P d L
Riccardo Lattuada (Napoli,1956) è Professore Ordinario di Storia dell’Arte dell’età moderna nella Università degli Studi della Campania ‘Luigi Vanvitelli’. Laureatosi con una tesi su Francesco Guarino da Solofra (1611-1651), relatore Ferdinando Bologna, ha frequentato corsi e seminari in varie istituzioni con studiosi come Ernst H. Gombrich, Francis Haskell, Giovanni Pugliese Carratelli, Alberto Tenenti, Federico Zeri e altri. Ha insegnato Storia dell’Arte in alcune Accademie di Belle Arti, prima di diventare Professore Associato di Storia sociale dell’Arte e di Storia dell’Arte dell’età moderna nella Seconda Università degli Studi di Napoli. Fa parte del Vetting Committee del T.E.F.A.F. (The European Fine Arts Fair, Maastricht) per i dipinti antichi. E’ Socio Corrispondente dell’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli. Numerosissime le sue pubblicazioni -che è impossibile citare in questa sede- relative ai tanti artisti naturalisti e barocchi napoletani, oltre che ad Orazio ed Artemisia Gentileschi, Mattia e Gregorio Preti, Francesco Guarino e altri ancora. Lo abbiamo incontrato in un momento di pausa dalle sue tante occupazioni per parlare delle ultime esposizioni specie della mostra caravaggesca di Capodimonte, ma il discorso com’era inevitabile con un personaggio così preparato e competenete, ha toccato molti altri argomenti, con non pochi spunti polemici.
–Prima di entrare in argomento circa la importante esposizione Caravaggio Napoli, apertasi da pochi giorni a Capodimonte, ricordo che tu hai scritto un articolo su ‘Il Mattino’ dopo il mancato prestito della grande pala con le Sette opere di Misericordia del Pio Monte che era stata richiesta per questa mostra; vorrei dunque sapere da te, che di mostre sei un esperto, cosa pensi, al di là del fatto specifico, del tema del prestito di opere d’arte tra musei; si deve fare? è troppo rischioso ?
R: I prestiti investono questioni su cui non possono esistere criteri validi generalmente, sono questioni specifiche che riguardano in primo luogo la qualità e lo spessore scientifico di quello che si vuole fare, e quindi il tipo di esposizione che si organizza, cui segue in parallelo il rispetto di una serie di vincoli di carattere tecnico, come lo stato di conservazione delle opere da trasferire; senza contare che esiste una politica di rapporti tra istituzioni museali che a volte può favorire, a volte ostacolare i prestiti stessi. Faccio un esempio che a mio parere è molto virtuoso in cui questo rapporto ha funzionato, e che riguarda la mostra su Verrocchio in corso a Palazzo Strozzi, apertasi di recente, in cui una mezza dozzina di opere – se non sbaglio – proviene dagli Uffizi. Stiamo parlando di qualche centinaio di metri di distanza tra i due luoghi, ma è ovvio che il prestito è avvenuto non per la sua assai relativa facilità, bensì per l’assoluto rilievo scientifico dell’iniziativa e per il valore in sé dell’allestimento, oltre che per l’importanza storica dell’evento che definirei epocale, dal momento che è la prima mostra dedicata interamente al Verrocchio. L’argomento della vicinanza tra musei e/o monumenti produce prestiti a Firenze, e dinieghi a Napoli …
–Quello di Firenze è un caso ‘virtuoso’, come dici, ma non sempre è o è stato così …
R: Certo, ci sono situazioni diverse; ad esempio quando alcune istituzioni chiedono rimborsi molto elevati per prestare le loro opere, magari legati alla possibilità di fare campagne di restauro sulle opere stesse; personalmente non ci vedo nulla di male; vero è però che così si seleziona parecchio la possibilità di allestire buone mostre, perché in questi casi i budget crescono in maniera notevole, mentre in genere le risorse non sono illimitate.
-Visto che hai citato la mostra di Palazzo Strozzi, mi vuoi dare un giudizio da studioso su quanto hai visto?
R: La mostra è bellissima, approntata in modo filologicamente irreprensibile, e ci fa capire veramente come il Verrocchio sia stato a Firenze l’autentica cinghia di trasmissione fra la fase rinascimentale collegata alla prima metà del XV secolo e la generazione successiva, quella della maniera moderna; Verrocchio ebbe – e l’esposizione lo conferma – un ruolo determinante, ma in parte appannato dal fatto che fu il maestro di tanti artisti che saranno più acclamati – vedi Leonardo, ovviamente, ma non solo – almeno fino ad oggi. Certamente questa esposizione ne amplierà una fama che solo in parte già gli è riconosciuta. Soprattutto vorrei sottolineare come a mio avviso per molti aspetti fu lui ad inaugurare la modernità, perché se guardiamo anche solo alla patina ed al livello di esecuzione con cui si è espresso nella Incredulità di San Tommaso che adesso è al Bargello (ma proviene da Orsanmichele), non possiamo non accorgerci che siamo già del tutto giunti alla qualità esecutiva del Giambologna, e perfino del Bernini.
