di Emilio NEGRO
Due dipinti inediti di Domenico Fetti
La vicenda artistica ed esistenziale del randagio Fetti, che era nato a Roma nel 1588 o 1589 e morì a Venezia nel 1623, fu quantomeno bizzarra avendo scelto un percorso inverso a quello seguito dalla maggioranza degli artisti suoi contemporanei nati extra muros urbi Romae, irresistibilmente attratti dalla capitale pontificia.
Un dipinto ben conservato che raffigura la Parabola del servo senza pietà (olio su tela, cm 207 x 137) (Fig.1), illustra una rara immagine devozionale che conobbe una certa diffusione tra gli artisti oltremontani mentre fu rappresentata molto di rado da quelli italiani.
La raffigurazione fa riferimento all’aneddoto raccontato da Gesù a Pietro, quando quest’ultimo chiese al Signore se avesse dovuto perdonare il fratello che sbagliava per sette volte. Domanda alla quale il Nazareno rispose perentorio: “Non ti dico fino a sette, ma settanta volte sette”, dopo di che, per spiegare meglio quel concetto salvifico, come era sua consuetudine raccontò la singolare storia di un signore e di un suo crudele servo.
Questa inconsueta composizione dai forti accenti emozionali raffigura perciò il momento clou dell’episodio narrato da Cristo e riportato nel solo Vangelo di Matteo (18, 21-35), in cui si parla appunto di un servitore che aveva un debito col padrone ma, non potendolo restituire, per ripianare col ricavato la somma dovuta il creditore decise di vendere il debitore insieme alla sua famiglia, tutti come schiavi. Fu allora che il servo si gettò ai piedi del suo signore implorandolo di avere pietà poiché col tempo sarebbe riuscito a rendere tutto il danaro. Il padrone, impietosito dalle accorate suppliche, decise di desistere dal suo crudele proposito e condonò generosamente il debito. Tuttavia il medesimo servitore, non appena congedato, incontrò un suo collega che gli doveva dei soldi e dopo averlo afferrato per il collo, come si vede in questa tela, cominciò a soffocarlo intimandogli di pagare ciò che gli doveva; dal momento che il malcapitato non aveva il denaro, lo fece gettare in carcere. Gli altri servitori che avevano assistito alla furente aggressione, andarono a lamentarsi col padrone per l’accaduto e costui, fatto chiamare il colpevole, lo rimproverò aspramente giacché col suo debitore non si era comportato con la stessa generosità ricevuta e, sdegnato, decise di consegnarlo agli aguzzini finché egli non avesse reso la somma dovuta.
La scena dipinta sulla tela è ambientata originalmente in un interno porticato e con alcuni scalini, mentre un acceso contrasto luminoso accentua il rossore dei visi dei due contendenti: l’ingrato, col turbante, è reso nell’atto di stringere le mani intorno al collo del malcapitato collega; la vittima viceversa tenta di difendersi alla meno peggio. È particolarmente degno di nota il brano essenziale eppure efficace di natura morta, costituito dal lungo tralcio di vite (simbolo di Cristo e della fede cristiana) che si inerpica trai muri scrostati (Fig. 1a).
Il quadro si manifesta fin da subito come l’ottimo prodotto di un erudito mix culturale figurativo romano, fiammingo e veneto, caratteristico di Domenico Fetti che lo eseguì nel secondo decennio del Seicento giacché l’opera indica un’educazione figurativa raffinata assai complessa in cui non mancano echi di colorismo veneziano ed eleganti suggestioni derivate dalla conoscenza delle opere di Federico Barocci, Pieter Paul Rubens, Ludovico Cigoli, Adam Elsheimer e soprattutto Orazio Borgianni.
Notazioni che hanno consentito di confermare questa bella Parabola del servo senza pietà alla mano del Fetti, pittore-conoscitore mantovano d’adozione che si formò nella capitale pontificia, dove fu allievo del Cigoli e si giovò della lezione caravaggesca attraverso le sollecitazioni pittoriche di Borgianni ed Elsheimer, maturando poi uno stile accattivante attento alla cura del particolare e alla resa dei colori accesi e sfumati. Convocato a Mantova nel 1614 per prendersi cura delle collezioni dei Gonzaga, fu attivo a lungo nel capoluogo ducale, ove eseguì pale per le chiese cittadine; un anno prima di morire si era trasferito a Venezia per continuare a dipingere fino alla fine dei suoi giorni dedicandosi ad opere di piccole dimensioni raffiguranti parabole, allegorie, temi biblici e mitologici.
