La rinascita di una quadreria: Le Stanze di San Benedetto a Montecassino, cenni storici e capolavori d’arte in una recente pubblicazione

di Massimo FRANCUCCI

Non c’è rinascita senza distruzione e di ciò è perfetto esempio la vicenda dell’abbazia di Montecassino, distrutta in quattro occasioni e altrettante volte risorta dalle ceneri nel corso della sua storia più che millenaria, dato che la fondazione si fa risalire al 529. In quell’anno il santo nursino si era fermato definitivamente sulle alture del basso Lazio, in una posizione tanto amena e strategica da risultare fatale al monastero nel corso dell’ultimo conflitto mondiale.

È storia nota e tra le più tragiche nonché simboliche degli eventi bellici, quella che vide il 15 febbraio 1944 tonnellate di ordigni, sganciati dalle fortezze volanti alleate, detonare sulla basilica e sul suo cenobio radendo al suolo quel baluardo di fede e sapere, per una decisione che si sarebbe rivelata infelice anche dal punto di vista militare, oltre che culturale: l’operazione permise alle forze di occupazione di trasformare le macerie in un perfetto baluardo difensivo per rallentare l’avanzata peraltro inesorabile dei liberatori.

Montecassino dopo il bombardamento

Una prima volta il monastero, sorto sulle vestigia di un tempio pagano dedicato al padre degli dei, era stato raso al suolo dai Longobardi nel 577, prontamente ricostruito, sarebbe poi stato nuovamente distrutto dai Saraceni nell’anno 883. Dopo la successiva rinascita Montecassino avrebbe toccato l’apice del suo splendore grazie alla guida dell’abate Desiderio, che per un breve periodo sarebbe salito sul trono di Pietro col nome di Vittore III, per poi conoscere un lungo periodo di decadenza, sebbene in quegli anni il centro monastico fornisse un solido appoggio alla formazione del pensiero del giovane San Tommaso d’Aquino. Nel 1349 una nuova rovina, questa volta per causa di un terremoto, e poi ancora una rinascita, sfolgorante tra Cinque e Settecento, interrottasi al tempo di Napoleone, senza registrare però una ulteriore distruzione che, come detto, sarebbe giunta nel Novecento.

In questo anno 2024 cade dunque sia l’anniversario del disastro bellico sia quello della definitiva rinascita del monastero sigillata dalla consacrazione della nuova basilica per opera di Paolo VI, papa e santo, avvenuta il 24 ottobre 1964 in ossequio al motto della stessa Abbazia: Succisa Virescit e della linea guida della ricostruzione riassunta dal “com’era e dov’era” così importante per mantenere vivi il più possibile i contesti storici e architettonici.

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La ricorrenza giungeva propizia per la pubblicazione, qualche mese prima a dire il vero, di un lungo ed attento studio dedicato alla ricca raccolta di pitture e disegni sopravvissuti alle varie peripezie appena menzionate, uscito per i tipi delle edizioni Artemide e a firma di Mauro Vincenzo Fontana.

Si tratta de Le stanze di San Benedetto. La quadreria di Montecassino da Urbano VIII al Novecento, volume ricco e corposo giunto a risarcire l’abbazia di un vuoto piuttosto sorprendente, data la centralità di Montecassino, conferendo una sistematicità e una completezza che i pur importanti studi precedenti dedicati all’arte cassinate non potevano avere. I risultati di questa ricerca erano, anche a leggere i testi di premessa al volume, impronosticabili persino per i propugnatori e per gli altri protagonisti di questa impresa, che ha messo ordine tra una serie di più di seicento opere tra pittura e grafica, fissando alcuni punti fermi e aprendo al contempo la strada a nuove istanze e ricerche. Il catalogo è dunque ricco e composito, orientato verso la pittura meridionale che di certo non esaurisce la ricchezza delle collezioni: questo apparirà chiaro già sfogliando le pagine dedicate alle opere ritenute preminenti per qualità, per il carattere identitario rispetto a Montecassino o ancora per il legame istaurabile con avvenimenti o persone importanti per la stessa abbazia.

Il volume si completa poi del catalogo generale e fornisce gli strumenti utili a districarsi nelle collezioni e rendere più agevoli le ricerche future che sicuramente una pubblicazione così ricca andrà a stimolare. Detto questo va segnalato come il complesso delle opere vada ben oltre i pezzi esposti presso il museo dell’abbazia di Montecassino

Altro merito della ricerca di Fontana è quello di aver fatto luce sul nome di altri protagonisti della creazione delle raccolte, sicuramente databili all’inizio del Seicento, oltre a quello di Angelo Grassi da Fondi, abate per meno di un anno nel 1631, ma a lungo a Montecassino e sul quale, in precedenza, si erano concentrati gli studi. Se è vero che per merito suo le Stanze di San Benedetto hanno ricevuto una vera decorazione organica e una sistemazione come luogo in cui disporre le opere più significative del patrimonio abbaziale, è probabile che questi si fosse giovato, facendo quasi da catalizzatore, dell’opera di don Pietro Biemma da Verona, sodale del Cavalier d’Arpino e con numerosi altri agganci romani, che giungevano fino alla famiglia regnante. Sebbene non sia possibile provarlo sul piano documentale, gli indizi conducono a lui anche per identificare l’attore che perorò un intervento papale in difesa delle collezioni monastiche.