–Addirittura anticipatore del Bernini ?
R: Ma è di una modernità incredibile! Anche nella modalità di occupazione dello spazio nella nicchia di Orsanmichele, in cui è oggi la copia. E le stesse iconografie di Verrocchio sono modernissime, ancora immuni dal momento penitenziale dell’arte fiorentina collegato alla fase del Savonarola, quella della Firenze lacerata da ansie millenaristiche e neo-medievali. Queste qualità spiegano il livello della sua reputazione e anche la commissione, da parte della Repubblica di Venezia, del famoso monumento equestre di Bartolomeno Colleoni. Insomma, quella di Firenze mi sembra una esposizione di grande livello.
–E sulla scultura attribuita dai curatori a Leonardo cosa mi puoi dire?
R: Intanto ti dico che gli addetti ai lavori, come capita spesso quando sotto i riflettori di una nuova attribuzione capitano geni come Leonardo, o Raffaello, o lo stesso Caravaggio, si mostrano diffidenti, anche perché la nuova possibile scoperta viene solitamente accompagnata da un vero e proprio martellamento mediatico, come se si volesse fare più rumore possibile; ma per rispondere alla tua domanda ti dico che a mio parere l’idea è plausibile; davanti alla scultura per prima cosa ci si accorge che non presenta i segni dell’armonia verrocchiesca e neppure della dolcezza di Rossellino, al quale era ascritta, ma quelli acerbi e discontinui, e tuttavia assolutamente intensi, tipici di un giovane artista geniale; quel sorriso ineffabile e conturbante mal si combina con i modi della cerchia di Verrocchio, e dunque per me l’idea di un lavoro giovanile di Leonardo, ancorché ardita, va presa in considerazione. Certo, come tutte le idee ardite andrà a lungo sottoposta a verifiche. Peraltro, se si può indicare una necessità dopo la formulazione di questa idea, è quella di allestire un verbale diagnostico completo per un’opera che dovrebbe recare un nome così importante. Questo passo mi pare ineludibile, anche per fugare qualsiasi dubbio su datazione, area di approvvigionamento del materiale, etc. E sono sicuro che qualunque rivista scientifica ospiterebbe questa documentazione.
–Visto allora che lo hai citato, passiamo a parlare di Caravaggio e della mostra di Capodimonte. Prima di entrare nel merito però vorrei sapere cosa pensi dell’evento in sé, ossia se ti pare una iniziativa necessaria, utile per gli studi sul Merisi e sul Caravaggismo, o non magari un’ulteriore operazione mediatico-propagandistica che sfrutta l’enorme interesse che il solo nome di Caravaggio solitamente scatena.
R: Ti rispondo subito che, scherzando ma non più di tanto, personalmente è da molto tempo che sostengo che per Caravaggio sarebbe utile una sorta di moratoria, diciamo per almeno cinque anni, in cui occorrerebbe non parlarne per evitare che questo interesse finisca per tradursi nel suo contrario; anche perché, a dirla tutta, mi viene da immaginare che dietro una tale frenesia di mostre e pubblicazioni ci sia qualcosa che non va, ma sorvoliamo. C’è un termine, l’eterogenesi dei fini, che mi viene in mente ogni volta a questo proposito, che riguarda la competizione tra chi trova qualcosa di più o di nuovo; e poi, certo, c’è una questione di marketing …
–D’accordo, ma torniamo alla mostra “Napoli Caravaggio”
R: Certo, ed allora la prima cosa che voglio sottolineare è che la curatrice, Maria Cristina Terzaghi, è assolutamente adeguata al ruolo, dal momento che ha alle spalle anni di ricerche e pubblicazioni sul Merisi; non si tratta di una studiosa che si è mossa per ragioni di circostanza, né di una studiosa collegata ai facili consumi para-culturali; al contrario ha fatto ricerca vera, anche documentaria; ha prodotto risultati in molti casi assai rilevanti e perfino determinanti. Dunque questa esposizione non si presenta affatto come l’ennesima prova di carattere diciamo così consumistico ma è sicuramente frutto di studio. In particolare, nell’approccio della mostra, mi pare dover rilevare – senza che io scopra qui niente di nuovo – la comprensione del fatto che la vicenda Caravaggio apre le porte ad una contemporaneità che come in nessun altro caso ci pone di fronte a temi come violenza, ambivalenza, provvisorietà; proprio ciò che egli visse negli ultimi cinque-sei anni della sua travagliata esistenza.
–Quali altri elementi a tuo parere sono messi in risalto?
