La sorpresa è dietro la testa. La vera origine della Natura morta. Un saggio di Massimo Pulini

di Massimo PULINI

Il frutto e la testa sul piatto

Riflessioni sulle premesse sacre della Natura Morta in Italia. Tra eterogenesi e occultamento

Se è abitudine applicare le categorie di un senso alle espressioni che si incontrano lungo un’altra via percettiva, si può considerare il genere pittorico della natura morta come il più silenzioso tra gli altri, quasi fosse legittimo rendere assoluta per un caso singolo quella muta proprietà che è insita in ogni dipinto.

Per analoga ovvietà a quel particolare racconto degli oggetti in posa, specie quand’essi si trovano sgravati dalla presenza umana, viene attribuita anche l’estrema condizione statica. L’assenza di moto e di suono convergono dunque nell’alfabeto visivo della natura morta che alle sue origini nasce minimale e quasi ascetico, per poi toccare, in un paio di decenni, vette di fasto e di lusso che sembrano tradire quella dimensione spirituale che ne aveva fatto muovere i primi passi.

In una certa misura le imbandigioni barocche che dispiegano, tra le colonne di un balcone o su un tavolo da giardino, le più ricche dispense di frutta e animali macellati, di dolci zuccherini e vini trasparenti, di vasellame, argenti e tappeti, tentano di togliere dalla nicchia del silenzio e dall’immobilità, quelle povere cose che solo poco tempo prima si trovavano poggiate sul semplice ripiano di una cella e costituivano il frugale pasto di una pittura a suo modo monastica.

La sensuale opulenza delle cucine di un nobile palazzo o la polverosa camera della musica, trasformata in un arsenale di barche e tendaggi damascati, sono varianti estreme di un genere che si generò dalla pura idea di posare un frutto sopra a un piatto, nella penombra di una stanza, nel castigo verticale di un muro e nel cieco orizzonte di una mensola.

Vorrei soffermarmi proprio sui caratteri della prima e nucleare stagione di questo genere, stagione italiana e, se vogliamo essere più precisi, lombarda, per riflettere intorno alla successione di fatti che hanno visto germinare, sul finire del XVI secolo, quella nuova strada di immagini dall’innesto con una diversa tradizione iconografica.

Da dove viene l’essenziale scandaglio degli oggetti, quella orazione sul frutto che, da offerta naturale, reca pretesto all’arte per narrare la sua attenzione a ciò che ci circonda e fors’anche a quel che abbiamo dentro noi?

Che la metafisica nasca dal pensiero sulle cose, speculando sulla loro condizione oggettuale, e che da quel decollo di idee possa prendere il passo ogni filosofia dell’esistenza lo aveva già compreso Aristotele, pur prescindendo da qualsiasi rappresentazione artistica, ma è quantomeno curioso che per divenire un postulato iconografico, quel che ora chiamiamo Natura morta, abbia dovuto attendere millenni.

Nel mondo dei segni umani le cose trovano dimora da subito, sin dalla lancia del cacciatore incisa nelle grotte, così si può dire del ritratto animale, vivo o morto che fosse, ma proprio come un enunciato filosofico, per essere tale, necessita di venir isolato dagli altri discorsi, quasi avesse bisogno di un silenzio attorno a sé, allo stesso modo la rappresentazione delle cose ha aspettato di avere silenzio e posa per costituirsi in una precisa formula, per conquistare l’autonomia necessaria.

Senza far uscire dal letargo nessun mosaico o encausto, senza scomodare nessuna spazialità giottesca o gaddiana[i], nessun fregio decorativo di scuola raffaellesca o cesta di panni ai piedi di un’Annunciazione, mi preme solo cercare le premesse più vicine, per cultura e filosofia, di quella severa tradizione di quadri autonomi che nella Milano spagnola trova radice e terreno per dare sviluppo a una variegata foresta di varianti che il Seicento declinerà, in tutta Europa, in forma di genere.

Ogni libro di testo ha già una risposta pronta a questo quesito: la laicità fiamminga, la debita distanza da Roma e dalle osservanze della Chiesa Cattolica, permise questa capziosa attenzione al dato naturale, nelle sue accezioni botaniche, paesaggistiche e progressivamente prese campo nel rettangolo pittorico fino a emarginare gli anacoreti di turno in anfratti quasi invisibili. I veri protagonisti delle tavole fiamminghe cinquecentesche non erano tanto San Girolamo o Sant’Antonio, ma il paesaggio e la natura, descritta fin nei minimi particolari, entro la quale veniva riservato, al tema sacro, uno spazio poco più che marginale.

