di Luca BORTOLOTTI
LA SCUOLA DI ATENE DI RAFFAELLO: NOTE A MARGINE
Una circostanza occasionale mi ha dato recentemente l’opportunità di tornare a riflettere sulla cosiddetta Scuola di Atene (fig. 1).
Si tratta, naturalmente, di uno dei testi figurativi più alti e rappresentativi dell’arte del Rinascimento, ma al contempo esso costituisce anche l’immagine più popolare di Raffaello, di cui quest’anno si celebra il quinto centenario della morte.
A pensarci bene, tra i titani della nostra tradizione figurativa, Raffaello è forse quello che vanta il minor numero di opere autenticamente popolari, come se la perfezione miracolosamente equilibrata della sua arte si spalmasse e diffondesse omogeneamente su tutti i suoi lavori, ma impedisse a una piccola manciata di essi di spiccare assolutamente sugli altri. Se c’è un’eccezione, questa è rappresentata proprio dalla Scuola di Atene: un’immagine così familiare che rischia, al pari di altri capolavori altrettanto “iconici”, di non essere più realmente osservato con attenzione, ma di volta in volta amata, divinizzata, indagata come un rebus interpretativo o un testo filosofico e perfino ridimensionata, parodizzata e sfruttata come immagine pop (analogamente alla Gioconda).
A ben vedere, non è difficile capire il perché: la Scuola di Atene, oltre a costituire un’eccezionale distillato di virtù pittorica, è un’opera in un certo senso assai “semplice” da fruire, con il suo nitore strutturale, la sua accogliente maestosità, priva della soggiogante “terribilità” michelangiolesca, la sua armoniosità naturalmente sprezzata, la grazia raggiunta apparentemente senza sforzo e diffusa su ciascuna delle figure che popolano la scena. Ma al contempo è un’immagine sbalorditivamente ricca e sofisticata, di una mirabile complessità compositiva e concettuale, frutto di un’elaborazione studiatissima e di una calibratura infinitesimale di ogni gesto, espressione, postura, dettaglio architettonico e spaziale; autentica e in fondo unica erede diretta del magistero compositivo dell’Ultima Cena di Leonardo (come rende esplicito il meraviglioso cartone preparatorio custodito presso la Pinacoteca Ambrosiana di Milano, Fig. 2).
La Scuola di Atene è un capolavoro al di sopra di ogni discussione e, sic et simpliciter, una delle opere pittoriche più perfette mai realizzate, vertice felice della civiltà figurativa rinascimentale; ma è anche un testo straordinariamente complesso, i cui possibili significati – evidenti, nascosti, reconditi o impenetrabili – occupano da secoli i più sottili esegeti dell’arte figurativa, non solo storici dell’arte, ma anche filosofi, filologici e storici della cultura.
Raffaello prima di Roma
Non occorre soffermarsi a lungo sui fatti, ben noti. Papa Giulio II Della Rovere (pontefice dal 1503 alla morte nel 1513) nel 1508 convocò l’urbinate Raffaello (stando alla testimonianza di Vasari, su suggerimento del concittadino Donato Bramante, allora soprintendente della Fabbriche pontificie e responsabile del cantiere della Basilica di San Pietro) per coinvolgerlo nella nuova decorazione pittorica di una serie di stanze dei Palazzo Vaticani, impresa per la quale erano stati già reclutati alcuni tra i massimi artisti dell’epoca, tra cui Perugino e Signorelli (entrambi già all’opera oltre vent’anni prima negli affreschi delle pareti laterali della Cappella Sistina) e poi Sodoma, Baldassarre Peruzzi, Bramantino e Lorenzo Lotto. In breve Giulio II, temperamento di proverbiale energia, folgorato dal talento del giovane artista decise di affidare l’intera impresa a Raffaello, dando il benservito a tutti gli altri grandi pittori già coinvolti nei lavori, così come non avrebbe esitato di lì a poco ad abbattere gli affreschi di Piero della Francesca, commissionati da papa Pio II qualche decennio prima, che decoravano altri ambienti dei Palazzi Vaticani.