R: Ce ne sono molti; ad esempio l’idea di proporre dei parallelismi non solo e non tanto nella direzione di ciò che Caravaggio sia stato o abbia fatto in quel torno di anni a Napoli: cose di cui in effetti ormai si sa abbastanza; ed anzi mi piace sottolineare, se mi consenti una breve digressione, il ruolo giocato in questo senso dalle generazioni precedenti, da studiosi come Ferdinando Bologna e Vincenzo Pacelli, e poi da altri ancora come Stefano Causa, in particolare con la monografa su Battistello Caracciolo, ma anche da studiosi non partenopei, e cito per tutti Claudio Strinati e Rossella Vodret, oltre al compianto Maurizio Marini, forse più attenti alla realtà romana. Ma si possono separare Roma e Napoli studiando Caravaggio? Dicevo, per tornare al discorso di prima, che altro merito della mostra è l’aver dato ancor meglio conto di quanto non si fosse fatto in precedenza del fatto che Caravaggio non fu solo un fenomeno mediatico dei suoi tempi, né solo un caso criminale, e neppure solo il protégé di un lignaggio aristocratico come i Colonna (presenti tanto nello Stato pontificio quanto nella capitale del Viceregno), ma portatore di un discorso di totale rinnovamento che venne recepito da italiani e stranieri a Napoli, e prima a Roma da Napoletani o da artisti provenienti da Napoli, e che poi poté propagarsi ovunque. Una esposizione di grande rilievo, insomma, che tra le altre cose a mio parere illustra bene la qualità ed i modi di questa ricezione grazie ai molti capolavori esposti.
–La Terzaghi dice nella sua Introduzione che la mostra “più che un punto di arrivo è una tappa”; è una captatio benevolentiae ?
R: No, affatto, credo lo dica perché è una ricercatrice vera e sa molto bene che con i ritmi spesso forsennati con cui procedono le ricerche sul Merisi certamente usciranno altre notizie, magari mettendo in discussione perfino cose che si ritenevano acquisite, come del resto è già avvenuto. Voglio dire invece che non è che tutti siano ricercatori seri e preparati come la Terzaghi. In effetti non si può non notare che non di rado si permette di entrare in questo argomento gente di scarsa o nessuna competenza, perché si sa che si può ricavare un momento di notorietà da qualche nuova notizia, magari anche mal compresa, o da qualche ipotesi fantasiosa. È un classico problema del nostro mestiere, in cui chiunque si sente autorizzato a fare lo storico dell’arte, magari solo per aver letto – e magari pure male – un paio di cataloghi e visto due o tre mostre; Cristina Terzaghi appartiene invece in pieno al campo degli specialisti, degli studiosi che dopo lunghi anni di studio e di ricerche scientificamente ineccepibili possono definirsi seri e competenti; questo credo che nessuno possa sognarsi di negarlo.
–Grande merito spetta anche al Direttore di Capodimonte, Sylvain Bellenger.
R: È vero, hai perfettamente ragione; il merito è anche di chi lavora attivamente da quando si è insediato, e non solo in questa circostanza, pur tra impedimenti e perfino trappole. Pensa alla vicenda, cui hai fatto un breve cenno all’inizio, cioè alla sua idea di portare le Sette opere di misericordia a Capodimonte; secondo me era un’idea che aveva un senso profondo, cioè quello di consentire a tutti una fruizione molto ravvicinata di quel capolavoro, quasi a contatto, per percepirne al meglio la carica suggestiva e la forza evocativa, cosa assolutamente impensabile per come è allocata l’opera al Pio Monte; è appena il caso di ricordare che la richiesta di Bellenger era stata accettata ed il prestito concesso, ma poi interdetto dal Ministero a seguito di una inaudita campagna mediatica; di fronte alla inattesa interdizione si è provveduto comunque a creare degli strumenti che consentono si una visione ravvicinata in situ, ma solo virtuale.
–Non voglio riaprire una polemica superata, ma a tuo parere perché è arrivata la interdizione del Ministro pur a fronte del fatto che il prestito era stato concesso? Che idea ti sei fatto delle ragioni che hanno determinato il parere negativo ? Perché occorre pur riconoscere che tra chi ha protestato credo ci fosse anche chi in buona fede ammoniva sui rischi che comportava il togliere un’opera di così grandi dimensioni da una sistemazione appositamente costruita, per poi trasportarla sia pure per un tragitto breve, ma comunque soggetto a pericoli imprevedibili.
R: Come è noto, il dipinto era già stato spostato in occasioni anche recenti; è altrettanto noto che ispettori della Soprintendenza di Palazzo Reale a Napoli avevano attentamente valutato rischi e possibilità dello spostamento, e l’avevano giudicato tecnicamente semplice e sicuro. La parola che mi viene di nuovo in mente è ancora eterogenesi dei fini. Mi spiego meglio: a Napoli c’è una componente di persone che non fanno nulla, non si accorgono di come il personale delle Soprintendenze si stia estinguendo, non parlano della mancanza di turnover, della assenza di manutenzione del patrimonio culturale della città e soprattutto delle sue periferie, ma sono entrate a piedi uniti in questa storia con il solo obiettivo di rientrare in qualche modo nel circo mediatico: diciamo che è la parte mediocre, quella più in basso tra quanti amano aprire bocca per darle fiato; poi c’è una seconda componente, che è quella di chi continua a vedere ogni cambiamento nel Museo di Capodimonte come una sorta di tradimento delle precedenti gestioni; è la componente che io chiamo affetta dalla sindrome di Highlander.