Da quelle profusioni di minuzia ai vasi di fiori visitati da insetti e ai mercati debordanti di pesce e cacciagione il passo si intuisce breve e a suo modo coerente, ma resta fuori qualcosa da certi assunti rassicuranti.

Come nelle inchieste giudiziarie apparentemente più semplici l’assassino potrebbe rivelarsi un altro o quantomeno, il maggior indiziato, potrebbe non essere il solo responsabile dei fatti.

I quadri allora circolavano più veloci delle idee e, talora, anche delle merci, ma l’incipit italiano di questa pratica ha cadenze di altra natura e di altra poetica al punto da mettere in dubbio che sia figlio della già borghese laicità nordica, che ha indubbiamente permeato della sua essenza la modernità.

Anche la riconosciuta anima simbolica della natura morta italiana e spagnola di primo Seicento non trova le medesime risposte nella pista fiamminga, mentre si armonizza con l’affluente, di vena spirituale, che intendo rimarcare[ii].

Una decina di anni fa, nel predisporre le ricerche che portarono alla mostra dedicata all’iconografia di San Giovanni Battista, che prese per titolo “La croce, la testa e il piatto” e che venne allestita a Cesena nel 2010[iii], mi trovai a meditare e a discutere con Eleonora Frattarolo e Alessandro Giovanardi, su questioni relative a una specifica branca in cui si è diramata la vastissima rappresentazione di questo affascinante tema sacro.

Alla testa del Battista, dipinta sul piatto di Salomé, dopo che lo sgherro di Erode l’aveva tranciata di netto, dedicammo un’intera sezione dell’esposizione, installandola nella suggestiva sede della quattrocentesca Biblioteca Malatestiana (Foto 1).

1) Particolari dell’allestimento della mostra La croce la testa e il piatto, Cesena, Biblioteca Malatestiana, 2010.

 

 

Trentasei teste mozzate, alcune risalenti agli inizi del Cinquecento, trovarono spazio tra gli armadi della sala lignea e quell’immersivo memento mori risultò, per miracolo, molto più meditativo che macabro.

Le indagini, condivise e confrontate coi due amici storici, fecero emergere più di un filone aurifero, tra quelli incastonati nella figura del Battista, che è di certo il santo più ritratto e interpretato nella storia dell’arte cristiana. Da quell’esperienza Eleonora Frattarolo ha ricavato profondi scandagli sul rapporto tra corpo e cibo, sulla levatura eucaristica del martirio di Giovanni[iv], mentre Alessandro Giovanardi ha avuto modo di soffermarsi sulle origini delle icone del Battista, discettando sul crinale che sta tra chiesa d’Oriente e chiesa d’Occidente.

Le mie ricerche, partite da analoghe riflessioni sul ruolo eucaristico assunto da San Giovanni, dalla sua accesa venerazione, dagli attributi che lo identificano (alcuni dei quali sono condivisi con Cristo stesso), si sono poi spinte verso aspetti legati ai caratteri fisici del santo e verso una mutazione estetica nella sua rappresentazione che ha veicolato, nei secoli, le strette parentele tra le due figure di predicatori.

Intendo qui farne solo un breve cenno prima di spingermi verso il centro della questione.

Nelle immagini che lo raffigurano la costante presenza dell’agnello, che evoca la purezza del sacrificio, e la premonizione esemplificata dalla croce di canna fanno di Giovanni il Precursore per eccellenza, non solo un profeta che annuncia, ma un martire ante litteram, che morirà ancor prima di Cristo indicandone la strada.

La radicalità del suo pensiero e il coraggio nella denuncia fecero di lui una figura estrema e le icone che lo evocano riflettono questo aspetto enfatizzandolo fino a una dimensione mitica.

Mi è capitato di recente, a un convegno tenutosi al monastero di Fonte Avellana, di paragonare il Battista a un Che Guevara del cristianesimo, per sottolinearne, oltre alla componente irriducibile e sanguigna, anche l’aura di fascino rivoluzionario che ha sempre avvolto il “santo”[v].

