di Nica FIORI
La Roma della Repubblica. Il racconto dell’archeologia. La mostra ai Musei Capitolini
Volendo suddividere la storia romana in tre età (regia, repubblicana e imperiale), ci rendiamo conto che la Repubblica occupa un arco di tempo di quasi cinque secoli, a partire dalla cacciata di Tarquinio il Superbo, l’ultimo dei re, nel 509 a.C., fino alla guerra civile tra Ottaviano e Antonio, culminata con la battaglia di Azio nel 31 a.C., cui seguì nel 27 a.C. il conferimento ad Ottaviano del titolo di “Augusto”. Nonostante si tratti di un periodo lunghissimo, al di là dei personaggi storici i cui nomi e imprese riaffiorano dai ricordi scolastici, ben poco sappiamo dell’aspetto di Roma nell’età repubblicana. Per avere un’idea della città antica, prima che il primo imperatore la trasformasse in una città di marmo, è consigliabile la visita della mostra “La Roma della Repubblica”, ospitata a Palazzo Caffarelli (Musei Capitolini) fino al 24 settembre 2023, che costituisce il secondo capitolo del progetto espositivo “Il racconto dell’archeologia”, inaugurato nel 2018 con “La Roma dei re”.
Come ha precisato il Sovrintendente Capitolino ai Beni Culturali Claudio Parisi Presicce, curatore della mostra insieme a Isabella Damiani, questo ciclo di mostre è partito molto tempo fa, quando le casse di reperti, che avevano a lungo vagato per la città in cerca di una collocazione, sono approdate al Museo della Civiltà Romana per un lavoro di elaborazione e studio dei materiali. Parliamo di oggetti provenienti tutti da scavi urbani, alcuni emersi negli anni immediatamente successivi all’annessione di Roma al Regno d’Italia (1870), altri nella riorganizzazione della città degli anni ‘20 e ‘30 del Novecento. Ai materiali selezionati dai magazzini, finora poco visti e spesso inediti, si aggiunge in questa mostra una scelta di opere conservate alla Centrale Montemartini, tra le quali spiccano un’urna in marmo dall’Esquilino, una piccola scultura di capro in bronzo da via Magenta e i resti di affresco dalla cosiddetta Tomba Arieti. Dai Musei Capitolini provengono, inoltre, alcuni ritratti di età tardo-repubblicana.
Il progetto espositivo si prefigge di far capire non solo la topografia e l’architettura della città antica, ma anche la società che si è andata sviluppando nel territorio nel corso dei diversi cambiamenti epocali. E tutto ciò viene raccontato con un allestimento innovativo e accattivante, attraverso reperti archeologici poco conosciuti, che raccontano la vita di persone anonime, perché, come ha ricordato Parisi Presicce citando Flaubert, “non sono le perle che fanno il collier, ma il filo”. In effetti non incontriamo nella mostra alcun personaggio noto, a parte Cicerone, il cui busto marmoreo è stato scelto per introdurre il percorso, accompagnato da questa sua frase:
“La Res Publica è cosa del popolo, e il popolo non è una qualsiasi associazione di uomini, ma un’unione fondata su interessi e diritti comuni”.
Isabella Damiani ha ribadito da parte sua che, più che privilegiare la singola opera d’arte, si è pensato di “mostrare la quantità, per dare un’idea della ricchezza di reperti che si trovano durante gli scavi“. E, in effetti, è proprio il grande numero di oggetti (circa 1800) che salta subito agli occhi. Si tratta soprattutto di terrecotte e ceramiche, ma non mancano alcuni manufatti in bronzo e in pietra locale, in rari casi anche in marmo.
Nel primo ambiente espositivo possiamo ammirare alcuni tratti di mosaici pavimentali ritrovati nell’area del Campidoglio, che con i loro motivi a scacchiera, a losanghe, a meandri ci danno un’idea della pavimentazione delle case patrizie. Alcuni esempi sono a tessere bianche e nere, in altri compaiono pietre colorate.
Un pavimento del II secolo a.C. è in opus signinum, cosiddetto dalla città di Segni, caratterizzato da una base fittile (frammenti di terracotta impastati con calce) con tessellato musivo.
Il tema centrale della prima sezione è quello delle infrastrutture urbane, necessarie per rendere vivibile la città. Pensiamo in particolare all’approvvigionamento idrico. Come ricorda Frontino nel De aquaeductu urbis Romae,
“per 441 anni dalla fondazione ai Romani fu sufficiente l’acqua del Tevere, o dei pozzi, o delle sorgenti”.
