di Paolo VALERIO
Tutto è iniziato a dicembre di tre anni fa, quando un evento improvviso irruppe nella mia vita e, con la forza deflagrante del “fulmine”, andò a rompere le grate dietro le quali avevo fino ad allora imprigionato la mia creatività artistica.
È stato bello, emozionante. Tutto è accaduto molto rapidamente, in modo naturale.
Tutti i materiali e gli oggetti vari che mi avevano colpito e che fino ad allora avevo guardato con interesse e raccolto sulla spiaggia o sugli scogli, perché avevano in sé qualcosa di attraente e misterioso cominciarono a essere guardati con uno sguardo diverso.
Quella plastica nera, simile al magma vulcanico che avevo trovato durante una passeggiata lungo la foce del Garigliano, cominciava ad acquisire un’altra dignità. Avevo scorto qualcosa di meraviglioso dietro quella informe massa di plastica bruciata, l’avevo ammirata, raccolta e fatta mia. Ai miei occhi non era solo il visibile, plastica bruciata. La natura se ne era riappropriata, l’aveva trasformata in opera d’arte. Il fuoco le aveva dato una forma, il vento l’aveva levigata e il sole le aveva dato quel particolare colore scuro.
Lo stesso era accaduto alla boa raccolta sulla spiaggia dell’Arenauta. Mi aveva colpito per la strana forma che mi ricordava una madrepora del Mar Rosso per i sui colori rosso, giallo e blu e per le rughe che la percorrevano tutta, traccia dell’opera del fuoco. Molti vedevano in lei, in quella boa, una farfalla, un fiore, un genitale femminile. E tale cominciò ad apparire anche ai miei occhi tanto da decidere di inviarla, essendo uno dei miei pezzi preferiti, alla Biennale d’Arte Contemporanea di Salerno.
Ispirandomi al noto quadro di Gustave Courbet la intitolai “L’origine della vita”. Questo quadro, che occupa un posto unico nell’arte occidentale, mi aveva colpito perché rappresenta senza concessioni, senza alibi storici o mitologici, non solo il sesso di una donna, ma Il Sesso della Donna e dunque, insieme, tutte le donne, amanti e madri incluse.
Da rifiuto raccolto su una spiaggia a opera che sarà presentata e accettata a una mostra.
Questo è accaduto nell’ottobre del 2014.
Mi rendo conto che non è facile scrivere di me, trasformare le emozioni e i pensieri in parole. I ricordi che affiorano scardinano il fluire ordinario del tempo.
Molto tempo è trascorso da quando ho cominciato a raccogliere vari materiali trovati sulla spiaggia o in altri luoghi a quando lo sguardo che ne coglieva la bellezza è stato ripensato come il riconoscimento di un atto creativo operato dalla natura e il gesto stesso di raccoglierli come una manifestazione della mia creatività. La natura attraverso il fuoco, il vento, il sole e il mare aveva scolpito quei materiali, trasformandoli in opere d’arte, così come accade agli informi blocchi di marmo su cui lo scultore, con lo scalpello, esercita la sua sapiente azione.
Quegli oggetti, come il marmo informe tratto dalle cave dell’Amianta, sarebbero rimasti sulla spiaggia e considerati da tutti come oggetti di scarto se la loro peculiare e misteriosa bellezza non fosse stata colta e valorizzata dal mio sguardo. Nello stesso momento in cui mi sono chinato per raccoglierli, attraverso quel semplice gesto, ho compiuto io stesso un atto creativo.
Ancora altro tempo è trascorso perché potessi cominciare a comprendere che ero particolarmente attratto dalla misteriosa e cupa bellezza di quegli oggetti perché avevano qualcosa di peculiare che mi riguardava personalmente: da sempre avevano fatto parte del mio mondo interno ed esprimevano parti di me.
Quei materiali non erano solo raccolti ma sono stati accolti nella mia casa, dove prendevano lentamente il posto di altri oggetti, che avevo acquistato, conquistato dalla loro bellezza, in un mercatino, in una mostra o nel negozio di un antiquario.
Con entusiasmo li mostravo agli amici che, colpiti dalle mie descrizioni e dal mio sguardo d’amore, cominciavano a guardarli in modo diverso, anche se, prima di toccarli, mi chiedevano “li hai lavati?”
Nel frattempo il “fulmine” che aveva sbloccato la mia creatività continuava a produrre i suoi effetti. La mia attività di raccoglitore di opere frutto dell’azione incessante della natura, andò lentamente mutando.
Non mi limitavo a raccogliere sulla spiaggia oggetti vari, per lo più plastiche bruciate dal sole e plasmate dal vento e dal mare, ma iniziai a recuperare e ad assemblare l’una dentro l’altra reti di plastica che, simili a reti sinaptiche, inglobavano al loro interno funi, gomene e brandelli di plastica. Il tutto assumeva forme strane e, talvolta ripetitive, ma sempre diverse per gli sgargianti colori che le rendevano uniche.