Ma è soprattutto sul denso nucleo simbolico della Testa del Battista sul piatto che si concentra una singolare diramazione della ricerca, quasi una deviazione dismessa, della quale si era smarrita memoria.

2) Andrea Solario, Testa del Battista sul piatto, 1507, Parigi, Louvre.

Circa un secolo prima di quel che trattiamo, sul finire del Quattrocento, inizia a diffondersi questa iconografia autonoma che avrà ingente fortuna. La composizione è delle più essenziali: un fondo nero e un unico ripiano scabro, con al centro un piatto metallico sul quale è disposta, col profilo in diagonale, una testa virile mozzata. Null’altro, un condensato di intimità e di mesto dolore che sin dalle sue origini si accompagna tuttavia a un senso di sublimazione della reliquia in declinazione orafa; le chiome di riccioli e di barba e il metallo della stoviglia hanno prestano il fianco al cesello che, almeno dal dipinto di Andrea Solario databile al 1507 e ora conservato al Louvre (Foto 2), persisterà negli infiniti svolgimenti del tema. Ma è sulla semplice e fondamentale variante del piatto che diventa calice, fiorendo di uno stelo e prendendo comunemente il nome di alzatina, che si affaccia l’emblematico anello di congiunzione tra il tema del martirio e la successiva trasformazione in frutto, in quelle che ora noi intendiamo come le prime nature morte lombarde.

Anzi gli incunabuli di questa sacra e cruda icona presentano già la forma liturgica del calice sicché la condizione di variante va attribuita alle redazioni del soggetto che mostrano la testa su di un piatto basso (Foto 3), privo della colonna che lo eleva.

La forma a calice rimanda a un innalzamento verso il cielo e richiama a sé proprio la ricordata dimensione eucaristica al punto che la testa del protomartire, presentata in quel modo, evoca un’ostia consacrata, con tanto di aureola frontale, talvolta presente in certe versioni (Foto 4).

 

Non deve risultare eccessiva e tantomeno blasfema questa equiparazione simbolica, nella stessa Biblioteca Malatestiana di Cesena sono conservati codici del XV e XVI secolo che contengono miniature nelle quali tale parallelo tra piatto e calice, ma anche tra ostia di Cristo e testa del Battista sono presentati in forma specchiata[vi] (Foto 5).

Nel Corale A della biblioteca cesenate, come dice Giovanardi

“…è soprattutto l’elemento sacrificale che unisce il precursore al Cristo, ponendo sullo stesso piano la testa del Battezzatore e il corpo allegorico dell’Agnus Redentore, in un legame sancito, sulla cornice di fondo, dal Corpus Christi, deposto su calice e patena come sul piatto è adagiato il capo dell’ultimo degli antichi profeti, assorbito nel sonno dei giusti …”[vii].

Se nella tradizione liturgica italiana questo gemellaggio tra Gesù e Giovanni si è sfumato negli ultimi secoli, non così deve dirsi per la penisola iberica nella cui tradizione, questo beneficio eucaristico del culto di San Giovanni Battista, si è saldamente conservato.

Vale la pena ricordare che Milano, dal 1535 e per tutto il Seicento, è stata in mano al regno spagnolo e fu tappa di viaggio per quegli ordini religiosi cavallereschi che avevano nel Battista il loro protettore. Questa è anche la ragione della vastissima produzione milanese di tali immagini utili alla devozione viaggiante.

Da piccole tavole lignee d’un altarolo portatile si passerà alle telette secentesche, ma quello stigma di severità compositiva e di concentrazione simbolica farà radice nella cultura lombarda trasmettendosi direttamente ad altre tematiche.

Credo fermamente che le prime opere raffiguranti frutta e oggetti in posa, dei milanesi Ambrogio Figino (1553-1608) (Foto 6), Fede Galizia (1578?-1630) (Foto 7) e del cremonese Panfilo Nuvolone (1581-1651) (Foto 8), abbiano avuto precisa ispirazione nel tema della Testa del Battista.