Raffaello aveva alle spalle un’ancor breve seppur brillante carriera, trascorsa tra gli esordi marchigiani, alla scuola del padre Giovanni Santi, le prime prove in Umbria (sotto l’egida del maestro Pietro Perugino) e la consistente, ma non ancora travolgente affermazione sulla piazza fiorentina: diciamo che Raffaello era già molto più che una promessa, ma non ancora un pezzo da novanta sulla scena artistica “italiana” di inizio Cinquecento. Aveva nondimeno alle spalle commissioni di un certo calibro e un nucleo considerevole di opere eseguite, che furono subito considerate capolavori e non hanno mai smesso di essere considerate tali. Giusto come promemoria si possono qui ricordare, a partire dal 1504 (quando Raffaello era poco più che ventenne), perlomeno lo Sposalizio della Vergine della Pinacoteca di Brera,la Madonna del cardellino degli Uffizi,
la cosiddetta Belle Jardiniere del Louvre, la coppia di ritratti di Agnolo e Maddalena Doni di Palazzo Pitti
e la Deposizione della Galleria Borghese, datata 1507 (Figg. 3, 4, 5, 6, 7).
LA STANZA “DELLA SEGNATURA”: I DATI STORICI PRINCIPALI
In merito all’originaria destinazione della cosiddetta Stanza della Segnatura, sappiamo sia da una lettera di Pietro Bembo del 20 gennaio 1513 (in cui si elogia la biblioteca privata di Giulio II, Epistularum familiarum libri VI, Venezia, Scoto, 1552, pag. 188), sia da documenti di natura contabile del marzo 1509 (relativi al pagamento dei lavori compiuti da Lorenzo Lotto e dal Sodoma), che quasi certamente essa era la biblioteca privata di Giulio II, distinta dalla Biblioteca Apostolica Vaticana collocata al pianterreno del palazzo pontificio. L’uso della stanza quale biblioteca è poi avvalorato dall’assenza di un camino, dal disegno del pavimento e dal fatto che il basamento sia stato decorato in seguito, sotto Leone X, e che quindi fosse sino a quel momento rivestito da scaffalature di legno.
L’ambiente prende il nome dal principale Tribunale della Santa Sede la “Segnatura Gratiae et Iustitiae”, presieduto dallo stesso pontefice. Sin dal 1513, poco dopo la morte di Giulio II e l’elezione al soglio pontificio di Leone X Medici, il maestro delle cerimonie apostoliche Paris de Grassi già designa la stanza con il nome con cui è ancora oggi conosciuta. Com’era consueto e logico nelle decorazioni ad affresco, Raffaello iniziò dalla volta per poi scendere progressivamente alle pareti. Sulla volta spiccano lo stemma pontificio, posto al centro, e i quattro tondi ognuno con l’immagine di una figura allegorica femminile: Giustizia, Teologia, Poesia e Filosofia,
ciascuna strettamente connessa con i grandi affreschi sottostanti. I tondi costituiscono il preludio perfetto al ciclo, in grado di assicurare piena unitarietà e coerenza iconografica all’intera decorazione pittorica della stanza.
Il primo affresco delle pareti ad essere eseguito fu la cosiddetta Disputa del Sacramento dell’Eucarestia (fig. 8),
che nella complessa articolazione delle sue innumerevoli figure rappresenta una maestosa rappresentazione allegorica della Teologia. La cosiddetta Scuola di Atene (Fig. 1), posta esattamente di fronte alla Disputa, fu l’affresco eseguito per ultimo da Raffello, a conclusione della stanza, in stretta relazione tematica col tondo soprastante della Filosofia, raffigurata con due tomi ponderosi, rispettivamente intitolati “MORALIS” e “NATURALIS”, mentre i due putti ai lati reggono l’iscrizione “CAUSARUM COGNITIO”.