All’interno di una di queste reti, a maglie molto strette e dalla forma lunga e flessuosa raccolsi molte palle di gomma, di dimensioni e colori diversi. Scelsi come titolo dell’opera “Pensieri Impensabili” e la presentai nella sezione “Arte” alla IV Edizione del Festival Alig’art 2014 di Cagliari in una collettiva di artisti che esponevano opere realizzate con materiali di scarto e di riciclo per un progetto che accoglieva storie non convenzionali, all’insegna dell’innovazione sociale e della “felicità sostenibile”.
Questo era accaduto nel Settembre 2014.
Di nuovo il ricordo di un episodio per me molto significativo ha rotto il normale fluire del tempo.
Continuavo a mostrare gli oggetti raccolti ad amici e ad amiche quando venivano a casa a trovarmi. Tutti erano meravigliati dallo sguardo appassionato che rivolgevo ai miei “nuovi amori”. Non più le incisioni che avevo per molti anni raccolto, né i bei quadri di Ernesto Tatafiore o di altri artisti amici, ma le mie plastiche bruciate dal fuoco, i miei cavallucci, le grandi masse di polistirolo espanso nelle cui cavità, create e levigate dal mare prendevano alloggio ostriche, cozze e madrepore varie.
Nel frattempo Lucrino o meglio il Lido Lo scoglio era diventato lentamente il mio atelier invernale. Le bianche scogliere, dietro punta Epitaffio e le grotte scavate nel tufo erano invece il mio atelier estivo, che raggiungevo a nuoto accompagnato spesso da Luigi Maria un amico che entusiasta mi incoraggiava a continuare ad andare al di là delle “Colonne d’Ercole”.
Finalmente giunse la sera fatidica. Nel Marzo del 2014 avvenne un altro evento impensabile.
Dopo una delle tante cene iniziai a mostrare ad Alessandra e a Raffaella l’ennesima plastica bruciata trovata sulla spiaggia. All’improvviso, all’unisono, convinte esclamarono: “Paolo, è giunto il momento di fare una mostra!”
Faccio riferimento a due care amiche: Alessandra Pacelli, giornalista del Mattino di Napoli, da sempre osservatrice qualificata di arte contemporanea e Raffaella Mariniello le cui fotografie sono presenti in prestigiose mostre, cataloghi e libri.
Ero confuso, sorpreso ma al tempo stesso rassicurato. La nuova identità verso la quale pieno di incertezza mi stavo timidamente, ma allo stesso tempo caparbiamente avviando, era riconosciuta, certificata anche da altri.
Attraverso il loro sguardo incoraggiante potevo cominciare a considerare me stesso come un artista.
Il tutto si è realizzato in tempi non molto lunghi.
Furono contattati Mario Pellegrino e Peppe Mannajuolo che, visti i miei lavori, si resero subito disponibili a organizzare una mostra al Blu di Prussia, la loro galleria d’arte nella quale erano mostrate le opere di noti artisti.
Ancora molte le incertezze e le titubanze. Non avevo il coraggio di invitare il pubblico a vedere il materiale raccolto sulla spiaggia durante le mie passeggiate. Temevo che molti avrebbero potuto guardarlo solo come oggetti di scarto che inquinano la Terra dei Fuochi. In realtà quello che maggiormente temevo e di cui cominciavo ad essere sempre più consapevole, era che avrebbero potuto cogliere che, attraverso quel materiale di scarto, stavo esponendo anche me stesso.
Per superare l’empasse decisi di associare alla mostra due eventi.
La presentazione di una ricerca accademica sui “femminielli napoletani” e la presentazione della Fondazione Genere Identità e Cultura di cui sono Presidente.
Un evento durato una sola giornata nel corso della quale il pubblico, intervenuto per la presentazione del libro, ebbe l’opportunità di vedere, non solo il materiale da me raccolto su cui la natura aveva esercitato la sua azione, ma anche quello rielaborato da me come espressione creativa del mondo interno.
Presentai, infatti, anche alcune delle mie “reti sinaptiche” al cui interno erano inglobati materiali vari insieme a cime strette in nodi difficilmente districabili da me recuperate sugli scogli a cui si erano inestricabilmente avviluppate o trovate sulla spiaggia, essendo state strappate dalla forza del mare dalle boe a cui erano legate.
Fu un successo.
Rimasero tutti affascinati e conquistati dall’inquietante e misteriosa bellezza che prorompeva da quegli oggetti esposti nelle bacheche della Galleria e al centro delle sue immense sale, ben illuminati e messi in rilievo grazie all’allestimento curato da Raffaella e Alessandra.
L’evento ha confermato altre consapevolezze. C’è un fil rouge che unisce il mio lavoro scientifico a quello artistico.