Già Eleonora Frattarolo scrisse un illuminante viatico:

… E quando la testa di Giovanni agli inizi del Cinquecento viene adagiata su di una alzatina e nel centro di una mensa, nell’intervallo sacro che ormai la separa dal mondo, prende forma il modello originario per una particolare messa in posa di frutti e fiori che andranno a nutrire il genere della natura silente, detta poi Natura morta”[viii]

Anche questa specifica risultanza dagli studi effettuati in occasione della mostra cesenate merita di essere isolata per venir meglio comunicata e compresa.

In questi anni di riflessione sull’argomento mi sono spinto a pensare che le succose pesche, le pere, le mele e l’uva che formarono le prime colline di frutta, sopra al piatto o sopra l’alzatina, siano andate a ricoprire precedenti teste di San Giovanni, sostituendo al soggetto macabro una ben più gradevole visione.

Forse dopo la fortuna ottenuta da quell’iniziale, e magari non troppo gradito incarico, qualche pittore lombardo decise di compiere composizioni analoghe che sin dall’origine prendevano a modello dei frutti poggiati su un ripiano.

Sia questa la sequenza approssimativa degli esordi o una simile che non preveda la copertura parziale di un dipinto più antico poco importa, quel che conta è che quello mancante era un anello sacro, che proiettò la propria influenza simbolica per un ampio raggio di tempo, fino alla Fiscella di Caravaggio e molto oltre a quella.

Ma c’è materia per soffermarsi ancora un po’ sulla mia azzardata ipotesi.

Io stesso dubito sulla possibilità di ritrovare il singolo quadro ridipinto che potrebbe aver dato il via al nuovo genere, cosa diversa è invece per un famoso precedente che non a caso riguarda gli stessi identici temi e, io credo, la medesima trasfigurazione iconografica.

Mi riferisco alle due redazioni, considerate autografe, di un tema che Tiziano Vecellio immaginò volendo raffigurare una Salomé sollevante il piatto con la testa del Battista e che già la Frattarolo pose all’attenzione nel suo saggio[ix].

La versione del Prado[x] (Foto 9) mostra ancora il capo del santo reclinato sul vassoio, mentre in quella di Berlino[xi] (Foto 10) la giovane donna, le cui fattezze sono tradizionalmente ritenute della figlia del grande pittore, regge un vassoio contenente frutta e fiori: sono distinguibili dell’uva, un cedro, una rosa e un carciofo.

 

La mia opinione, riguardo alla redazione berlinese, è che il fastoso contenuto visibile nel piatto di portata sia stato dipinto successivamente, al fine di occultare un’altra testa mozzata che vi era dipinta in origine. Va in ogni caso riconosciuto che lo stile di quel brano pittorico risulta sostanzialmente coerente con quello del Tiziano maturo e non escluderei la mano di Palma il Giovane o di un altro allievo dell’ultima bottega chiamato dal proprietario a intervenire sul quadro del maestro, ma solo una radiografia sul dipinto tedesco potrebbe sciogliere l’enigma che sto ponendo.

A confermare comunque una tendenza a celare l’orrore del capo umano decollato, ci soccorre anche una copia antica che giunge a segretare la testa di Giovanni entro una sorta di scrigno reliquiario[xii] (Foto 11).

11) Bottega di Tiziano, Giovane reggente uno scrigno (ridipintura di una Salomé con la testa del Battista), Milano, collezione privata
12) Anonimo, Giovane reggente uno scrigno (cosiddetta Lavinia Vecellio), incisione.

Questa singolare derivazione di bottega della Salomé tizianesca che ebbe anche una serie di riproduzioni incisorie (Foto 12), si avventura in una macchinosa sovrapposizione che va ad aggregarsi al vassoio, creando un’innaturale accozzaglia che può essere spiegata solo immaginando un postumo intervento di ridipintura.

Il ricco contenitore, posticcio, è del tutto simile a quello che, nella satanica estasi di Erodiade, dovuta a Francesco Del Cairo[xiii] (Foto 13), fungerà da prezioso sarcofago entro il quale la perfida regina di Macheronte intendeva porre il tremendo regalo ricevuto dalle mani della figlia Salomé.

 

13) Francesco Del Cairo, Erodiade con la testa del Battista, Vicenza, Musei Civici.