PERSONAGGI EFFIGIATI, TITOLO E LE MOLTEPLICI DELLE INTERPRETAZIONI
Incessante è stato nei secoli l’impegno a riconoscere sia gli eminenti filosofi e pensatori della tradizione classica rappresentati da Raffello, sia le personalità storiche, intellettuali e artistiche a lui contemporanee che avrebbero prestato il proprio aspetto per l’effige di alcuni di quelli. Chiaramente la capacità di Raffaello di conferire individualità fisionomica e caratterizzazione espressiva ai volti disseminati sulla scena ha innescato un gioco delle coppie senza fine, producendo un profluvio di tentativi di abbinamento tra i saggi antichi raffigurati, per lo più di arbitraria identificazione, e gli “attori” moderni impiegati da Raffaello per prestar loro l’aspetto, spesso frutto di pura suggestione.
Detto in breve, i riconoscimenti più sicuri riguardano prima di tutto Leonardo da Vinci, il cui volto inconfondibile fu utilizzato da Raffaello per raffigurare Platone, proprio al centro della scena, il quale regge con la mano sinistra il suo celebre Dialogo del Timeo mentre con la destra indica il cielo, alludendo all’iperuranico mondo delle idee. Al suo fianco si trova Aristotele, che indica la terra, chiaro riferimento al mondo della realtà e dell’esperienza, e regge in mano il volume dell’Etica Nicomachea. Nel suo volto si suole riconoscere tradizionalmente il pittore e architetto Bastiano da Sangallo, sebbene con meno evidenti elementi di riscontro.
Sotto di loro, coi vestiti laceri, è posizionato Diogene; a destra di spalle, col globo e la corona, si riconosce Tolomeo, accanto al quale Raffaello ha inserito il suo autoritratto; in basso a sinistra, seduto e intento a copiare una tavoletta con figure geometriche, è posto Pitagora; infine, alla sinistra di Platone, riconosciamo il tipico profilo di Socrate. Nel saggio chinato a destra, intento a disegnare cerchi col compasso si suole individuare alternativamente Archimede o Euclide, mentre si riconosce generalmente Michelangelo nelle vesti di Eraclito nella figura isolata seduta al centro della scena (assente nel cartone preparatorio dell’Ambrosiana e quindi aggiunta direttamente in fase di realizzazione dell’affresco).
La solennità e semplicità dell’architettura in cui è ambientata la scena è un esito pienamente maturo della cultura prospettica su base matematica sviluppatasi nel corso del secolo precedente nonché una limpida testimonianza dell’ispirazione archeologica di Raffaello, conseguente all’approfondito studio dal vivo dei monumenti romani. L’influsso di Bramante vi è evidente, in particolare del progetto per la tribuna della Basilica di san Pietro, con pianta a croce greca e cupola centrale, al punto che, com’è noto, Vasari suggerì (sebbene con argomenti generici) che proprio a Bramante si dovesse il progetto dell’architettura che ospita il vasto consesso di pensatori, studiosi ed artisti. L’interesse di Raffaello per l’architettura, del resto, si sarebbe pienamente concretizzato alla morte di Bramante, nel 1514, quando egli gli successe come responsabile della Fabbrica di San Pietro, e avrebbe caratterizzato tutta la sua ultima fase produttiva, finendo perfino per sopravanzare l’attività pittorica, sempre più cospicuamente delegata all’intervento diretto dei suoi geniali allievi.
