di Marco VINETTI
“Che cos’è il genio?”
Un capolavoro cinematografico del grande regista italiano Mario Monicelli del 1975 (Amici miei, ndr.) lo definiva: “è fantasia, intuizione, precisione e capacità di esecuzione”.
Ed è nell’incipit di queste scarne ma penetranti parole composte, decontestualizzanti l’atto artistico di per se stesso, che intercetto la linea più sottile e demarcata per analizzare la storia e la creatività di un indiscusso (e non del tutto consacrato) talento cristallino dell’arte italiana ed internazionale del XX secolo.
Interpretare Giuseppe Spagnulo, raffinato e colto modellatore di essenza, nato nel cuore palpitante della ceramica pugliese (Grottaglie, Taranto 1936), è compito particolarmente arduo ma al tempo stesso stimolante ed entusiasmante. Necessario un prologo prima di accompagnare il lettore all’interpretazione biografica ed estetica di Spagnulo. L’arte è per sua natura quint’essenza della cultura, della libertà, del rispetto del pensiero e dell’essere umano. Ed è purtroppo a tratti malinconico rilevare la grandezza dei protagonisti assoluti che hanno elevato tale concetto, esclusivamente dopo la loro mesta e silenziosa dipartita terrena.
Giuseppe Spagnulo è oggi da considerarsi probabilmente come uno degli ultimi rappresentati di una generazione di artisti “eletti”, assiduo ricercatore di quel concetto di “essenza” capace di trascendere il tempo e lo spazio. Da Amedeo Modigliani ad Umberto Boccioni, da Costantin Bràncusi ad Alberto Giacometti, da Henry Moore ad Alexander Calder, dal Leoncillo Leonardi a Lucio Fontana. Ricercatori dell’essenza appunto. Spingendosi oltre la bidimensionalità della pittura nella sua funzione di finzione del reale, estendendosi e protendendosi verso la tangibilità concreta della materia come segno di assoluta e vivida realtà.
Spagnulo sin dalla prima metà degli anni ‘50 viaggerà mentalmente e fisicamente. Dalla sua amata Puglia, dopo la frequentazione del primo Liceo cittadino e non dopo aver cólto la scintilla della passione, domando i ritmici movimenti circolari del tornio nel laboratorio ceramico paterno, partirà alla volta di Faenza. Dalla capitale romagnola ed italiana della plasticità e della sua storia, Spagnulo affinerà il proprio talento e la sua immensa passione condividendo intenti con molti dei protagonisti del tempo, dal faentino Carlo Zauli al grande amico pesarese Giovan Battista Valentini. Nei primi anni ‘60 dalla Romagna e da Faenza migrerà in Lombardia, a Milano vivendo l’Accademia di Belle Arti di Brera, dove l’affinata artigianalità ed il tecnicismo ormai maturo nonostante l’ancor giovane età, si confronteranno con il pensiero sociale e filosofico dell’effervescenza del crocevia meneghino.
Lucio Fontana prima e Arnaldo Pomodoro poi modelleranno e fortificheranno ulteriormente lo spirito di Spagnulo, instradandolo verso una personalità autonoma ed innovativa per le correnti ed i maestri del proprio tempo. L’incontro successivo con Tancredi Parmeggiani prima e Piero Manzoni poi, caratterizzeranno la prima svolta mirata alla creazione di opere di maggiore impatto sociale e documentaristico. L’arte di Spagnulo vivrà dunque le prime tensioni informali, modificando progressivamente quella materia ceramica sulla quale porranno le proprie basi primigenie mai rinnegate o ripudiate. La ceramica diventerà metallo, l’argilla acciaio, l’ovattato ed intimo atelier un contesto urbano di interscambio comune.
Giuseppe Spagnulo non maturerà un percorso che la critica attenta ai dettagli semiotici potrebbe definire lineare. In senso lato l’evoluzione di un creativo vede per sommi capi un punto di partenza ed uno altrettanto di arrivo. Una sorta di percorso in discesa, che Spagnulo però percorrerà in senso inverso.
