di Francesca SARACENO
“Diffondendosi nella notte i lumi fra l’ombre”
Le parole di Giovan Pietro Bellori nel descrivere questo dipinto, si insinuano sinistre come infauste profezie, nella storia di un’opera che ancora oggi, strappa brandelli di vita all’oblio come Caravaggio i suoi lampi di luce all’oscurità.
La conosciamo da poche fotografie a colori scattate prima del furto che la sottrasse – mai più restituita – ai palermitani e al mondo la notte tra il 17 e il 18 ottobre del 1969, per una sciocca, vile… inutile vanità. E la conosciamo un po’ meglio, oggi, grazie all’impegno costante di studiosi e ricercatori, il più infaticabile dei quali è Michele Cuppone, il cui saggio sulla “Natività” (“Caravaggio, la Natività di Palermo. Nascita e scomparsa di un capolavoro”, Campisano Editore, giunto nel maggio 2021 alla sua seconda edizione) contribuisce non soltanto a tener vivo il ricordo e l’attenzione su un’opera spesso non sufficientemente considerata, a causa della sua assenza, ma anche a far emergere nuovi importanti elementi sia dal punto di vista puramente esegetico sia da quello più strettamente legato alla sua scomparsa.
Un dipinto, quello della “Natività” (fig. 1), che non ha avuto l’attenzione che meritava.
La tela fa appena in tempo a essere esposta: alla famosa mostra di Longhi nel 1951 e poi al Louvre nel 1965, quando il nome e il genio del maestro lombardo furono rilanciati e posti all’attenzione del mondo. Michelangelo da Caravaggio riemerse dal buio in cui era stato relegato per secoli, divenne la star del Novecento, le sue opere ammirate e studiate dai più quotati critici e storici dell’arte. Ma nel caso della “Natività” palermitana le luci della ribalta si spensero molto presto. L’oscurità e il silenzio omertoso di quel furto sacrilego inghiottirono questo capolavoro che segna il passo alla carriera di un artista avido di successo.
Da sempre considerata opera siciliana, coeva del “Seppellimento di santa Lucia”, della “Resurrezione di Lazzaro” e della “Adorazione dei pastori”, sulla base di quanto riportato dai biografi Baglione e Bellori circa un presunto passaggio del Merisi a Palermo, questo straordinario dipinto, comunemente indicato come “Natività con i santi Lorenzo e Francesco”, è invece riferibile indubbiamente al periodo romano del Caravaggio, precisamente all’anno 1600, e quasi certamente da considerare come prima pala d’altare della sua carriera. E molti sono, come vedremo, gli elementi a sostegno di questa tesi, introdotta già negli anni ’20 del Novecento da Enrico Mauceri.
Caravaggio riceve la commissione per un quadro “cum figuris” dal mercante Fabio Nuti il 5 aprile del 1600, come attesta il contratto di committenza pubblicato per la prima volta da Gian Lodovico Masetti Zannini nel 1971. Fu Alfred Moir, nel 1982, a collegare per primo la tela palermitana a quel quadro “cum figuris” non meglio specificato, sulla base delle misure della tela pressoché identiche a quelle indicate nel contratto: “altitudinis palmorum duodecim in circa et latitudinis palmorum septem vel octo in circa”.
Rispetto a queste indicazioni il dipinto presenta solo uno scarto di pochi centimetri in larghezza giustificabile anche col fatto che all’epoca della commissione l’altare dell’Oratorio di San Lorenzo era ancora da ultimare. E d’altra parte le stesse indicazioni contrattuali concedevano un margine di approssimazione, “septem vel octo in circa” per l’appunto. A sostegno del collegamento tra il contratto Nuti e la “Natività”, concorre il fatto che esso fu stipulato presso un notaio (Giovanni Agostino Tullio) e vi si evince che all’artista era stato richiesto in precedenza uno “sbozzo” dell’opera che fosse conforme al “designum” consegnatogli dalla committenza. Esattamente la procedura standard per commissioni di opere destinate alla visione pubblica come le pale d’altare. E quello “sbozzo”, come risulta dal contratto, venne “visto” e accettato dal committente (i cultori del Caravaggio che “non disegnava mai né produceva bozzetti”, si rassegnino…).