É opportuno rimarcare che due immagini – intero in bianco e nero, particolare a colori – di un’analoga, ma non identica, Parabola del servo senza pietà parimenti di Domenico Fetti (Gemäldegalerie di Dresda, inv. n. 419) (Fig. 2), insieme a quella di una copia del solo registro inferiore della scena (incastonata in uno stipo fiammingo del XVII e appartenente alla collezione scozzese di Colin Broun Lindsay of Colstoun), sono state rese note da E. A. Safarik (Fetti, Milano, 1990, pp.83, 95-98, nn.24, 24a-24b).
Vanno rilevate altresì le notevoli differenze tra la versione di Dresda e quella in oggetto, entrambe palesemente autografe: soprattutto le misure, inferiori nella prima (cm 61 x 44,5), ma si annotano anche differenze compositive e dei dettagli come la diversa apertura dell’arco, la disuguale disposizione degli scalini, del tralcio di vite e del cornicione del casamento.
D’altra parte la restituzione per questa parabola dipinta a Domenico Fetti è sostenuta dallo stretto rapporto con altre sue opere, ad esempio le tre tele facenti parte della serie di tredici parabole evangeliche: il Seminatore di zizzania (Praga, Galleria del Castello Reale), il Seminatore dei ciechi e il Buon samaritano (ambedue a Dresda, Gemäldegalerie), opere in cui affiora infatti la medesima ricerca di un misticismo severo eppure profondamente dignitoso ottenuto con l’elegante dissolvimento delle figure e con un colorismo vivace che si ispira ai grandi maestri veneti. Il recupero al corpus dell’artista di questa importante tela dalle dimensioni di pala d’altare porta ad ipotizzare che egli sia stato impegnato a realizzare la serie completa delle parabole, forse mai portata a compimento.
Un altro dipinto di Domenico Fetti, parimenti in buono stato di conservazione, raffigura Tobiolo che restituisce la vista al padre (olio su tavola, cm 69,5 x 85) (Fig. 3), epilogo dell’episodio biblico miracoloso riportato nei libri Apocrifi dell’Antico Testamento che si svolge in un ambiente all’aperto popolato da diverse figure in abiti seicenteschi e situato tra resti architettonici e una scenografica apertura paesaggistica.
I protagonisti della scena sono Tobiolo, il padre Tobi e l’arcangelo Raffaele: Tobi era un pio ebreo che viveva con la moglie Anna, che si vede sulla sinistra, e il giovane Tobiolo nella città di Ninive. Ormai anziano, mentre riposava all’aperto sotto un albero, i suoi occhi furono colpiti dalle deiezioni di un passero; fu così che il devoto Tobi perse la vista e sentendosi prossimo a morire, decise di mandare il figlio nella vicina città di Media per riscuotere del danaro che gli era dovuto. Tobiolo con l’arcangelo Raffaele che lo accompagnava, giunsero sulle sponde del fiume Tigri dove il giovane volle bagnarsi e fu allora che un pesce enorme balzò fuori dall’acqua minacciando di divorarlo. Su consiglio dell’arcangelo, Tobiolo lo catturò e gli estrasse cuore, fegato e fiele: i primi due, bruciati, dovevano servire ad allontanare gli spiriti maligni, la bile, come si vede qui raffigurato, fu utilizzata invece come unguento sugli occhi di Tobi, restituendogli la vista.
Il quadro è corredato da una lunga e dettagliata scheda di Riccardo Lattuada che si riporta di seguito quasi integralmente e grazie alla quale è stata dimostrata la sua appartenenza al catalogo di Fetti (tesi a cui ha aderito per via orale anche Massimo Pulini).
“Il Tobiolo che restituisce la vista al padre, stando alle conoscenze del proprietario non recava alcuna attribuzione pregressa, ciononostante è evidentemente rapportabile all’opera di soggetto omonimo a San Pietroburgo, Ermitage, di Domenico Fetti (Safarik, 1990, pp. 59-60, n. 14).