La singolare fortuna dell’invenzione di Tiziano, sia nella veste di Salomé che nella rielaborazione come Giovane servitrice reggente un piatto di frutta e fiori, esemplifica quanto le due diramazioni iconografiche, quella sacra e quella profana, avrebbero avuto forza autonoma per affrontare due differenti strade della rappresentazione, al punto che la redazione tedesca diventa un emblematico antefatto di quelle nature morte barocche che includeranno anche figure di servitori, di domestiche e paggetti (Foto 14).

14) Pier Francesco Cittadini, Servitrice con piatto di frutta, Milano, collezione privata.

Questi ripetuti casi di manipolazione di dipinti raffiguranti la Testa decollata del Battista ci fanno comprendere come opere nate per una destinazione privata, ma con un tema sacro così forte, difficile ed estremo, fossero soggetti a repentine mutazioni di gusto e gradimento, magari da una generazione a un’altra nella medesima famiglia che li possedeva.

Tornando al nucleo originario di questo testo, i caratteri severi e mistici coi quali nasce in Lombardia quel genere pittorico che mette in ferma oggetti e frutta nel silenzio e nella penombra di un angolo di stanza, sembrano dissolversi rapidamente, per lasciare il posto al proliferare di una infinità di varianti e diramazioni che mutano di senso, attraversando le tante regioni pittoriche della penisola. Quel rigore d’ombra e di meditazione sulle cose si manterrà invece nitido nella pittura dell’altra penisola, quella iberica.

In Spagna, quantomeno lungo tutto il Seicento, da Sánchez Cotán (Foto 15)

15) Juan Sanchéz Cotàn, Natura morta con mela cotogna, cavolo e melone, San Diego, Museo

a Francisco Zurbarán (Foto  16),

16) Francisco de Zurbarán, Tazza, rosa e piatto d’argento, Londra, National Gallery.

da Juan Fernandez El Labrador (Foto 17)

17) Juan Fernandez el Labrador, Vaso di fiori, Madrid, Prado.

a Juan van der Hamen (Foto 18), ma fino al Luis Melendez (Foto 19), resterà un legame di natura spirituale e metafisico, ben evidente nella struttura compositiva e nell’atmosfera rarefatta che accompagna la superba prima stagione della Natura morta iberica.

19) Luis Melendez, Albicocche e ciliegie, Madrid, Prado.
18) Juan Van der Hamen, Vaso di fiori, carciofo e rose, Madrid, Prado.

 

 

 

 

 

 

Se si rivelasse credibile questa mia ipotesi, che immagina la nascita del nuovo genere attraverso l’occultamento di un’iconografia tanto sacra quanto orrifica, potremmo parlare di una fortunatissima eterogenesi dei fini.

Nella sua riuscita la trasfigurazione permette di conservare, nei primi decenni di vita, un silenzio e una immobilità che, ai nostri occhi, continuano a renderne ieratico il contenuto.

