di Francesco De FEO
Francesco de Feo (Roma, 1959) ha studiato all’istituto d’arte e sempre lavorato il ferro, tuttavia la pittura è diventata uno dei fili conduttori della sua esistenza. Figlio e nipote d’arte (il padre era l’architetto Vittorio e il nonno materno il pittore Francesco Trombadori) i suoi interessi principali riguardano però da tempo le armi antiche anche per motivi di origine familiare: nella sua casa erano conservate le spade di un antenato Don Vitantonio de Feo, giudice della Gran Corte Criminale di Ferdinando IV oltre che facente parte dello stato maggiore dell’Armata della Santa Fede che scacciò i napoleonici dal Regno di Napoli nel 1799. In questo ambito si è andato specializzando diventando un riferimento tra i collezionisti e gli amanti della spada giapponese: NIHON-TO. Frequenta la sede della NBTHK di Tokyo dal 1983 ed è il presidente della filiale italiana di questa associazione per la tutela della spada d’arte. Da anni tiene un seminario dal titolo “All’ombra della spada, il DAI NIPPON del KAMI, il KIKU e il SAKURA”. Come esperto di armi antiche ha pubblicato numerose pubblicazioni e tenuto varie conferenze, collaborando altresì alla schedatura di varie opere delle collezioni asiatiche del Museo Pigorini
La scoperta della Maddalena Klein
Qualche giorno fa nel cuore della Roma di Caravaggio, in Via di Pallacorda, tra le chiese con le opere più celebri del genio lombardo e la dimora del cardinale del Monte dove fu accolto, ho incontrato dopo molti anni un antiquario che ha fatto la storia dell’antiquariato a Roma e non solo, Mario Bigetti, e mi è rivenuto alla mente un ‘caso’ riguardante un dipinto di Caravaggio.
Nei primi anni ’70, ero un giovanissimo studente dell’istituto d’arte e per mia passione dopo la scuola frequentavo gli studi di vari artisti e restauratori con l’intenzione di imparare qualcosa anche sul mestiere del mio nonno pittore: Francesco Trombadori.
Tra gli addetti ai lavori che frequentavo più assiduamente e volentieri i più singolari erano Mario e Pico Cellini la cui amicizia avevo ereditata da mio zio Antonello, i due erano infatti figli di Giuseppe Cellini il pittore che insegnò la tecnica a mio nonno nel 1906 quando emigrò a Roma per frequentare l’accademia. Il nonno, nato nel 1886 a Siracusa, faceva parte di una secolare famiglia di artisti, e decise già da bambino quale dovesse essere il suo destino, infatti scappò di casa a Ortigia per raggiungere il Santuario di S. Lucia al sepolcro a Siracusa per ammirarvi il Seppelimento di S. Lucia di Caravaggio che così precocemente lo aveva “rapito”.
È da sottolineare che a quel tempo il genio lombardo non era considerato come oggi e che gli scrittori come Stendhal e la maggioranza dei critici che se ne occuparono prima di Longhi non erano molto attratti dai suoi meriti artistici.
I fratelli Cellini invece sapevano il fatto loro: se non erro nel ’57, qualche anno dopo gli studi di Longhi, Pico ne scoprì il capolavoro ora esposto a palazzo Barberini: Giuditta e Oloferne.
Mario e Pico nelle loro case-studio in via Monte Zebio collezionavano, commerciavano e restauravano ogni sorta di tesori d’arte anche di inestimabile valore, attirandovi i più importanti studiosi come Federico Zeri o come Maurizio Marini all’epoca ritenuto tra i massimi esperti del Caravaggio.
Una sera, potevo avere 14 anni, mi trovavo da Mario quando Pico lo chiamò per mostrargli una tela di scuola caravaggesca, che mi pare giungesse da Napoli, e che ho poi riconosciuto nella Maddalena Klein. Entrai nella stanza adibita a studio, impregnata dall’inconfondibile profumo dei colori a olio e ingombra di opere che oggi farebbero tremare i polsi dei critici più in vista. Il quadro campeggiava sul cavalletto scrutato attentamente da Marini. La santa in estasi si stagliava nell’oscurità del fondo sfumato da decise pennellate dalle tonalità simili, stese senza esitazioni dal Maestro. Questa è L’ Arte più autentica, che si esplica nel dominio mostrato dall’artista sui propri arti a cui fa compiere ciò che ha in mente nell’attimo stesso in cui lo pensa.
Pico aveva già ripulito la tela salvando solo la pittura originale che svelava però delle lacune in cui affioravano tracce del fondo preparatorio, liberato dai vecchi restauri. Osservandolo, guidati da Pico, notammo che vi si intravedeva graffito lo schema del dipinto. Lui e Marini ci spiegarono che questo era il modo di procedere del Maestro, scoprendo anche una delle sue maggiori caratteristiche tecniche. Gli altri la menzionarono solo molto dopo asserendo che la bozza fosse graffita sul fondo preparatorio con chissà quali attrezzi mentre Pico girò il pennello mostrando come si potesse usarne semplicemente lo stelo appuntito. Anche grazie alla prova fornita da questo graffito, che aveva già riscontrato in diverse opere dapprima attribuite solo alla sua scuola, i Caravaggio scoperti da Pico Cellini salirono, a suo dire, a cinque.