Nella sua monografia del 1990 Eduard A. Safarik ha pubblicato anche una incisione di Pietro Monaco (Belluno, 1707 – Venezia, 1772), evidentemente riferita ad un’altra versione che lo stesso Fetti produsse dello stesso soggetto (Safarik, 1990, p. 60, n. 14°) .
Tale versione, che secondo l’iscrizione in calce alla stampa era nella collezione della “Nobil Famiglia Giovanelli a S. Agostino” [dunque presumibilmente a Venezia, in Palazzo Giovanelli a San Stae], era considerata fino ad oggi dispersa. Nella sua scheda Safarik osserva che: “Giudicando dall’unica testimonianza figurativa, cioè la stampa di Pietro Monaco […], l’esemplare Giovanelli si distingueva da quello di Leningrado [cioè oggi di San Pietroburgo] in numerosi particolari, soprattutto nella parte paesaggistica a sinistra, più estesa e con alberatura diversa, arricchita dal tipico steccato in legno, e nell’edificio dietro al gruppo figurale ricoperto di fogliame nella zona superiore; questi cambiamenti, così ben riusciti e coerenti ai modi fettiani, certamente non vano addebitati solo alla fantasia dell’incisore: pare che si tratti perciò della prima versione di questo soggetto. Come risulta in altri casi […], quando l’artista ripeteva le proprie composizioni, lo faceva sempre con varianti: quindi, se egli effettivamente ha eseguito delle repliche, questa ne possiede tutti i requisiti”. Il dipinto in discussione presenta vari elementi che lo avvicinano alla stampa di Pietro Monaco più della versione di San Pietroburgo, e anche minime parti che se ne discostano. Tra gli elementi di maggior vicinanza notiamo il profilo della vegetazione sulla parte sinistra dello sfondo, e lo stesso vale per l’albero attaccato all’edificio; altre similitudini si notano nell’estensione della pianta selvatica sul basamento del tempio, che è quasi uguale a quella della stampa; nella mancanza della finestra nell’edificio diroccato in controluce alle spalle del gruppo principale di figure e nelle piante in penombra davanti al basamento dell’edificio. La presente versione è costruita su una preparazione più bruna di quella a San Pietroburgo; il chiaroscuro sulle figure e sulle architetture è più marcato. Su richiesta di chi scrive è stata commissionata allo studio ‘Emmebi diagnostica artistica’ di Roma una riflettografia allo scopo di chiarire l’iter della realizzazione dell’opera, e soprattutto a comprendere se era stata eseguita su un supporto già usato in precedenza o se fosse stata concepita ex novo su tavola. Nella relazione sono contenute le seguenti considerazioni: “La riflettografia mette in evidenza un dettagliato tracciato bianco e sottile di definizione della composizione. È presente sui contorni delle figure e ne disegna anche le fisionomie. Anche i panneggi sono delineati nei profili esterni e nelle pieghe. Il pilastro e la colonna sono pure delimitati da tracce chiare molto sottili che, vista la loro non perfetta linearità, non si direbbero tracciati con l’ausilio di una riga. Questi segni, riflettenti all’infrarosso, potrebbero essere a base di biacca o di carbonato di calcio; sono netti e sintetici e quindi compatibili con il trasporto di un cartone o con un’esecuzione diretta che non lascia spazio ad incertezze. Non vi sono molti casi di disegno chiaro su preparazione scura indagati mediante indagini diagnostiche, ma l’osservazione di dipinti non finiti e le notazioni delle fonti tecniche avvalorano una simile pratica nel Seicento. Uno dei casi più noti, ma siamo in presenza di una copia, è quello della Peste di Ashdod di Angelo Caroselli, da Poussin (Londra, National Gallery). Nella documentazione fotografica in bianco e nero sono visibili sui contorni delle linee chiare e molto sottili, sebbene più rigide e schematiche di quelle presenti nel dipinto di Fetti. Qui l’ipotesi è che sia stato impiegato un cartone o il velo per copiare il dipinto: il cartone, sbiancato sul retro e poi trasferito, per poter vedere il disegno sulla preparazione scura; il velo, copiandone i contorni dal dipinto originale, e poi battendolo sulla preparazione scura della