Massimo PULINI    Bologna  settembre 2019

NOTE

[i] Ogni volta che si deve iniziare un discorso sulla cosiddetta “Natura morta” si finisce per scomodare precedenti lontanissimi e, in fondo, poco utili a quel racconto emancipato da altri debiti, che parte sul finire Cinquecento nella Lombardia spagnola. Il saggio di Longhi dedicato a Giotto spazioso o i ‘ripostigli’ di Taddeo Gaddi in Santa Croce appartengono a un’altra narrazione nella rappresentazione degli oggetti e dello spazio che li circonda, in questa sede mi occupo, per altro in modo succinto e aforistico, della Natura morta autonoma e che costituisce genere alfabetico, non certo degli innumerevoli esempi di brani di “Natura” entro scene di più vasto respiro.
[ii] Uso il termine ‘rimarcare’ e non ‘proporre’, perché altri hanno già accennato, seppur in modo sfuggente, a una parentela tra i fatti di cui parlo. Entro una mostra allestita nel 1968 dalla Galleria Lorenzelli di Bergamo, curata da Ferdinando Bologna e dalla stessa Galleria Lorenzelli, intitolata Natura in posa. Aspetti dell’antica natura morta italiana, venne inserito una tavoletta raffigurante La testa del Battista sul piatto (attribuita a Antonio Solario), e venne ro sfiorate alcune considerazioni che avanzo in questo testo: “La presenza di un simile dipinto nella mostra attuale è giustificata dal fatto che in esso la metafora con cui la testa del santo è offerta sola, su di una coppa preziosa, quasi fosse uno strano frutto, sembra partecipare del processo d’isolamento degli oggetti, tipico del genere pittorico che chiamiamo Natura morta….” dal catalogo della mostra di Bergamo, settembre – ottobre 1968, scheda della tavola n. 35.
[iii] Massimo Pulini, La Croce la testa e il piatto. Storie di San Giovanni Battista. Dipinti dalla collezione Koelliker, catalogo della mostra di Cesena (a cura di), 2010, edizioni Clac-Artexplora.
[iv] Nel saggio La parola mozzata di Eleonora Frattarolo, inserito entro il catalogo della mostra cesenate e ricordato alla nota precedente (M. Pulini, Op. cit, 2010, pp. 186-193), viene affrontato il tema delle due redazioni del dipinto di Tiziano di cui parlo in questo saggio, anche se non viene avanzata l’ipotesi di una ridipintura dell’opera berlinese (vedi i prossimi paragrafi del presente saggio).
[v] Essendo morto prima di Cristo, tecnicamente non dovrebbe definirsi “santo”, ma le eccezioni abbondano nella devozione al Battista. Giovanni è l’unico ad avere due giorni a lui dedicati nel calendario liturgico Cattolico, il 24 giugno giorno della nascita e il 29 agosto giorno della morte.
[vi] Mi riferisco ad esempio a un codice di primo secolo XVI (classificato come Corale A, carta 1 recto) della Biblioteca Malatestiana di Cesena, nel quale la grande pagina miniata reca nella bordatura decorata, alla sinistra un tondo con la Testa del Battista poggiata su di un’alzatina, alla destra un tondo con l’Agnello e in basso un altro tondo con Calice, patena e ostia del SSmo. Sacramento, stabilendo un diretto rapporto eucaristico tra le tre raffigurazioni.
[vii] Vedi il saggio La voce dipinta di Alessandro Giovanardi in M. Pulini, Op. Cit, 2010, pp. 30-36, nel quale si considera la decorazione miniata di un codice del primo secolo XVI (classificato come Corale A, carta 1 recto) della Biblioteca Malatestiana di Cesena, nella cui grande prima pagina miniata reca nella bordatura dipinta, alla sinistra un tondo con la Testa del Battista poggiata su di un’alzatina, alla destra un tondo con l’Agnello e in basso un altro tondo con Calice, patena e ostia del SSmo. Sacramento, stabilendo un diretto rapporto eucaristico tra le tre raffigurazioni.
[viii] E. Frattarolo in M. Pulini, Op. cit, 2010, p. 193.
[ix] Idem.
[x] Madrid, Prado, olio su tela, cm. 87 x 80. A parte il Tietze, che la riteneva opera di bottega, tutti gli altri studiosi di Tiziano hanno concordato nel ritenerla autografa.
[xi] Berlino, Gemäldegalerie, Staatliche Museen, olio su tela, cm. 102 x 82. Nella figura sono tradizionalmente riconosciuti i lineamenti di Lavinia Vecellio, figlia di Tiziano.
[xii] La più antica memoria di questa redazione la diceva conservata in Gran Bretagna nella raccolta Johnstone, più recentemente venne acquisita da un collezionista milanese dopo un passaggio in asta a Londra il12 maggio 1976.
La posizione dello scrigno risulta incongrua anche a una prima occhiata, si posiziona sopra un vassoio che diviene inutile ed è evidente che la posa della mano, che in origine reggeva vassoio e testa, deborda ora dalla sua necessità compositiva, rivelando platealmente la cancellatura del pezzo di vassoio che la giustificava.
[xiii] Francesco Del Cairo dipinse questa Erodiade dei Musei Civici di Vicenza, immaginando una sorta di estasi satanica, ma inserendovi anche una implicita testimonianza della conservazione del capo mozzato come reliquia. In questo e in altre varianti dello stesso tema il pittore lombardo mette in bella evidenza uno scrigno, con tanto di chiave, che sembra storicizzare la reliquia del santo, la cui originalità è contesa fino ad ogni tra la chiesa romana di San Silvestro in Capite, quella bulgara di Sozopol a sud del Mar Nero e da Amiens nella cattedrale di Notre-Dame.