Ti ricordi della famosa frase del Kurgan (e perciò dello stesso Highlander): “ne resterà soltanto uno”! Insomma, “après moi le deluge”, eccetera; secondo l’idea che chi viene dopo di me non potrà far niente, ed anzi è meglio che non faccia niente. Bellenger è da tempo il bersaglio di questa seconda componente, che possiamo agevolmente ricondurre a chi si può immaginare. Infine c’è una terza componente, credo la più pericolosa, di chi ha osteggiato e combatte da sempre la Riforma Franceschini, che ha fatto di tutto per bloccarla bersagliandola per mesi, e che ora invece preferisce l’intimidazione a mezzo stampa, arrivando a mettere sull’avviso il Ministro affinché stia molto attento ai prossimi rinnovi delle cariche dei Direttori dei Musei. È una cosa davvero vergognosa; è evidente che ci si vuole sedere al tavolo di chi decide su chi debba subentrare nelle cariche al posto di chi c’è stato fino ad ora. È una pura e semplice lotta di potere e di controllo, che ha peraltro assai poco a che fare con una dialettica tra visioni diverse sulle politiche dei Beni Culturali in Italia: magari fosse così! Ed è quasi una prova dell’esistenza di questa lotta di potere il fatto che adesso anche la sottosegretaria ai Beni culturali, la leghista bolognese Lucia Borgonzoni, ha dichiarato in questi giorni di essere d’accordo con Bellenger (e con chi ti parla, insieme a molti altri), che “se mandiamo l’Uomo vitruviano a Parigi, penso che anche il Caravaggio potesse andare lì a Capodimonte”.
–Devi però riconoscere che anche alcune critiche alla Riforma erano comprensibili, se pensi a come siano state affidate le cariche ed all’abolizione delle Soprintendenze.
R: Io non mi sono mai sognato di credere che la Riforma Franceschini fosse la panacea di tutti i mali del sistema museale, e in genere culturale italiano, e neppure ho mai pensato che il meccanismo di reclutamento dei direttori fosse il massimo dell’obiettività e della trasparenza. Ad esempio, molti colleghi accademici giustamente obiettano che l’assoluta pubblicità cui si è tenuti nel caso di qualunque forma di reclutamento nel settore pubblico prevede che ogni passaggio sia regolato dall’assoluta trasparenza di curricula, giudizi, etc., fino alla gogna pubblica dei giudizi messi in rete su chi consegue o meno l’Abilitazione Scientifica Nazionale a sostenere i concorsi di Professore Associato o Ordinario. Diciamo, a voler essere eufemistici, che su questo terreno si poteva certamente fare di meglio: la normativa poteva essere cento volte migliorata, e tuttavia la Riforma è stata un segnale importante di apertura e di attenzione verso la funzione dei musei e la loro autonomia. Detto ciò, però, oggi credo che questo tema pesi per un quarto sui problemi che abbiamo di fronte. Gli altri tre quarti riguardano il degrado continuo del patrimonio culturale del paese, l’estinzione del personale degli uffici di tutela, la difficoltà o incapacità ad intervenire sul territorio, che è sempre più vittima di inerzia e scempi lamentati da generazioni da personalità come Federico Zeri, Bruno Toscano e tanti altri; pensiamo al degrado della condizione urbanistica che ha portato alla distruzione sistematica delle memorie culturali italiane e del loro contesto. La Riforma intestata a Franceschini ha fatto poco o nulla a questo riguardo, ma certamente non si può dire che fosse una totale ingiustizia. E poi sembra di capire che ci sia un grande interesse a gestire i rinnovi, le giubilazioni, etc. …
–C’è chi sostiene che alla Direzione dei musei dovrebbero tornare funzionari italiani. Vittorio Sgarbi, ad esempio, In una intervista ad About Art (cfr https://www.aboutartonline.com/vittorio-sgarbi-a-360-nei-musei-devono-tornare-direttori-italiani-caravaggio-mai-fatto-doppi-e-la-diagnostica-non-serve-a-niente/), ha affermato che nei ruoli dello stato debba essere prescritta la cittadinanza italiana, visto che poi non c’è un ministro straniero o un magistrato straniero o un preside straniero o un ambasciatore straniero e via dicendo, e dunque non si capisce perché debbano invece esserlo i direttori dei nostri musei che sono parimenti funzionari dello Stato.
R: Non mi ritrovo in questo punto di vista di Vittorio; certo, ci sono profili giuridici molto complessi da riassumere qui, e va comunque ricordato che c’è una sentenza definitiva sulla controversia in favore della liceità delle assunzioni dei direttori stranieri. Poi: nell’Unione Europea noi italiani possiamo andare a lavorare dovunque e viceversa. Decine di ricercatori italiani lavorano all’estero – è avvenuto anche negli Stati Uniti – e tra essi anche qualche direttore di museo. Piuttosto il problema è che in molti sono costretti ad andare a cercare lavoro all’estero perché qui non si riesce a dare loro una prospettiva. Sgarbi ha ragione quando dice che anche gli italiani possono essere bravi amministratori e bravi direttori, ma non si tratta un derby tra italiani e stranieri, perché i problemi per gli italiani bravi non nascono dal fatto che le cariche dirigenziali possano finire a funzionari stranieri, ma che in generale il settore dei Beni Culturali offre pochissime possibilità di assorbimento di mano d’opera, sia tecnica sia scientifica. Peraltro, vogliamo aprire un discorso su quello che avviene nelle Università? Si potrebbe scrivere un dossier gigantesco sui profili di persone che meriterebbero, o che avrebbero meritato, di entrare in quelle istituzioni. D’altronde, in un paese in cui mancano i medici nei Pronto Soccorso è difficile convincere un elettorato frustrato e mal disposto che anche i Beni Culturali sono una priorità.