I pozzi, una volta resi inutili dagli acquedotti (dei quali quattro sono di età repubblicana: l’Appio, l’Anio vetus, l’Aqua Marcia e l’Aqua Tepula), vengono dismessi e riempiti di materiali. In mostra sono allestite numerose brocche, talvolta con lettere incise, accumulate nei pozzi di Largo Magnanapoli sul Quirinale, nel momento di abbandono della loro originaria funzione.
Spesso si tratta di veri depositi votivi, perché il materiale donato alla divinità, e quindi sacro, non poteva essere alienato e pertanto, in caso di eccesso, veniva collocato all’interno di depositi.
Tra i depositi votivi l’esempio più importante è quello scoperto a fine Ottocento all’Esquilino (via Carlo Botta), dedicato a Minerva Medica.
Sono in mostra centinaia di ex voto in terracotta, tra i quali, oltre ai soliti votivi anatomici, relativi alle parti del corpo per le quali si chiedeva la guarigione, ce ne sono alcuni che mostrano un’intera famigliola: una sorta di triade con il marito e accanto la moglie con un neonato in grembo.
Molto curiose ci appaiono le statuine di donne che sollevano la veste per mostrare il ventre, da interpretare probabilmente come una richiesta di fecondità.
Esposti per la prima volta al pubblico sono i resti di un altro deposito votivo venuto in luce nello stesso periodo a Campo Verano, e quelli individuati negli anni ‘30 del Novecento nel corso dello sbancamento della Velia e presso il mitreo del Circo Massimo.
La sezione espositiva più consistente è proprio quella relativa al rapporto con il sacro, che illustra, oltre ai manufatti della devozione popolare di cui abbiamo detto, la realizzazione dei santuari pubblici, tra i quali il Tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio e i quattro templi repubblicani dell’area di Largo Argentina. I resti archeologici esposti, sia pure molto frammentari, testimoniano le fasi costruttive, le caratteristiche artigianali e il livello artistico di questi edifici templari, dei quali prima si conosceva molto poco della decorazione.
Ciò che ci colpisce maggiormente è l’uso di colori sgargianti (il rosso, il blu, il giallo e il verde), restituiti basandosi sull’analisi delle terrecotte relative a una serie di moduli decorativi. Ricordiamo che il Tempio di Giove Ottimo Massimo, del quale si conservano i resti delle fondazioni, venne iniziato da Tarquinio Prisco e inaugurato nel 509 a.C., lo stesso anno della fine della monarchia e dell’inizio della Repubblica. Di grande impatto è la proposta ricostruttiva del monumentale frontone di età repubblicana (fase del III secolo a.C.) con motivi decorativi quali palmette sovrastate da sime (tegole con lastre decorate), coronate da una cornice traforata. Sulle gronde laterali erano collocate delle antefisse raffiguranti la Signora degli Animali (la Potnia Theron della tradizione greca).
Anche le lastre di rivestimento dei templi dell’area sacra di Largo Argentina, databili tra la seconda metà del IV secolo a.C. e la metà del I secolo a.C., sono proposte in mostra in un trionfo di colori. Attribuibile probabilmente al Tempio A è il frontone decorato ad altorilievo con una grande testa femminile al centro di un tralcio fiorito.
Numerosi sono i resti di antefisse, anche in questo caso con la Signora degli Animali e altre con testa di Gorgone.
Di questi santuari vengono proposti alcuni materiali votivi. Dal Campidoglio in particolare provengono una serie di ollette miniaturistiche, statuine, lucerne e strumenti per la filatura e tessitura, ritrovate nell’area della Protomoteca e altri contesti votivi venuti in luce con i lavori per la costruzione della Galleria di congiunzione dei palazzi capitolini, da mettere in relazione con il Tempio di Veiove, dedicato nel 196 a.C., i cui resti attualmente visibili sono relativi al restauro di età sillana (I secolo a.C.) e poi a quello di età domizianea (I secolo d.C.).
È stato pure recuperato il frontone di un tempio sconosciuto rinvenuto nel 1876 in via Latina, i cui pezzi erano stati portati a Firenze e restituiti poi a Roma nel 1885 grazie all’intervento della Commissione archeologica comunale. L’insieme, rimasto finora inedito, comprende 11 figure in terracotta, estremamente frammentarie, inerenti a un consesso di divinità. Si tratta di un altissimo esempio di scultura fittile databile all’inizio del I secolo a.C., tuttora in corso di studio.
Grazie a un elaborato lavoro di restituzione grafica, restauro integrativo dei frammenti originali con tecnologie di rilievo 3D, di scultura digitale e stampa 3D, è ora possibile ammirare l’ipotetica ricostruzione della Triade Capitolina, ovvero Giove, Giunone e Minerva, da ricollocare idealmente al centro dello spazio frontonale.