Attualmente, dopo i chiarimenti di Bigetti, cerco altri riscontri su ciò di cui fui testimone e vengo a scoprire che le recenti indagini scientifiche condotte su alcuni dipinti del Merisi dell’ingegner Claudio Falcucci giungono a stimolanti conclusioni provando:
“che Caravaggio fu uno dei primissimi artisti a sfruttare il tono della preparazione come campitura pittorica a se stante: nei suoi dipinti tardi, quelli siciliani o maltesi, la gran parte degli ampi fondi bruni non è altro che la preparazione lasciata a vista, senza pittura ulteriore [..]
Ma in realtà è un sistema che lui usa già nelle sue ultime opere romane, quando il tono della preparazione è scelto accuratamente per costituire il mezzo tono degli incarnati o delle vesti, o addirittura la tonalità dominante dell’opera. Troviamo preparazioni che variano dal giallo-bruno, al rosso, al nero, in ragione dell’effetto finale che si vuole ottenere, secondo il principio della cosiddetta tecnica “al risparmio”, funzionale alla massima rapidità esecutiva: e in realtà quasi tutti i suoi espedienti tecnici servono a velocizzare la fase della stesura pittorica.
Ad eccezione dei pentimenti – che peraltro sono presenti spesso ma non sempre nella sua opera – Caravaggio cerca costantemente di evitare di tornare col pennello dove ha già dipinto, per non dover attendere che lo strato precedente si sia seccato. Studiando i suoi dipinti nelle sezioni stratigrafiche frequentemente troviamo sopra la preparazione un unico strato di pittura, quello che serve per passare dal tono della preparazione al tono che Caravaggio vuole realizzare sul dipinto, con una tecnica estremamente rapida e sintetica e con una minima presenza di “velature”
Queste tecniche ora mi sembrano effettivamente proprio quelle usate per la Maddalena Klein ma allora non ricordo di aver sentito il termine al risparmio nè da Pico, nè da Marini che anzi forse temevano che alcune parti del dipinto fossero rimaste incompiute; pertanto sarebbe interessante verificare se gli interventi di restauro da loro effettuati le avessero in qualche modo completate. La questione del restauro è un tema scabroso e sempre dibattuto e sicuramente a quei tempi le concezioni erano diverse, se non opposte, a quelle attuali che tendono ad evidenziare qualsiasi forma di ripristino. Non dobbiamo dimenticare che i fratelli Cellini nascevano pittori ed erano spesso portati, anche dai critici, ad agire come tali.
Mario e Pico (come me) erano nati, e non venuti, nello studio di un artista che nel loro caso è anche quasi “antico” avendo, nel 1888, affrescato la galleria Sciarra poi restaurata (ero presente) da Pico che conosceva direttamente le composizioni dei colori e sapeva assegnarle ai rispettivi pittori, e anche se empiricamente, rifarle. Vogliamo quindi anzitutto manifestare la nostra gratitudine ai fratelli Cellini e a Maurizio Marini e al contempo auspichiamo un riesame della Maddalena Klein che potrebbe anche mostrare come sia progredita la concezione del restauro da loro fondata.
Tra gli altri dati memorabili di quel magico periodo ricordo personalmente che nello studio di Pico vennero istruiti i membri del primo nucleo del TPC comandato dal generale Conforti.
Mario Cellini invece aveva già accantonato il restauro per alimentare la sua formidabile collezione di dipinti con acquisti e scambi. Rammento che grazie all’insostituibile e innato “colpo d’occhio” (tipico di chi è tutt’uno con ciò che fa) ritrovò anche il ritratto di donna Olimpia Maidalchini dipinta da Velasquez con indosso lo stesso inconfondibile copricapo con cui la scolpì l’Algardi.
Per me era questo il pezzo forte della sua collezione che comprendeva oltre a numerosi dipinti dalle attribuzioni prestigiose, la meravigliosa serie dei disegni di Felice Giani, i piccoli capitelli in pietra di Trani, i gioielli e gli argenti che ben conosceva perché mi disse che lo zio argentiere ne realizzò alcuni per la sinagoga di Roma.
Con Mario andavamo al Babuino a scambiare pareri e a comprare dagli amici antiquari Totò Jandolo, Marcello e Carlo Sestieri, Fabio Massimo Megna, e Mario Bigetti che poco più che ventenne era già un infaticabile cacciatore di capolavori formatosi direttamente sul campo come il sottoscritto.
Mario Cellini morì negli anni ’70 e io fui tra gli ultimi a vederlo mentre Pico seguitò centenario a raccontare e scrivere ricordi legati alla sua vita, e all’arte ma sempre con quella piacevole vena umoristica che che lo distingueva dagli esperti di oggi.
Francesco De FEO Roma 23 maggio 2021