–C’è anche chi ha fatto notare che con la Franceschini sia prevalso l’aspetto manageriale e, diciamo così, pratico nel lavoro dei direttori più che quello culturale ed educativo, che dovrebbe invece essere caratteristica tipica e primaria di queste istituzioni.
R: Intanto ti dico che nel nostro paese ci sono tante Italie: nel campo della qualità del tessuto sociale prim’ancora che in quello della conservazione e della tutela del patrimonio artistico e culturale. I Soprintendenti colti, del tipo di Andrea Emiliani, e prima di lui Cesare Gnudi, o come Antonio Paolucci ed altri, hanno avuto la possibilità di operare in contesti sociali in cui non c’era ancora questa condizione di grave degrado che dobbiamo denunciare oggi, soprattutto, per quanto ne so io, per quello che riguarda l’Italia meridionale. Probabilmente era più facile operare nelle condizioni in cui si muovevano i direttori di museo negli anni Cinquanta o Sessanta del secolo scorso; adesso l’Italia appare davvero mal messa tra mancanza di manutenzione, speculazione e scempio del territorio; insomma il discorso sulla presunta prevalenza del dato manageriale o amministrativo su quello educativo e culturale è superato, è astratto; qui siamo di fronte a temi ben più concreti che sono quelli del blocco del turnover del personale, dell’impoverimento numerico e anche della mancanza di aggiornamenti nella formazione, della mancanza di una vera autonomia gestionale – e poi, con quali fondi? – tanto che le Soprintendenze sono spesso impossibilitate ad operare. Sono stati tolti dai bilanci dello Stato i fondi ordinari e si è progressivamente fatto ricorso ai fondi straordinari; significa che è stata sistematicamente distrutta ogni possibilità di programmare una politica di conservazione e tutela. Si pagano stipendi e bollette, ma non c’è un soldo per pensare di organizzare progetti a medio e a lungo termine.
–Perché? Puoi spiegare meglio?
R: È facile da spiegare; adesso non si può più entrare ad esempio in una chiesa e dire “cominciamo dalle fondamenta, dalle finestre, dal tetto, dall’antifurto. Poi ci occupiamo del pavimento, delle pareti, degli stucchi, delle sculture, delle pale e dei dipinti” e così via, fino a quando tutto è stato progettato e realizzato. Non è mai stato, e ancor oggi non è così; arrivano un po’ di soldi con cui iniziare un restauro, poi altri per proseguirlo, poi forse pochi altri per qualcos’altro, insomma un pezzo per volta; questa è la realtà d’oggi: questo è stato il vero colpo al cuore nella operatività delle Soprintendenze. Poi non si cataloga più, non si fanno sopralluoghi per programmare la manutenzione – che peraltro non si è mai fatta – e non si fa una politica di prevenzione e di rafforzamento delle condizioni del patrimonio nei luoghi più esposti a rischi sismici, ambientali, etc., cioè la quasi totalità del territorio italiano, che finisce per essere abbandonato a se stesso. So bene che ci sono gioielli come Budrio o come Fontanellato; ma pensiamo invece a Secondigliano, alla periferia di Sciacca, a Trapani fuori dalle mura storiche, alle vele di Scampia, nei pressi delle quali – pochi lo sanno – ci sono antiche cisterne d’epoca romana, e potrei continuare a lungo. Questi problemi erano stati compresi appieno da quella gigantesca personalità che fu Giovanni Urbani, il quale non a caso su questi temi si giocò la carriera. Ma questo discorso ci porterebbe lontano, e magari lo faremo un’altra volta, se vorrai.
–Insomma, visto che ormai le cariche di direttori sono a scadenza, tu cosa auspichi? Anche tu propendi per un ritorno a direttori italiani o saresti favorevole a rinnovare per altri quattro anni gli attuali direttori?
R: Io auspico semplicemente che la valutazione per la riconferma o meno sia trasparente ed equa, considerando quanto è stato realizzato e non soltanto basandosi sulla conta dei visitatori, come pure demagogicamente qualcuno ha sostenuto. Vanno tenute presenti numerose varianti; faccio un esempio: il Museo di Capodimonte sta per perdere un terzo del personale per l’introduzione della famosa ‘quota 100’ e nessuno sa se e come verrà rimpiazzato. Come potrà essere giudicato il lavoro del Direttore, Sylvain Bellenger, che ha risanato il grande parco e riproposto all’attenzione del pubblico l’enorme patrimonio artistico del Museo con eccellenti mostre e riallestimenti di rilievo, senza tenere presenti le strutturali carenze d’organico? Aggiungo un esempio che conosco bene e che non riguarda Napoli. Ho assistito in prima persona alla ultimazione dell’allestimento delle sale di Leonardo e di Raffaello agli Uffizi; allestimento motteggiato oltre il livello della calunnia da cosiddetti studiosi – è proprio il caso di dire così – che hanno ritenuto di poter ironizzare sul Tondo Doni ‘in lavatrice’ o sul Battesimo di Cristo di Verrocchio e Leonardo “nel televisore”.