Fabio Nuti era a quel tempo in relazioni commerciali con la compagnia di San Francesco con sede nell’Oratorio di San Lorenzo a Palermo, ed è dunque probabile che egli fece da tramite, ovvero si adoperò per conto della confraternita, per trovare a Roma un valido pittore cui commissionare la pala d’altare richiestagli: un quadro che raffigurasse per l’appunto una “Natività”. A confermare l’importanza della commissione, Nuti aveva incaricato ben due periti (Rutilio Gaggi e Alessandro Albani) per valutare il prezzo dell’opera, stabilito in 200 scudi, dei quali 60 vennero versati in acconto a Merisi, che si impegnava a restituirli nel caso l’opera non fosse risultata conforme alle richieste o non fosse stata consegnata nei tempi previsti. A tal proposito Caravaggio chiama l’amico fidato Onorio Longhi a garantire per lui.
L’opera in realtà non sarebbe stata consegnata in tempo per la festa di San Lorenzo in agosto (proprio in quel periodo, peraltro, l’altare dell’Oratorio risultava ancora interessato da lavori), ma nel novembre dello stesso anno, nella residenza del cardinal del Monte, al già citato Alessandro Albani. Non sarebbe stata la prima volta che Merisi non avrebbe rispettato le tempistiche contrattuali e d’altra parte in quel periodo particolare della sua carriera egli era davvero molto impegnato.
È il momento più importante della parabola artistica del Caravaggio. Sta lavorando ai laterali Contarelli che presenta trionfalmente in luglio, in settembre riceve la commissione per le tele Cerasi, viene conteso dai più colti collezionisti. È in piena fase creativa, il suo genio esplode – letteralmente – di “visioni” folgoranti e rivoluzionarie. Le storie di Matteo ne sono la prova lampante; l’impostazione concettuale e stilistica della “Natività” destinata all’Oratorio palermitano è del tutto in linea con le opere di quel primo tempo di successi e proprio da quei lavori in San Luigi dei Francesi, Caravaggio attingerà abbondantemente per questa sua prima pala d’altare.
L’artista opera su una grande tela, un taglio di stoffa unico, come gran parte delle sue tele romane (mentre le tele siciliane saranno tutte ricavate da più tagli cuciti insieme, poiché la larghezza standard dei teli disponibili nell’isola non superava i 5 palmi) e immagina una scena calata in un’atmosfera raccolta, come se la manifestazione del Messia fosse per lui un fatto intimo, per pochi “eletti”.
Ma le poche figure che il Caravaggio riunisce intorno al miracolo della Vita, in realtà, sono emblema dell’intero creato che rende omaggio e testimonianza al proprio Creatore fatto “carne” e venuto “ad abitare in mezzo a noi”. Nella “Natività” abbiamo una visione ravvicinata (effetto “zoom”) delle figure disposte secondo una costruzione a raggruppamento centrale, mentre nelle tele siciliane è chiara una geometria discendente su una diagonale che schiaccia tutti i protagonisti sul fondo della scena. La luce che scende dall’alto, di taglio, segue la linea del braccio di uno splendido angelo (fig. 2) che fluttua nello spazio buio della stalla di Betlemme e lo riempie di vivida, umanissima sacralità; negando di fatto quella “costante”, tipica nei dipinti siciliani, dello spazio vuoto che sovrasta le figure. Altro segno concreto che la tela palermitana è lontanissima dallo stile più tardo del Merisi.
Agitando le gambe tra luce e oscurità questo angelo ragazzino tra non molto si involerà sull’altare della Cappella Contarelli, in posizione speculare, quale fratello concettuale e stilistico di quello che detterà a Matteo la genealogia di Cristo nella pala di San Luigi dei Francesi (fig. 3).
Il cartiglio con cui annuncia al mondo l’avvento del Messia, segue la stessa curvatura dello svolazzo del suo gemello Contarelli. La possibilità che Caravaggio abbia utilizzato un “cartone” per riprodurre l’angelo nella pala di San Luigi costituisce l’ennesimo elemento a sostegno della tesi che questa “Natività” sia romana e non siciliana.