Nel 1626 Urbano VIII in persona firmava un breve destinato a tutelare in perpetuo i beni che si trovavano allora nelle Stanze di San Benedetto, ma anche tutto quel che vi si sarebbe aggiunto negli anni: si tratta di un documento, quello del Barberini, la cui importanza travalica il mero contesto della questione cassinate, e che merita di figurare da protagonista nell’ambito della storia della tutela del patrimonio culturale.

Era passibile di scomunica chiunque avesse alterato, senza giustificati motivi, l’assetto dei beni raccolti nelle Stanze, includendo nella protezione anche i pezzi d’arte recente e, in qualche modo, futura, andando al di là di quanto proposto dall’Editto del cardinale Ippolito Aldobrandini, del 1624, che si interessava infatti solo di marmi e antichità. Per avere a Roma un documento simile a quello emesso in favore di Montecassino si sarebbe dovuto attendere circa un secolo, ossia il 1733 dell’Editto Albani.  

Anche per una descrizione attenta delle stanze bisogna aspettare il Settecento ed Erasmo Gattola (Gaeta, 1662 – Montecassino, 1734) che scrisse il suo testo attorno agli anni 1730-1733, mentre la consistenza della collezione si poteva già circoscrivere in qualche modo basandosi su registri tenuti a partire dalla metà del secolo precedente. Divertente è venire a sapere cosa fosse richiesto per la visita: si prescriveva il segno della croce prima di entrare nella prima stanza e l’uso di pantofole appositamente predisposte al fine di non rovinare i pavimenti marmorei. Si tratta di un sintomo evidente della preziosità e della sacralità dei luoghi.

Montecassino, Abbazia, Cappella Papale

Pochi anni dopo Gattola, al tempo dell’abate Antonio Capece e per suo impulso, si assistette a un rinnovamento delle Stanze, con il presule pronto a ingaggiare artisti e “conoscitori” al fine di sostituire le opere malamente attribuite o di autori minori con altre di maggior pregio. Un ruolo di primo piano in queste faccende spettò a Sebastiano Conca, impegnato nella sagrestia della Basilica. Sulla base dei suoi pareri sarebbe di lì a poco venuta alla luce una nuova descrizione dell’abbazia, firmata nel 1751 da Flavio Della Marra (Descrizione istorica del Monastero di Monte Casino), un testo che teneva conto ovviamente del nuovo assetto voluto dall’abate Capece. Vi si registrava un incremento di opere di Luca Giordano e la comparsa di dipinti di De Matteis, di Solimena, oltre che di De Mura e dello stesso Conca. Interessante, infine, la presenza di bozzetti che dovevano riecheggiare nelle Stanze le decorazioni della basilica, ma che allo stesso tempo assecondavano il gusto del secolo, sempre più aperto verso queste pitture fresche e briose.

L’Ottocento non sarebbe stato affatto facile per Montecassino, così come per le collezioni che avrebbero visto sottratti 23 dipinti destinati a Napoli, una perdita che i monaci non riuscirono né a impedire né a vedere mai risarcita. Con l’Unità d’Italia tutto il patrimonio cassinate sarebbe entrato a far parte del demanio, la torre e le Stanze di San Benedetto interessate da lavori e altri ambienti avrebbero accolto una pinacoteca. Dopo il bombardamento la ricostruzione avrebbe fatto rifulgere la figura di Ildefonso Rea (Arpino, 1896 – Abbazia di Montecassino, 1971) ultimo di una lunga tradizione di grandi arpinati, in grado di condurre la nuova Montecassino alle soglie del nuovo millennio, facendole ritrovare il suo ruolo cardine di pilastro di fede e cultura.

Qualche cenno andrà fatto, infine, su alcune delle opere meno note e più difficilmente fruibili per il visitatore dell’abbazia, tra quelle già selezionate da Mauro Vincenzo Fontana all’interno del vasto catalogo generale. Su tutti spicca, a mio parere, il recupero di uno stupefacente Riposo durante la fuga in Egitto di Charles Mellin, che si affianca al già noto Caino e Abele realizzato dal pittore francese al tempo della sua attività per Montecassino, nel 1634, latore dei migliori riflessi della pittura vouettiana, nonostante la vandalizzazione che ha obliterato per sempre il volto dell’agricoltore fratricida.