Tra le divinità raffigurate nel tempio sconosciuto, doveva esserci anche Ercole.
Nel gruppo di frammenti assegnati alle sculture acroteriali dello stesso frontone, una testa di cavallo imbizzarrito ha permesso di identificare la scena raffigurata, grazie a confronti iconografici con scene similari, con l’ottava fatica di Ercole, ovvero la cattura delle cavalle di Diomede, re di un popolo barbaro della Tracia. Le cavalle dovevano essere quattro e in effetti sono presenti tra i frammenti altre porzioni di corpi di cavallo, oltre a parti dello stesso Ercole e di un secondo personaggio, che poteva essere probabilmente Diomede.
Un altro tema trattato in mostra è quello della produzione e dei commerci, compresa la monetazione che viene prodotta a Roma a partire dalla fine del IV secolo a.C., quando l’Urbe entra in contatto con le città magnogreche, da secoli abituate all’uso monetario. È solo nel III secolo a.C., però, che compare un sistema monetario omogeneo con rapporti stabili tra le varie monete e i metalli, e alla fine della II guerra punica si assiste alla coniazione del denario in argento, recante la testa della dea Roma, i Dioscuri a cavallo e il segno del valore.
Nell’ambito di questo settore la produzione ceramica offre una chiave di lettura privilegiata, dal momento che questo materiale ha lasciato tracce più durevoli rispetto alla lavorazione della pietra, dei metalli e del legno.
L’esposizione racconta l’evoluzione dell’artigianato di qualità che, partendo da forme e tecniche legate alle tradizioni dell’età arcaica, si sviluppa nel corso dei secoli IV e III a.C. con nuove produzioni, come le stoviglie interamente verniciate e il vasellame decorato a figure rosse, prodotto nell’area etrusco-laziale.
La tecnica dello stampo assume un ruolo molto importante nelle produzioni di particolari oggetti, come gli ex voto e i piccoli altari (arulae) di terracotta presentati in mostra, che hanno particolare diffusione nell’età medio-repubblicana.
Il rinnovamento delle tecniche artigianali è anche sintomatico delle modificazioni nelle pratiche sociali, religiose e funerarie della città. In ambito commerciale la realizzazione e l’acquisizione di beni nell’area mediterranea mutano sensibilmente nel corso dell’età repubblicana. Alla fine del III secolo a.C. si assiste all’affermazione delle produzioni di massa, che presuppongono una standardizzazione delle forme e una loro massiccia circolazione.
L’ultimo tema affrontato nella mostra è quello delle manifestazioni di identità, prestigio e ascesa sociale, legato alla necessità da parte delle famiglie gentilizie di promuovere le loro immagini, come pure quelle degli antenati, a partire dai primi ritratti in cera che conservavano nelle loro dimore. Anche i monumenti funerari, collocati lungo le vie di accesso alla città, vanno visti nel più vasto programma di controllo delle istituzioni e della vita politica cittadina.
Tra le opere esposte troviamo un affresco della c.d. Tomba Arieti all’Esquilino, che presenta scene di combattimento con personaggi in nudità eroica, un’urna in marmo pario ancora dall’Esquilino, i gruppi scultorei in pietra da Campo Verano forse appartenenti a un monumento commemorativo (tra cui una statua in peperino raffigurante una donna con due bambini).
Sono opere attraverso le quali determinate categorie sociali volevano comunicare l’alto status raggiunto. Non dimentichiamo che il cursus honorum, al quale è stata dedicata una mostra negli stessi Musei Capitolini, nasce proprio in età repubblicana.
Pure i ritratti in calcare e in marmo (ne sono esposti alcuni del I secolo a.C.) costituiscono una testimonianza del rango degli individui raffigurati e sono pure utili per valutare il livello del linguaggio artistico del momento. Sono tutti ritratti realistici, molto diversi da quelli greci, che erano invece idealizzati. Nella raffigurazione di personaggi anziani, notiamo la presenza di rughe, occhiaie e pelle flaccida, che sembrano difetti ostentati con orgoglio, perché in età repubblicana ci si vantava di praticare uno stile di vita austero, all’insegna della rigida osservanza della morale tradizionale.
Nica FIORI Roma 15 Gennaio 2023
La Roma della Repubblica. Il racconto dell’Archeologia
Musei Capitolini – Palazzo Caffarelli, Piazza del Campidoglio, 1
13 gennaio-24 settembre 2023
Tutti i giorni ore 9,30 – 19,30 www.zetema.it; www.museicapitolini.org