Sotto questo splendido angelo “ambasciatore”, troviamo il titolare dell’Oratorio cui era destinata l’opera: un san Lorenzo molto particolare (fig. 4). Perfettamente ligio all’iconografia tradizionale indossa una sontuosa dalmatica gialla; si appoggia però sulla graticola del suo martirio in una inconsueta posa dinamica (che ricorda molto quella del ragazzo curvo sulle monete nella “Vocazione” Contarelli, fig. 5), quasi inchinandosi, meditando la meraviglia della “Verità” che si dispiega ai suoi occhi. E ha un volto singolare, questo san Lorenzo, con una folta capigliatura e un insolito “attualizzante” pizzetto, elementi che hanno fatto pensare a un possibile “ritratto” ma che, nell’economia del dipinto, ne fanno sintesi unica, tipicamente caravaggesca, tra materia e spirito, tra immanenza e trascendenza.
Di fronte a lui due personaggi in uguale atteggiamento di adorazione, osservano la scena. In piedi, alle spalle della Vergine, avvolto in un ampio mantello che nasconde quasi del tutto un saio stranamente integro, senza alcuno strappo o rattoppo, fermato in vita da un cordone, troviamo quello che possiamo certamente indicare come san Francesco (fig. 6). Un’altra figura “sui generis”. Il santo di Assisi è rappresentato in questa figura a mani giunte, intensa nella sua posa orante ma defilata rispetto al martire con cui condivide il titolo nell’opera. Per lui nessuna chierica ma un’ampia stempiatura, barba e capelli insolitamente neri quando gli altri san Francesco del Merisi li hanno castani.
E se a un primo esame le mani del santo non sembrano riportare le stimmate – cosa che, unitamente alla posizione arretrata, ha fatto pensare che forse, più che nel santo di Assisi, questo personaggio potesse identificarsi in un più anonimo frate francescano – a ben vedere, invece, sulla mano sinistra, quella più in ombra, è appena percettibile (ma c’è) una piccola macchia rosso scuro al centro del dorso, identificabile per l’appunto con una delle stimmate.
Particolare, questo, benché realizzato più in forma di taglio, visibile a un’osservazione ravvicinata anche nella copia della “Natività” (fig. 7) eseguita nel 1627-1628 da Paolo Geraci e conservata oggi presso il Museo Civico “Castello Ursino” a Catania. Inoltre, le indagini radiografiche sul dipinto palermitano eseguite prima del furto, hanno reso più leggibile sotto il mantello, sul davanti, la presenza del bordo di quella che quasi certamente è una “mozzetta” francescana. Questi due elementi, nonostante l’iconografia “alternativa” proposta dal Merisi, dovrebbero fugare ogni dubbio che quella figura in preghiera altri non sia che l’Assisiate.
Alla sinistra di Francesco, si affaccia dal margine estremo della tela un altro personaggio (fig. 8) i cui elementi caratterizzanti – cappello e bastone, insieme al volto da anziano – lo definiscono verosimilmente come un pastore, giunto alla capanna della “Natività” chiamato dall’annuncio dell’angelo e guidato dal pennello del Caravaggio. Il maestro ne tratteggia la figura quel tanto che basta (nessuna decurtazione di tela risulta dalle radiografie) e in quella maniera tutta sua, particolare, canuto e stanco, che ce lo fa intuire per ciò che davvero rappresenta: l’umanità più estrema, emarginata, “pura” nella sua manifesta fragilità.
E il Merisi lo pone non a caso accanto a quel saio francescano, simbolo della spiritualità più vera e “operante”: i santi accanto alla gente comune, uniti nella preghiera e nell’adorazione del Messia appena nato.
Ed è proprio a quell’umile pastore, portavoce dell’umanità, che si rivolge, presentando il figlio “putativo”, un singolare san Giuseppe (fig. 9). Che ci aspetteremmo facilmente riconoscibile, anziano e frontale, e che invece il “rivoluzionario”, eterodosso Caravaggio ci pone di spalle e sorprendentemente “giovanile” almeno nella sua muscolatura sotto sforzo ed evidenziata in quella posa plastica. Una posa che il pittore riprende quasi tale e quale, ancora una volta dalla Cappella Contarelli, precisamente dalla figura seduta in terra nel quadro centrale della volta affrescata dal Cavalier d’Arpino (fig. 10).