Charles Mellin, Riposo durante la fuga in Egitto

A Roma e al Seicento rimanda sempre la Maddalena Penitente del Cavalier d’Arpino, che riesce a conferire monumentalità alla figura della santa nonostante le dimensioni ridotte della tavola, che si giova di un uso di luci e ombre particolarmente azzeccato.

Giuseppe Cesari, Cavalier d’Arpino, Santa Maria Maddalena

Stesse misure, all’incirca, presenta il rametto raccordabile con una celebre invenzione di Annibale Carracci, la Sacra Famiglia con San Giovannino un tempo a Firenze nelle raccolte medicee e a oggi dispersa. Non semplice formulare una proposta per l’autore di questa versione, bella e sicuramente esito della più ristretta fucina del pittore bolognese: in passato giustamente accostata a Innocenzo Tacconi, richiama in alcuni punti modi che saranno poi tipici di Sisto Badalocchio, chiamato invece in causa da Fontana.

Bottega di Annibale Carracci, Sacra Famiglia e San Giovannino

Altro materiale pregiato è quello prediletto dall’Orbetto al quale è riferita una Madonna col Bambino, San Francesco d’Assisi e San Giovannino, che recupera più avanti negli anni un’invenzione sperimentata su un dipinto di medesimo soggetto al Museo di Castelvecchio a Verona.

Se i pittori fin qui citati, sebbene di provenienza diversa, avevano spostato il loro campo di azione su Roma, dopo la metà del Seicento il baricentro cassinate si sposterà verso l’arte napoletana e meridionale in genere. Ne sono prova il naturalismo austero dei Pietro e Paolo di Francesco Fracanzano, ora in Archivio, o il realismo più classicizzato di Andrea Vaccaro, che ci mostra una Santa Cecilia intenta a suonare il cembalo leggendo lo spartito sorretto da un angelo.

Francesco Fracanzano, Santi Pietro e Paolo

Allo stesso modo interprete del vero, declinato secondo i dettami emiliani forniti, nel suo caso, soprattutto dal Guercino, è Mattia Preti, suo è uno sfolgorante Ecce Homo, nel quale l’incarnato biancastro del Cristo contrasta il rosso veneziano del manto richiamato poi nel turbante di uno dei due aguzzini.

Mattia Preti, Ecce Homo.
Mattia Preti, Ecce Homo (particolare)

Ancor più cadaverico è l’aspetto del San Sebastiano curato da Irene dell’ultimo Luca Giordano, tra i pittori più attivi e rappresentati a Montecassino, anche nelle sale del museo che ospitano i bozzetti relativi alle decorazioni della Basilica e in gran parte perdute.

Luca Giordano, San Sebastiano curata da Irene

Qui si trova la grande tela dedicata da Paolo de Matteis alla consacrazione della chiesa monastica alla presenza di Benedetto XIII e del santo nursino che appare in alto tra le nubi accompagnato da uno stormo di cherubini;

Paolo De Matteis, Benedetto XIII consacra la Basilica Abbaziale

qui si ammirano vari dipinti di Solimena, tra i quali i prototipi delle lunette dedicate alle storie di San Giovanni Battista, e di Sebastiano Conca, in evidenza una Lavanda dei piedi.

Francesco Solimena, Il convito di Erode
Francesco Solimena, Decollazione del Battista

Francesco De Mura, Ritratto di Ildefonso Del Verme.

Ben noto ma degno di maggior attenzione è infine un capolavoro della ritrattistica di Francesco De Mura, datato 1735 nell’iscrizione che ricorda anche il nome del reverendo protagonista del dipinto, Ildefonso del Verme, ritratto con ogni probabilità a Napoli poco prima di divenire abate a Montecassino.

Andrà ribadito ancora una volta come questo quadro rientri tra i migliori esempi della ritrattistica napoletana del tempo, alla pari di dipinti firmati negli stessi anni da Solimena, ma presentando un’inedita vena di verismo che, come è stato già detto da autorevoli esegeti della pittura napoletana, pare anticipare alcuni celebri spunti di Traversi, che pure seguiva traiettorie culturali ben lontane da quelle demuriane. Il secolo dei lumi avrebbe d’altra parte fatto del ritratto uno dei generi più amati in quanto legato al vero, col pittore che doveva però riuscire ad andare oltre l’apparenza fenomenica per leggere nell’animo del ritrattato, mettendone in mostra il carattere e l’orgoglio, in questo caso quelli di un degno successore di San Benedetto.

Massimo FRANCUCCI  Roma  8 Dicembre 2024