Dalla materia alla tecnica; dalla maturità documentaristica a quella di tensione sociale; dall’indole concettuale a quella informale. Spagnulo risalirà con umiltà e costanza la corrente, non curandosi delle tendenze e delle facili effervescenze che i luoghi ed i tempi accanto a lui gli andavano implicitamente proponendo. Un asceta austero ed imperturbabile, capace di rilevare in sé stesso le motivazioni e gli stimoli più alti nella più intima quotidianità.
L’estensione evolutiva della sua ricerca troverà negli anni ‘70 terreno fertile in alcune monumentali retrospettive internazionali di indiscutibile qualità e spessore (OCMA Newport Harbor Art Museum), considerando con più capace introspezione le ricerche d’oltreoceano, da Dan Flavin a Donald Judd sino a Robert Morris, superandole con la saggia leggerezza di chi saprà cogliere l’eccellenza da un’esperienza.
La decade degli anni ’80 vedrà Spagnulo sperimentare materiali ed esperienze, attraverso un perfezionismo lirico sotteso a ricercare l’equilibrio tra la mente e la mano, tra il pensiero e la sostanza. Come purtroppo per molti grandi protagonisti dell’evoluzione creativa del XX secolo anche per Spagnulo sarà calzante la locuzione latina “nemo profeta in patria”, tanto che negli anni ’90 l’Akademie Schloss Solitude di Stoccarda (l’Accademia di Belle Arti, ndr.) gli offrirà la cattedra di scultura.
Spagnulo troverà negli anni 2000 anche una parziale (non ancora a mio giudizio del tutto meritatamente consacrata dal grande pubblico) considerazione storica nel solco della tradizione peninsulare nel tramite della retrospettiva antologica al MIC (Museo internazionale della ceramica di Faenza) ed alla Fondazione Peggy Guggenheim di Venezia. Spagnulo scomparirà nella sua città natale nel giugno del 2016, continuando ancora oggi chissà, quel rapporto di creatività che ha ricercato e trovato nel suo passaggio terreno. Argilla refrattaria di Siena, mirette, sgrobie, spatole, stecche, nulla sanno concepire se non accompagnate dall’amorevole passione e dalla maestria di mani ispirate. La materia non si plasma autonomamente tra le mani, nulla nasce occasionalmente, nulla giunge per caso.
Occorre vivere giorno e notte accanto alla materia, sentirne il calore ed il significato, percepirne sentimenti spinti verso il perimetro di un rapporto non umano. Dal gres al ferro, dall’acciaio alla ceramica. Vivere costantemente in simbiosi con essa. Giuseppe Spagnulo ricercò nella sua esperienza questo intimo e personale rapporto, creando strutture autonome, prive di una paternità, in una sorta di rapporto genitoriale dove i figli succedono fisiologicamente ai padri. E riosservando molti dei suoi lavori giunti sino a noi oggi e raccolti intelligentemente in questa preziosa selezione, percepisco profondamente la loro autonomia nei confronti di una naturale collocazione cronologica nonché di una classificazione tanto cara oggi ad un criterio di definizione storico\artistico.
Questo nella sintesi credo possa fare di un artista un genio; essere immune alle mode, alle definizioni, alle classificazioni, alle innaturali e forzate etichettature. Superando il concetto di tempo, epoca, materiale, definizione. Perché le creature di Giuseppe Spagnulo oggi (creature, non sculture; definizione che non ho mai volontariamente sino ad ora utilizzato) vivono oltre il naturale concetto di paternità. Oggi dunque non viviamo un’esperienza espositiva accanto a “sculture” o “lavori” o ancor peggio a “pezzi”, ma percepiamo al contrario la totale autonomia espressiva di creazioni libere da un ricongiungimento paternale. Come il “David” è “David” e non Michelangelo, come un “Mobile” è un “Mobile” e non Calder, come un “Trabocchetto” è un “Trabocchetto” e non Melotti, come una “Sfera” è una “Sfera” e non Pomodoro. Un “Gres” è un “Gres”. E non (solo) Spagnulo. Questo è essere semplicemente geniali.
Marco VINETTI Brescia 2 maggio 2021