Quell’affresco Merisi lo aveva sulla testa mentre faceva i sopralluoghi per ideare le sue tele laterali, e la sua “rapace” memoria visiva lo avrà certamente influenzato nel tratteggiare poi questo insolito san Giuseppe.
Il quale mantiene comunque una certa aderenza all’iconografia tradizionale, nella presenza degli attrezzi da falegname lì ai suoi piedi, nelle vesti di colore giallo e verde, e per la “canizie” dei suoi capelli; insolitamente corti ma adeguatamente “maturi”, presentando perfino una piccola stempiatura (anch’essa visibile, un po’ più accentuata, nella copia del Geraci, fig. 11). Un neo-padre “esperto”, ma certamente mai come in questa occasione “emozionato”, che fa “gli onori di casa”…
Ed eccolo il protagonista di questo avvenimento straordinario: è appena venuto al mondo, circondato da un clima di profondo raccoglimento, quel piccolo Gesù ancora da fasciare, delicatamente adagiato su un umile panno, sopra un mucchietto di paglia (fig.12). Una figurina tondeggiante, posata di scorcio, a cui la luce traversa del Caravaggio conferisce il tono della “rivelazione”. Se ne sta lì, con le gambine piegate e lo sguardo rivolto a Colei che gli ha dato dimora nel suo grembo e adesso lo consegna al mondo mentre gli ricambia gli occhi con la stessa infinita dolcezza, accennando un sorriso.
È stanca questa Maria (fig.13), spossata e dolorante per la fatica del parto, con una mano posata sul ventre, eppure assolutamente composta, quasi dimessa. Calata nel suo ruolo, nonostante la spalla scoperta, scevra da qualunque sentore di sensualità, che invece lascia intuire solo di aver appena allattato. Una “Madre” incredibilmente bella, il cui volto ricorda molto da vicino le fattezze – quelle sì plasticamente carnali – della “Giuditta” di Palazzo Barberini (fig. 14), tanto che si pensa possa trattarsi della stessa modella.
A riprova del fatto – se ce ne fosse bisogno – che una stessa “attrice”, chiamata a breve distanza a recitare due personaggi molto diversi, riesca a rendere onore al proprio ruolo attraverso le straordinarie capacità dell’artista, volte esattamente a modellarne le fattezze in funzione del contesto e della storia. E qui, in questo dialogo muto tra il Figlio e la Madre, tra il “Verbo” e il suo “Tempio”, la bellezza della Vergine, lungi da qualunque avvenenza “terrena”, ha un’allure nobile, un tono quasi poetico.
Ella è “colei che l’umana natura [nobilitò] sì, che ‘l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura”. Nient’altro che questo. Maria e il suo Bambino sono il centro nevralgico, il punto focale di questa prima, straordinaria “Natività” caravaggesca. Il fulcro verso il quale convergono gli sguardi e le intenzioni di tutti i presenti verso un’unica meta al centro della scena.
Come questo capolavoro di straordinario lirismo pittorico sia stato strappato all’altare di un piccolo oratorio palermitano nel cuore della Kalsa e sia potuto finire su un autocarro Fiat 642 una notte di metà ottobre del 1969, per un viaggio che tutti ci auguriamo “non di sola andata”, è cronaca nera delle peggiori che l’arte italiana abbia dovuto narrare e che non ha ancora trovato soluzione.
Un furto che ha il sapore del “peccato mortale” per la facilità con cui fu possibile eseguirlo e per l’assoluta ignoranza e trascuratezza di chi, invece, avrebbe dovuto tutelare e valorizzare il dipinto. Ma a Palermo – sembra assurdo eppure è così che risulta dalla viva voce dei protagonisti intervistati dopo il fatto – molti non sapevano nemmeno dell’esistenza di “un Caravaggio” in città. Sindacalisti, amministratori comunali, presidi di facoltà non avevano idea che ci fosse a Palermo un quadro di così grande importanza. Qualcuno, al massimo, “se ne ricordava” vagamente. Il soggiorno di un artista come Caravaggio che non lascia tracce nella memoria collettiva al punto da ignorare perfino l’esistenza di una sua opera in città, si pone come paradigma del fatto che quasi certamente l’artista, in quella città, non mise mai piede.