Costoro non si sono resi conto che i primi ad aver insultato sono le maestranze e i tecnici fiorentini, cioè il personale degli Uffizi – a cominciare dall’Architetto Antonio Godoli – che quegli allestimenti hanno progettato e realizzato. Grazie alle nuove sistemazioni ora ci si può avvicinare e osservare quei capolavori come mai prima, e la loro conservazione e sicurezza sono assai meglio tutelate, per inciso, in quella che è anche stata la città dell’attentato ai Georgofili. Cosa si preferiva? Il vecchio caro cordone con i due fiocchi di velluto e il custode che urla “indietro, non toccare”? Vogliamo poi dire due cose sulle altre sistemazioni? Sulla sala dei Caravaggeschi, ad esempio, che solo ora è pienamente fruibile, come pure quella dei Veneti. Insultato persino con il sospetto di aver sprecato fondi pubblici, Eike Schmidt ha realizzato molte delle opere di riallestimento con fondi degli Amici degli Uffizi; fondi privati provenienti da molte donazioni internazionali. Tutto questo suona a merito o no dell’attuale Direttore?
-Il quale però è stato criticato da alcuni per essersi proposto alla direzione del Kunsthistorisches Museum di Vienna …
R: Anche questa è una cosa incredibile; mi chiedo: ma una persona che viva del suo lavoro come si sentirebbe se il proprio ruolo finisse tutti i giorni sotto il tiro di una mitragliata ricorsi in tribunale, oppure se il suo posto di lavoro venisse messo a rischio dalle clausole di una possibile nuova normativa che ancora non si conosce? La verità è che molte critiche sono nate, e ancora nascono dal fatto che Eike Schmidt ha sostituito Antonio Natali, e a molti questo non è andato giù. Conosco Natali ed i suoi meriti – ha fatto tanto durante gli anni in cui ha diretto gli Uffizi – tuttavia sarebbe ingeneroso crocifiggerlo per i limiti della sua gestione, che pure evidentemente possono essere rilevati. Allo stesso modo non è onesto ridimensionare o stroncare per partito preso quanto di buono ha fatto e sta facendo Schmidt, ed è veramente assurdo che lo si consideri un traditore per il fatto che si preoccupi per gli attacchi al suo posto di lavoro, e magari provi anche ad avere un piano B. Strani, gli Italiani: per se stessi non hanno mai smarrito la stella polare rappresentata dal motto “Tengo famiglia” di longanesiana memoria, ma non sembrano altrettanto sensibili ai problemi della famiglia degli altri. Quando Edward. C. Banfield coniò nel 1958 la famosa definizione di “familismo amorale” per qualificare la mancanza negli Italiani di senso del valore di ciò che è pubblico, non immaginava quanto la sua tesi potesse essere di lunga durata….
–Ritorniamo sulla mostra caravaggesca di Capodimonte, ed entriamo però stavolta un po’ nel contenuto, perché si discute di attribuzioni su cui la stessa curatrice ha espresso alcune perplessità nel corso della visita seguita alla conferenza stampa del 15 aprile scorso. Una attribuzione ti riguarda da vicino perché concerne la Salomè con la testa del Battista, presentata in mostra nelle due versioni di Roma (collezione privata) – che attribuisti proprio tu per primo nel 1990 – e Amsterdam (in deposito presso il Bijbels Museum). Viviana Farina – che ha dedicato un saggio molto argomentato alla esposizione su About Art le giudica entrambe originali dell’artista. Qual è il tuo parere?
R: Ho letto sulla tua rivista il saggio di Viviana, che ha fatto correttamente cenno alla mia attribuzione di diversi anni or sono, (cfr https://www.aboutartonline.com/caravaggio-napoli-iniziata-la-grande-mostra-a-capodimonte-about-art-apre-la-discussione/ un’attribuzione che qualunque studioso con un minimo di credito che si sia occupato di Massimo Stanzione ha confermato; non mi ritrovo invece nel ritenere totalmente di mano dell’artista anche la versione olandese – per la quale a suo tempo venni contattato – che mi pare un po’ meno forte, se posso dire così. Ma va tenuto presente che le condizioni conservative di entrambi i dipinti non sono certo perfette; mi pare che la versione romana abbia sofferto di restauri antichi e di un degrado dovuto principalmente alla tecnica del primo Stanzione, che è abbastanza fallibile. Sarebbe stato molto utile poterle entrambe in mostra, ma capisco che lo spazio era limitato. Quello che però mi pare debba essere sottolineato riguardo alla Salomè, è il fatto che – al di là dei vari convincimenti attributivi sul rapporto tra le due versioni – l’opera faccia parte del periodo romano di Stanzione, verso il 1616-17, e sia cioè, con altre poche prove, ascrivibile al percorso caravaggesco dell’artista: è un grande incunabolo del Caravaggismo napoletano.