IL TITOLO, I CONTENUTI E LA COSTRUZIONE DELL’IMMAGINE
Il titolo di Scuola di Atene si è imposto solo al principio del Seicento, un secolo dopo l’esecuzione dell’affresco. È stato spesso discusso e confutato nell’infinita letteratura critica che da sempre si è occupata di quest’opera capitale, senza però che si sia riusciti a sostituirlo nella coscienza comune con uno di analoga efficacia: a riconoscimento, se non della sua precisione descrittiva, quanto meno della sua capacità evocativa. Del resto non sarebbe agevole assegnare un’intitolazione corrispondente in modo stringente a quanto si vede rappresentato in una scena così articolata e popolata di personaggi, in alcun modo riconducibile a una precisa tradizione iconografica. Si può dire che Raffaello letteralmente inventi un contesto narrativo, allestendo un set paradossale, che nella sua trascendentale classicità combina astrazione metafisica e realismo della messa in scena.
Come in un complesso scatto fotografico la composizione fissa le figure in un insieme organico e sincronico, subordinato all’unità di tempo e di spazio dell’inquadratura. La sequenzialità e complanarità temporale della narrazione codificata nei cicli di affreschi del XIV e XV secolo viene qui superata e fusa entro un impianto progettuale di magistrale coerenza.
Anche se un titolo che volesse restituire più appropriatamente la potente valenza simbolica incarnata dall’affresco dovrebbe insistere sul tema dell’allegoria della Filosofia o della celebrazione metaforica della ragione che illumina il mondo e guida la mente dei saggi, la suggestione restituita dal titolo fittizio con cui esso è universalmente noto restituisce, sia pur anti-storicamente, un aspetto sostanziale dell’invenzione compositiva raffaellesca: il suo realismo narrativo da tableau vivant, che fissa un momento perfetto (per dirla con Lessing), al contempo assolutamente ideale ma anche perfettamente verisimile, che potrebbe effettivamente corrispondere alla camminata di due eminenti pensatori dell’antica Grecia che discutono dei massimi sistemi circondati dai loro studenti e giovani colleghi negli ambienti grandiosi di un’accademia classica.
In questo senso la brillante parodia della moda archeologica congegnata da Joshua Reynolds proprio sul modello della Scuola di Atene (Dublino, National Gallery of Ireland, Fig. 9),
al di là del sulfureo intento caricaturale – che non risparmia il classicismo e Raffaello stesso – riesce a cogliere nel segno in un senso più sottile, riconoscendo non solo i vari livelli simbolici che caratterizzano l’affresco vaticano, ma anche la sua linearità pre-iconografica e quindi la dimensione di realtà che in essa è leggibile direttamente, anche in assenza delle opportune istruzioni di lettura fornite dal commento iconologico.
Vorrei chiudere proponendo un’ardita e perfino temeraria connessione ideale con uno dei massimi esiti della pittura dell’Ottocento, L’atelier du peintre di Gustave Courbet (Fig. 10), oggi al Musée d’Orsay di Parigi (consapevole che una tale relazione non sarebbe riuscita troppo gradita al suo autore).
Raffaello non è certo il primo nome che viene in mente pensando a Courbet (e anche viceversa, naturalmente) e l’occasionale associazione tra il campione del realismo sociale ottocentesco e l’apollinea punta di diamante del classicismo rinascimentale può apparire in effetti spiazzante. Eppure il monumentale capolavoro di Courbet, emblema eternamente indagato, discusso e celebrato della sua arte, fu icasticamente definito dall’autore, con un’antitesi tanto folgorante quanto puntuale, “Allégorie réelle”: una dizione che suona come un apparente ossimoro, ma che, mutatis mutandis, potrebbe sorprendentemente essere applicata anche all’affresco della Stanza della Segnatura qui in oggetto. La grande tela di Courbet presenta, in effetti, una studiata convivenza tra la trasparenza realistica dei motivi figurativi rappresentati e una sofisticata intenzionalità allegorica, pazientemente progettata e frutto di una lunga preparazione.
