Maria Giulia Barberini, nella scheda relativa, si augura giustamente che il confronto diretto che offre la mostra, possa dirimere la questione, e a mio giudizio, nel confronto l’opera della Galleria di Toronto evidenzia a pieno quanto avanzato da Scribner.
Altra annosa e complessa questione riguarda i due Busti del Salvatore, che in mostra presentano entrambi il nome di Bernini, creando forse qualche perplessità tra i visitatori, in quanto sono così diversi che non possono essere stati scolpiti entrambi dalla stessa mano. Ritenuto a lungo il Busto di Norfolk la scultura da identificare con quella che Bernini donò alla regina di Svezia, la critica in generale accettò la nuova versione del Salvatore scoperta da Maurizio Fagiolo Dell’Arco nella chiesa di San Sebastiano fuori le mura e riproposta in base ad una ricerca archivistica da Petrucci e da Scribner.
Tuttavia, nella scultura non si colgono quei tratti distintivi e del tutto originali del Bernini, quel modo di plasmare il marmo “come fosse cera”, la presenza viva del personaggio resa attraverso una profonda introspezione psicologica, una espressività accentuata profondamente emotiva, che caratterizzano le sue ultime opere, dagli Angeli di Sant’Andrea delle Fratte, alla Beata Ludovica Albertoni, al Busto di Clemente X. Pur in considerazione di una raffigurazione di Cristo, e quindi di una figura divina, e pertanto di un’immagine più idealizzata, quasi distaccata, meno viva, meno palpitante, tuttavia l’opera presenta una freddezza e una modo di scolpire lontani dal lessico berniniano. Difatti, gli studiosi che scoprirono effettivamente l’opera, Valter Curzi e Luigi Gallo, nel catalogo della mostra dedicata a papa Albani (2001), non la identificarono con la scultura di Bernini perché probabilmente non ne erano a conoscenza ma la datarono, su base stilistica, al primo Settecento assegnandola allo scultore Pietro Papaleo. Se ipotizziamo che la scultura della chiesa di San Sebastiano sia effettivamente quella originale, perchè le dimensioni sono identiche a quelle riportate in un inventario settecentesco, allora dobbiamo considerare che l’opera fosse eseguita da un allievo del Bernini, sensibile alle correnti classiciste che ormai avevano preso sopravvento nell’arte di fine secolo. Ipotesi del tutto plausibile se pensiamo che il Monumento di Alessandro VII fu eseguito dai suoi collaboratori, che però in quel caso riuscirono a rispettare maggiormente la cifra stilistica berniniana. A complicare la questione dobbiamo riportare l’opinione di Montanari che reputa originale il busto di Norfolk e versione più tarda, forse di Giuseppe Mazzuoli quella di Roma.
Ma quello che colpisce in questa sala è che un’opera mirabile come l’Amor Sacro e Profano di Tiziano, capolavoro assoluto della Galleria Borghese e dell’arte, finisca come relegata a far da sfondo ad opere monumentali tra l’altro attribuite a Bernini con pareri discordanti (a parte il Crocifisso spagnolo). Né questo è l’unico caso. Un’ulteriore considerazione dunque ci preme anche davanti alla visione di molti capolavori autenticamente berniniani, e cioè che le tante meraviglie qui custodite, che lasciano a bocca aperta tutti i visitatori, non possano essere sacrificate e in una certa misura sottratte alla libera fruizione, pur a fronte di una esposizione mirabile in grado certamente soddisfare gli addetti ai lavori che studiano, amano e si dibattono sulle opere berniniane; è probabile però che molti preferirebbero vedere la Danae di Correggio, l’Amor Sacro e Profano di Tiziano, la Deposizione di Raffaello, la Verità di Bernini, la Paolina del Canova, e tutte le altre opere con calma e serenità.
di Maria Grazia BERNARDINI Roma Novembre 2017