–In effetti, dobbiamo dire che i punti di vista attributivi non sempre collimano …
R: Esattamente. Mi vengono in mente a questo riguardo le parole di Paul Joannides, secondo il quale i cataloghi delle mostre dovrebbero essere compilati dopo che i quadri siano stati esposti. Forse voleva essere una battuta, ma contiene un fondo di verità. In ogni caso, alle esposizioni di rilievo sarebbe opportuno che seguissero sempre giornate di studio, convegni o conferenze per verificare lo stato delle cose; è auspicabile che ciò possa accadere in questa circostanza. In ogni caso le attribuzioni sono come le diagnosi mediche: nel tempo alcune si dimostrano valide, altre meno o per nulla. Accettare questa dinamica senza cedere alla tentazione di apparire come sciamani infallibili farebbe tanto bene al mondo dei conoscitori.
–Riguardo alla mostra di Capodimonte, una delle cose diciamo così a latere, che però mi hanno colpito e fatto personalmente riflettere, è stata la mancanza pressoché totale di riferimenti alla diagnostica, un campo di studi e di lavoro che da qualche tempo sembra invece essere stato il più rilevante nelle esposizioni, e non solo, dedicate all’opera di Caravaggio e al suo ambiente; tu che idea ti sei fatta in generale della questione?
R: Intanto mi pare che la mostra napoletana sia interna ad un percorso di ricerca rimarchevole, come già dicevo, ma un po’ diverso dal tema che sollevi tu; poi, riguardo alla diagnostica, posso dire che certamente oggi è al centro dell’attenzione degli addetti ai lavori perché può essere, e a volte è foriera di risultati in grado di supportare lo studio; detto questo, però, per come la vedo io gli esami diagnostici non saranno mai la ‘pistola fumante’ sul valore di originalità o meno di un’opera d’arte. Come pure è fuori di ogni logica voler accreditare l’idea – sulla base di esami di questo tipo – che si possano analizzare i quadri misurando in millimetri il ductus pittorico, la pennellata, lo spessore materico: credo che nessun pittore seicentesco abbia lontanamente immaginato che il sistema metrico decimale potesse diventare una unità di misura del suo lavoro. Questo secondo me andrebbe ben tenuto presente: qualche leggera discordanza nel ductus o nelle pennellate non può giustificare in alcun modo un giudizio positivo oppure contrario di originalità di un lavoro artistico, a meno di credere che un artista si avvalesse di un centimetro millimetrato sul tipo di quelli che abbiamo a disposizione noi oggi. La storia dell’arte è sempre più una disciplina in cui convergono, in modo complementare e possibilmente dialettico, competenze e prospettive di metodo diciamo così complanari. Ciò che produce valore è l’interazione feconda e metodologicamente fondata tra gli approcci, non il culto feticistico della primazia dell’uno o dell’altro.
–Mi pare di capire che alla ricerca diagnostica tu non affidi tanta importanza.
R: Ma no, al contrario! Personalmente imporrei a qualunque storico dell’arte, soprattutto ad un accademico ‘puro’, un periodo di lavoro in comune con diagnosti e restauratori. In realtà la diagnostica non è popolare; non è una questione che appassiona se non gli addetti ai lavori e forse neppure tutti, e in ogni caso una esposizione concepita solo su questo argomento non porterebbe a entusiasmi massificati.
–Però in questo credo che hai torto, perché ad esempio la mostra milanese Dentro Caravaggio realizzata da Rossella Vodret lo scorso gennaio a Milano è stata tutt’altro che impopolare; al contrario, è stata un successo ed ha fatto segnare circa 400 mila visitatori.
R: Certo, ma la domanda è: quanti visitatori hanno staccato il biglietto perché c’erano in mostra veri capolavori di Caravaggio e quanti invece hanno visitato l’esposizione attratti dal palinsesto, dalle relazioni tecnico-scientifiche, dalle analisi riflettografiche e dai dati che le ricerche diagnostiche hanno fatto emergere? È chiaro che la statistica è impossibile stilarla ex post, e però mi pare opportuno chiedersi se la gran massa dei visitatori sia stata attratta dalle tele esposte, dal mito mediatico di Caravaggio, etc., piuttosto che dalle indagini tecniche; per questo dico che la diagnostica non è popolare, perché l’approccio specialistico – anche quello della Storia dell’Arte – di per sé non lo è; una esposizione incentrata sui soli accertamenti diagnostici, solo con fotografie di un’opera e con i riscontri tecnici non avrebbe successo, potrei scommetterci, se non tra i restauratori, i diagnosti e alcuni storici dell’arte (neanche tutti…).
–E però se fossi tu – che sei conosciuto come grande esperto di pittura in generale e in primo luogo di pittura napoletana – a dover organizzare una mostra se non su Caravaggio sulla pittura partenopea e meridionale del tempo influenzata o meno dal genio milanese come ti comporteresti, a cosa punteresti maggiormente?