E forse anche per questo motivo, per l’assenza di ulteriori “prove” – a parte la “Natività” e le citazioni “incerte” dei biografi – di questa presunta sosta nel capoluogo siciliano, il tempo aveva quasi del tutto cancellato la memoria dell’unico, ma importantissimo dipinto del maestro lombardo che in esso si conservava e aveva indotto la pressoché totale mancanza di attenzione da parte delle istituzioni nei suoi confronti, tanto da lasciarne la “custodia” ad alcune donne (due sorelle più la figlia quindicenne di una di esse, che abitavano nel complesso dell’Oratorio) assolutamente prive di ogni consapevolezza e competenza in materia di tutela delle opere d’arte. E stride ancor di più la trascuratezza degli organi preposti considerando che l’opera era inserita nel contesto dei preziosi e famosissimi (loro sì…) stucchi di Giacomo Serpotta (fig. 15), successivi all’esecuzione della pala caravaggesca, che decorano l’altare e le pareti dell’Oratorio.
Se lo chiese Leonardo Sciascia, in un articolo del 20 novembre 1969 su “Il Mondo”, come fosse possibile che in cinque anni il prefetto non avesse “mai incontrato una sola persona che gli parlasse non diciamo del quadro del Caravaggio ma degli Oratori del Serpotta?”
Prende corpo in questo contesto di assoluta noncuranza un furto che sembra eseguito dalla “banda Bassotti” ma che in poco tempo assume i contorni ben più foschi della scalata verso i vertici di Cosa Nostra palermitana. Da una vecchia ghiacciaia a Brancaccio, a una grotta dentro una cava ai piedi del Monte Grifone, passando per la villa del boss Stefano Bontade, la “Natività” del Caravaggio arriva nelle mani avide del capo dei capi di allora, Gaetano Badalamenti. Per farne cosa? Merce di scambio? Don Tano alla fine vendette a un trafficante svizzero (oggi deceduto) la tela di cui si persero le tracce. Risulta un possibile tentativo di vendita nel 1974 e se ne ha prova da una lettera dell’allora soprintendente Vincenzo Scuderi al Comandante del Nucleo Investigativo dei Carabinieri Giuseppe Russo, che sembra più una richiesta di riscatto. Opzione che, in quella lettera (il cui testo integrale, assieme a molte delle considerazioni qui esposte, è pubblicato nell’ottimo saggio di Cuppone) Scuderi auspica di non escludere, ma anzi di considerare seriamente, data l’importanza dell’opera, mettendo addirittura egli stesso a disposizione le proprie certamente non illimitate sostanze. E incentivi in denaro furono promessi a chiunque potesse fornire elementi utili alle indagini, ma l’omertà – e forse anche una certa indifferenza di fondo della comunità in generale – prevalse sul buon senso. E alla fine, la “Natività” del Caravaggio rimane a tutt’oggi ai vertici della “Top Ten Art Crimes” dell’FBI mentre chiunque ne sia in possesso – e ci auguriamo tutti che qualcuno effettivamente lo sia ancora – non può certo vantarsene né goderne serenamente la vista nel salotto di casa propria. Pensare un capolavoro come la “Natività” divenuto invisibile, chiuso in un caveau e chissà se non anche arrotolato, è tanto più triste quanto l’idea che esso non venga mai più restituito alla gloria che merita.
Concepita nel chiarore fulgido dei primi successi romani, sorella non certo minore di capolavori immortali come le tele Contarelli e Cerasi, portata agli onori dalla memorabile esposizione di Longhi, la splendida “Natività” del Caravaggio fluttua ancora in un buio quasi assoluto. Metafora e simbolo della poetica caravaggesca che si manifesta nella dicotomia tra luce ed ombra. Trascurata dai critici, talvolta non riportata nelle monografie, oscurata dal clamore di dipinti più fortunati perché “visibili”, la “Natività” paga un prezzo altissimo alla sua “assenza”. Non ci hanno portato via “un quadro” ma un pezzo della nostra storia, della nostra identità culturale. Qualcosa che ci appartiene anche più della vita perché ci “sopravvive”.
Chi di dovere, “ai piani alti” di questo assurdo paese, dovrebbe cominciare a riflettere seriamente sul concetto di “patrimonio artistico” e sul dovere imprescindibile di preservarlo.
Ne va dell’ONORE di un’intera nazione.
©Francesca SARACENO Roma 24 ottobre 2021