L’opera di Courbet presenta un artista all’opera nella sua bottega, affiancato dalla sua modella e circondato di figure che una lettura ingenua ma non illegittima potrebbero senz’altro intendere come amici, critici, clienti e conoscenti più o meno occasionali dell’artista. Come avviene nel grande affresco di Raffaello, Courbet naturalmente si spinge molto oltre questo e seleziona accuratamente volti di personalità contemporanee (tutte connesse alla sua biografia e non altrettanto illustri rispetto a quelle scelte dal suo sommo predecessore) che sono riconoscibili come tali, ma sono investite di un addizionale significato allegorico, su cui si costruisce il complesso, e a tratti criptico, progetto allegorico dell’artista.
PRECOCITA’ E MATURITA’ DI RAFFAELLO
Nel riflettere sulla Scuola di Atene quel che trovo maggiormente sbalorditivo è la giovinezza di Raffaello – ventiseienne all’epoca dell’esecuzione della Disputa e poco più anziano quando realizzò la Scuola di Atene – a fronte della complessità di concezione e maturità di realizzazione dell’affresco. Egli riuscì, infatti, a restituire con magistero totale e al di sopra di ogni possibile riserva un programma iconografico particolarmente ambizioso, che certamente dovette essere ideato e suggerito proprio dal papa Della Rovere (come affermò esplicitamente Paolo Giovio, primo biografo di Raffaello, pochi anni più tardi) per essere poi sviluppato col supporto dei teologi della corte pontificia, in primis l’agostiniano Egidio da Viterbo. Questo concerto di menti seppe imprimere al contenuto dell’immagine una visione di impianto neoplatonico, naturalmente temperato nei suoi aspetti più marcatamente pagani e rifluito in un quadro di sincretismo cristiano, compatibile col luogo al quale l’opera era destinata (per quanto, lo rammentiamo, si trattasse quasi certamente di un ambiente privato), che Raffaello neanche trentenne seppe traslare in un’immagine universale e perfetta.
Tale eccezionalmente precoce maturità avrebbe portato Raffaello nei 12 anni successivi, e sino alla morte sopraggiunta al suo 37° anno di vita, a misurarsi nell’Urbe con tutti i campi della creazione artistica; a progettare, gestire e sovrintendere la realizzazione di cantieri artistici di eccezionale importanza e complessità da parte di una formidabile equipe di giovani talenti, che com’è noto allineava, tra gli altri, Giulio Romano, Perin del Vaga, Polidoro da Caravaggio, Giovanni da Udine: tranne quest’ultimo, una banda di ragazzi. Un grado simile di precocità, compiutamente concretizzata su tutti i parametri dell’espressione artistica, di fatto ha pochissimi reali termini di paragone in qualsiasi campo della tradizione artistica occidentale: anzi direi che in un grado comparabile me ne viene in mente uno solo, il Mozart delle grandi opere della sua ultima stagione creativa, che compose la Nozze di Figaro e il Don Giovanni a cavallo dei 30 anni: le opere più perfette della tradizione musicale occidentale, nelle quali egli seppe infondere (con l’ausilio dell’abate Da Ponte che gli fornì i libretti) un livello sorprendente di comprensione della natura umana, traducendolo in un non meno perfetto tessuto drammaturgico e musicale.
UNIVERSALITÀ DI RAFFAELLO
Nella Scuola di Atene si trovano esaltati i valori che congiungevano il rinascimento all’antichità classica, delineando le linee portanti dell’età moderna. La sintesi formidabile operata da Raffello in questa celebrazione e dichiarazione di fede nel pensiero, nel dialogo, nella trasmissione e crescita della conoscenza, fonde tradizione speculativa e téchne, cristianesimo e classicità, teologia e filosofia, arte e scienza. Il messaggio della Scuola di Atene ci appare più che mai vivo oggi che la cittadella della razionalità appare minacciata dalla diffusione sempre più incontrollata di pseudo-conoscenze, o perfino dallo scherno e dalla negazione esplicita dei valori del sapere, della cultura e della scienza, costitutivi della nostra civiltà.
Luca BORTOLOTTI Roma giugno 2020