R: Intanto ti posso dire che ai miei studenti racconto sempre la teoria di Ernst Bloch sul tempo relativo, per cui nelle due rive del fiume Elba si fronteggiavano da un lato il campo del contadino, dove tutto veniva regolato dalle stagioni, dal sole e dalla pioggia, dall’alternarsi dell’alba e del tramonto, e così via, mentre dall’altro lato c’era una fabbrica che scandiva minuziosamente i tempi di lavoro dell’operaio, i suoi movimenti, i minuti di pausa, etc. tutti questi passaggi erano (e sono) misurati dal suono delle sirene; il tempo della fabbrica è un tempo denso, veloce, il tempo del contadino invece è lento e legato al ciclo della natura. Ecco, fuor di metafora, ciò che mi ha sempre affascinato, che trovo in larga misura anche drammatico sul piano della narrazione e che mi piacerebbe approfondire, è proprio la costatazione che è esistita nel Meridione d’Italia tutta una comunità di artisti tardomanieristi, italiani o fiamminghi o di altra nazionalità, che si muovevano un po’ secondo i ritmi del contadino di Bloch, e che poi all’improvviso subiscono un’accelerazione brutale a fronte delle innovazioni rivoluzionarie del linguaggio caravaggesco. Personaggi di cerniera come Carlo Sellitto, lo stesso Giovan Bernardino Azzolino, o anche Battistello, il quale realizza – quanti? – dieci quadri caravaggeschi?, e artisti che poi si allontanano piuttosto in fretta da questo linguaggio. Pensa alla forza suggestiva di esporre dieci opere del 1607, l’una accanto all’altra: lì il tempo relativo di ogni artista si staglierebbe nitidamente.
-Quindi come progetteresti una mostra specifica sul tema che dicevo?
R: Ti rispondo che organizzerei tutto secondo ciò che mi affascina, mettendo in risalto quello che come storici dell’arte possiamo realizzare personalmente – che poi è la cosa più importante e allo stesso tempo più transeunte – vale a dire l’interpretazione delle opere e delle personalità che le hanno prodotte, oltre che delle circostanze che le hanno generate. Quadri e forse anche qualche scultura che dessero conto dei tempi relativi degli artisti coinvolti nel passaggio a Sud del ciclone caravaggesco. Poi, forse, molte immagini e discorsi sugli scenari fisici delle loro esperienze. Maurizio Marini aveva censito con amore gli angoli di Roma in cui erano vissuti gli artisti senza regola della nouvelle vague caravaggesca, e anche a Napoli molti luoghi di quella vita ancora esistono. Comunque sarebbe una sfida terribile: quando più di vent’anni fa organizzai una mostra sull’effimero barocco al Largo di Palazzo di Napoli – solo su quella parte della città, per quanto importante – furono necessari anni di lavoro.
-Per chiudere la nostra conversazione non posso non chiederti su cosa sei impegnato attualmente e nei prossimi giorni, oltre che nell’insegnamento.
R: L’insegnamento all’università prende, com’è ovvio, molto del mio tempo; tuttavia posso dirti che sto finalmente per pubblicare con Laura Raucci un volume monografico dedicato a Giacomo Farelli, importante pittore seicentesco nato a Roma nel 1629 ma napoletano d’adozione (muore nei primissimi anni del Settecento). Farelli fu anche una singolare figura pubblica, avendo rivestito la carica di Governatore dell’Aquila, e grazie alla protezione di importanti famiglie nobili come Ruffo e Carafa ottenne anche una nomina a Cavaliere di Malta. Il che fece imbestialire Mattia Preti, che se l’aspettava per sé ma la ebbe solo in un secondo tempo. Farelli conseguì grandi committenze a Napoli e in Abruzzo oltre che in Toscana, per poi cadere nell’oblio. Ci auguriamo di poterlo risollevare grazie a questo lavoro a quattro mani, che spero sarà in libreria entro la fine di quest’anno. L’altro lavoro che sto completando con Nicola Felice riguarda Paolo Saverio Di Zinno, uno scultore del legno attivo nel Settecento in Abruzzo, Campania e Capitanata e soprattutto a Campobasso, dove nacque e visse. Di Zinno è poco noto ai più, se non nella sua città natale, per aver ideato l’edizione settecentesca della Festa dei Misteri del Corpus Domini, quando per le vie di Campobasso sfilano macchine che rappresentano immagini della devozione cattolica impersonate da figuranti vivi; una consuetudine pienamente inserita nella temperie barocca di Napoli, dove Di Zinno ebbe i suoi maestri. Ma imponente per quantità, e significativa per qualità, è anche la produzione di sculture in legno per un immenso quadrante territoriale (Abruzzo, Molise, Capitanata, Beneventano, etc.). Un artista ancor più misconosciuto, in questo caso, ma del resto proprio per questo per me affascinante; e poi ho sempre amato occuparmi di artisti, contesti, momenti sconosciuti.
P d L Roma maggio 2019