copia. In questo secondo caso i contorni potrebbero essere stati poi ribaditi”. Queste evidenze contribuiscono a far comprendere in termini di fatto nuovi, e molto più compiuti, il funzionamento della bottega di Fetti, che è noto per aver prodotto più versioni, a vario livello di impegno formale, delle composizioni più famose del maestro romano. In particolare le analisi spiegano il metodo con cui, “quando l’artista ripeteva le proprie composizioni, lo faceva sempre con varianti”: cioè mediante l’impiego di cartoni, che nel caso di preparazioni brune venivano sbiancati per poter lasciare tracce più visibili a contrasto con il fondo bruno. E una volta concepita la composizione, era possibile costruirla sul supporto senza doversi precludere la possibilità di varianti, aggiunte, integrazioni, etc. Dal dettaglio dell’immagine riflettografica è possibile osservare con chiarezza il sottilissimo tratteggio in bianco ricavato dalla sbiancatura del cartone e dalla sua conseguente applicazione sulla tavola preparata. Nel dettaglio ingrandito le frecce indicano punti in cui questa modalità esecutiva risulta particolarmente evidente, ma tutto il dipinto è stato eseguito in base a questo metodo. Inoltre si riconferma la propensione di Fetti verso l’impiego della tavola come supporto. Il dipinto in discussione non è stato steso rasando un supporto già impiegato in precedenza, ma è stato concepito per essere eseguito su tavola. Questa consuetudine vede Fetti in compagnia di ben pochi altri artisti italiani della prima metà del Seicento. Tra essi si può però ricordare il romano Angelo Caroselli, la cui produzione conosciuta è quasi integralmente eseguita su tavola (per il più completo e approfondito contributo su Caroselli cf. M. Rossetti, Angelo Caroselli (1585-1652), pittore romano, Roma, Campisano, 2015). In Fetti, comunque, l’impiego del legno può essere stato generato anche dal fatto che spesso i suoi dipinti di piccolo formato erano destinati a elementi di arredo come porte o mobili (per un profilo sintetico del pittore cf. Domenico Fetti, 1588/89-1623, catalogo della mostra, a cura di E. A. Safarik, Milano, 1996, ma anche G. Milantoni, ‘Fetti, Domenico’, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 47, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1997, ad vocem). Non a caso ancora di recente ha circolato sul mercato di Londra un magnifico cabinet di provenienza inglese e di grande impegno formale, in cui gran parte dei pannelli era illustrata da scene tratte da opere note di Fetti (cf. Sotheby’s, Londra, 3 luglio 2019, Asta Treasures, lotto 13; nella lunga scheda, con bibliografia precedente, si ascrive l’esecuzione delle scene a un copista da Fetti). Questi prodotti non rappresentano solo la riprova della reputazione raggiunta da Fetti, ma anche la sua specializzazione in un ambito produttivo in cui dispersioni e distruzioni hanno creato un grande vuoto di conoscenze. Come già detto, il dipinto in discussione presenta una tavolozza più scura e contrasti più marcati di luce e ombra, anche al netto di qualche lieve spatinatura antica (sulle ali dell’angelo, ad esempio, e in generale sulle stesure brune). Ad avviso di chi scrive la sua esecuzione è superiore a quella di una copia. Il dipinto sembra essere stato preparato dal pittore (o da un esponente del suo studio come il padre Pietro o la sorella Lucrina) mediante il cartone usato per la versione dell’Ermitage, ma perseguendo effetti plasticamente più rilevati e operando numerose varianti. Ciò porta a ritenere che il presente dipinto possa essere una versione antecedente a quella dell’Ermitage, eseguita in un momento in cui Fetti perseguiva effetti espressivi più drammatici, ancora in parte memori della sua formazione romana a contatto con Orazio Borgianni, Adam Elsheimer e la stessa cerchia di Annibale Carracci. Ed è forte la tentazione di riconoscervi l’originale che era nella Collezione Giovanelli, fino ad oggi tramandatoci solo dalla incisione di Pietro Monaco.[Roma, 20 luglio 2020 Riccardo Lattuada]”.
Emilio NEGRO Bologna 31 ottobre 2021