Come psicologo clinico interessato agli studi di genere e all’antropologia psicoanalitica mi avventuro da qualche anno nel mondo dei “femminielli”, persone che rappresentano un fenomeno peculiare della cultura partenopea. Sono da sempre presenti a Napoli ma sono stati raramente studiati e analizzati dal punto di vista non solo antropologico ma anche sociale e psicologico. Parlo di persone messe ai margini della società, quei “Corpi sull’uscio” raccontati in un libro scritto insieme a Eugenio Zito con il quale volevamo lasciare una traccia per quelli che un giorno si chiederanno: “chi erano i femminielli napoletani?”.
A sua volta l’interesse per il mondo dei femminielli è scaturito dal lavoro che da più di venti anni porto avanti sul piano della clinica e della ricerca scientifica, esplorando un’altra area ai confini e ai margini della società, quella che è rappresentata nello specifico dal mondo delle persone gender variant, delle persone gender non conforming, delle persone transgender e più in generale dall’universo delle persone Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender, Queer Questioning e Intersessuali – LGBTQI.
Qual è il collegamento tra questi mondi e il mio mondo artistico?
Molte delle mie opere rappresentano attraverso le loro forme, attraverso i materiali usati, attraverso la varietà dei colori che le connotano, quei mondi in cui vengono spesso ingabbiate le persone LGBTQI che vivono, relegate e messe ai margini della società, in contesti nei quali non viene riconosciuto loro il diritto ad autodeterminarsi e rispettata la loro dignità di esseri umani. Lo stesso accade al materiale di scarto che uso per realizzare le mie opere che, se non fosse da me raccolto, sarebbe accumulato ai margini della spiaggia per essere poi bruciato nelle discariche della Terra dei Fuochi.
Quelle reti, che simili a reti sinaptiche includono materiale libero, imprigionato di nuovo, possono rappresentare un corrispettivo di quei mondi, e più nello specifico del nostro mondo interno?
Quelle cime, quei nodi da me pazientemente sciolti e poi riannodati e intrecciati con altre cime fino a creare un groviglio di nodi inestricabilmente ingarbugliati, possono rappresentare quelle gabbie che ci stringono e costringono nel corso della vita o quelle soluzioni a cui facciamo ricorso per sfuggire a conflitti emozionali difficilmente accessibili al livello conscio?
Quanto le reti in cui avviluppo le cime, intrecciandole tra loro e in cui sono inserite “Barbie” trovate sulla spiaggia, pupazzi, personaggi maschili, pistole, coltelli, orsetti o animaletti vari, rappresentano quelle “gender cages”, gabbie di genere in cui siamo tutti imprigionati rispetto a ruoli stereotipicamente assegnati al genere, nelle sue complesse, molteplici e articolate declinazioni?
Quanto spesso quei nodi faticosamente sciolti e poi pazientemente ricreati rappresentano i grovigli della vita con cui ci confrontiamo di fronte a sentimenti di inadeguatezza che sin dall’infanzia ci portiamo dentro, chi più chi meno, rispetto al non sentirci “abbastanza” aderenti ai ruoli che dovremmo di volta in volta performare?
Da qui tutta una serie di lavori: “Gender Cages”, “Never enough”, “Attento ai falli”, “L’insostenibile peso dell’amicizia”, “The dark side of the mind” e tanti altri.
Sono ormai giunto alla conclusione di questi pensieri su me stesso e sull’attività, che seppure con timidezza, finalmente si è avviata verso l’irresistibile leggerezza di questa creativa creaturalità.
Mai avrei immaginato di poter un giorno ricevere una lettera indirizzata a me come “M° Paolo Valerio”. Ho sempre considerato veri artisti e degni di tale titolo quelli le cui opere fossero in grado di esprimere, accanto al rigore proprio della grammatica e del lessico di ciascuna arte, la loro più immediata e spontanea immaginazione.
Né avrei mai immaginato di ascoltare nell’Auditorium di Castel Sant’Elmo le vibrazioni sonore del mio lavoro creativo, risuonare, ancora una volta, attraverso l’ingegno della mia cara amica Chiara Mallozzi che, registrando i suoni emessi nel corso del mio lavoro di assemblaggio, ha composto un brano intitolato: “Dimensioni. In memoria di gesti”. La sua musica mi accompagnerà nell’infinito tempo dell’esistere.
Sono molte le domande che continuo a pormi. Prima tra tutte: “Come può un “fulmine” produrre un impatto così violento da rompere la gabbia in cui è stata bloccata la mia creatività, sepolta per tanto tempo negli anfratti dell’inconscio?”
Non so dare risposta a questa domanda.
Sulla base della mia esperienza ho appreso che siamo tutti costretti a vivere nell’incessante flusso delle incertezze che diventano illusorie certezze nell’incertezza perenne della vita.
di Paolo Valerio Napoli luglio 2017