di Francesco PETRUCCI
L’Appia antica, la più celebrata arteria stradale dell’Impero romano, nota non a caso sin dall’antichità come Regina Viarum, è stata opportunamente candidata nel gennaio 2023 dal Ministero della Cultura a patrimonio mondiale dell’Unesco.
Uno dei manufatti più pittoreschi del suo percorso nel territorio dell’antica Aricia – oggi Ariccia -, era il cosiddetto Torrione Chigi, ubicato nella vasta tenuta chigiana di Vallericcia presso la strada consolare, all’imbocco della via di Mezzo, non lontano dalla Porta urbica di accesso al foro aricino volgarmente detta “Basto del Diavolo”.
Immortalato in vedute di Carlo Labruzzi (1786), Friedrich Wilhem Gmelin (1795 ca.), Henry Voogd (1818), Friedrich Pelle (1830 ca.), Gustav Cons (1862), il torrione è ricordato anche in foto d’epoca di Giuseppe Primoli, Thomas Ashby e Giuseppe Tomassetti. Fortemente lesionato, imbracato alla meno peggio all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso, è improvvisamente crollato nel 1976 (figg. 1-7).[1]
Il primo a descriverlo era stato nel 1796 lo storico ariccino Emmanuele Lucidi, che lo collocava nel cosiddetto “orto de’ Torrioni”, definendolo “fabbrica di figura rotonda, che credesi fosse un picciol tempio, e che ora serve ad uso di stalla”, concludendo stranamente: “non dimostra però molta antichità”.
Antonio Nibby nel 1854 parla di “grande monumento di forma rotonda di ignota destinazione”, mentre nel 1856 lo definisce “sepolcro rotondo detto il Torrione”, pubblicando una grande incisione con una veduta contemporanea di Ariccia e una ricostruzione ideale della città romana, ove lo colloca sulla destra in basso (fig. 8).
Successivamente la critica lo ha concordemente identificato in un sepolcro, ma senza particolari approfondimenti, fino alla più circostanziata analisi tecnico-costruttiva di Mario Lilli nel suo volume del 2002 sulla topografia della città latino-romana.
L’edificio era costruito sopra un sepolcro in opera laterizia a pianta circolare di età imperiale, una sorta di mausoleo il cui ingresso originario era forse sull’Appia – come sembrava peraltro descrivere un disegno di Friedrich Wilhem Gmelin (fig. 9) -, sul quale era stato elevato nel medioevo un corpo cilindrico utilizzato come deposito agricolo.
Dopo il crollo del 1976, per la necessità di rimuovere i materiali che in parte ingombravano il tratto iniziale della provinciale Vallericcia-Ginestreto (via di Mezzo o “stradone di Vallericcia”), presso cui il rudere insisteva, principale comunicazione tra la parte settentrionale del territorio comunale e quella a valle verso la via Nettunense, furono effettuati interventi di liberazione dell’area.
In occasione degli scavi, eseguiti a cura della Soprintendenza Archeologica del Lazio, ebbe luogo uno straordinario ritrovamento: fu infatti rinvenuto all’interno della tomba un sarcofago in pietra privo di decorazioni con una salma in buono stato conservativo avvolta in un sudario intessuto con fili d’oro e due anellini; singolarmente sotto al sarcofago fu ritrovata una spada con impugnatura in avorio, completa del suo fodero anch’esso in avorio. Il materiale venne trasportato subito dopo nei depositi di Villa Pamphilj a Roma.[2]
Purtroppo la fretta della ricognizione, dettata anche dall’urgenza della rimozione delle macerie e dall’eliminazione del pericolo per ulteriori crolli, portò alla perdita di dati importanti sulle varie fasi di vita del sepolcro e, di conseguenza, sulla datazione del prezioso reperto che fu oggetto di un primo intervento conservativo nel 1978.
Dopo alterne travagliate vicissitudini e spostamenti se ne persero le tracce, fino a quando nel 1994 la spada venne “riscoperta” in uno dei magazzini della Soprintendenza a Tivoli da Giuseppina Ghini, all’epoca funzionario archeologo di zona, su impulso del professor Renato Lefevre, illustre storico e studioso di romanistica, profondo conoscitore di storia ariccina. È probabile invece che il sarcofago sia rimasto nell’area del Torrione, rinterrato dopo lo scavo.
Un secondo importante restauro sulla spada e il suo fodero è stato effettuato nel 2009 a cura dell’Istituto Centrale per il Restauro (ICR), sotto la direzione di Giovanna De Palma.
A seguito di una proficua collaborazione tra la direzione di Palazzo Chigi in Ariccia e la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’Area Metropolitana di Roma e la Provincia di Rieti, in particolare con l’attuale funzionario di zona Gabriella Serio, nel settembre 2022 è stata avviata l’istruttoria finalizzata a dare la giusta valorizzazione al reperto ed esporlo al pubblico nel territorio di provenienza presso il museo della città. Per l’occasione il Comune di Ariccia ha finanziato la realizzazione di una teca climatizzata su indicazione dell’ICR, onde poterne garantire la giusta conservazione.
Il procedimento si è concluso con un Decreto della Direzione Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di autorizzazione allo spostamento del reperto a fini espositivi (rep. n. 1512 del 22 novembre 2022) e successivo provvedimento del Soprintendente arch. Lisa Lambusier, fissando la cerimonia ufficiale di consegna al 18 maggio 2023. L’evento, tenuto nella Sala Maestra di Palazzo Chigi, ha attirato molto pubblico e suscitato un entusiasmo generale (figg. 10, 11).
Allo stato attuale delle conoscenze non si è approdati a una datazione precisa del monumento funerario e del prezioso reperto ivi deposto, genericamente riferibile ad età imperiale, anche a seguito della manomissione del sito.
Un’ipotesi suggestiva è quella di Renato Lefevre secondo il quale poteva trattarsi del sepolcro di un attore in un mausoleo di famiglia, per la presenza di maschere teatrali scolpite sull’elsa della spada (figg. 12, 13).
Lo studioso ricordava a riguardo che la vicina Lanuvium aveva dato i natali a due illustri personalità del mondo teatrale romano: il commediografo Luscio Lanuvino, vissuto nel II sec. a. C., e il famoso attore Quinto Roscio Comoedo, difeso in una causa civile nientemeno che da Cicerone (76 a. C.).
Il notevole pregio artistico e la straordinaria importanza della spada onoraria, avente un carattere celebrativo e non militare, un vero unicum nel mondo antico, e del prezioso manto, lungo circa due metri, tessuto in seta damascata color porpora con bordatura in oro (rimangono purtroppo pochi frammenti), farebbero tuttavia pensare ad un personaggio di alto lignaggio.
Ricordo a riguardo che proprio presso il torrione, accatastati sul bordo dello stradone di Vallericcia, c’erano alcuni blocchi in marmo lunense ritrovati in occasione dello scavo per una conduttura idrica nel 1882, noti in loco come “pietre bianche”, costituenti i resti di un monumento a Tiberio Latinio Pandusa. Alcune di queste grosse pietre sono visibili vicino al manufatto in un dipinto di Friedrich Pelle del 1830 circa e in una foto di Oscar Savio del 1950 circa (figg. 14, 15).[3]
Secondo Rodolfo Lanciani poteva trattarsi di un monumento commemorativo di ipotetici lavori di restauro dell’imponente viadotto della via Appia risalente all’età dei Gracchi (123 a.C. circa), detto Sostruzione, una delle più grandiose opere ingegneristiche dell’intero percorso della strada consolare, che favoriva l’ascesa verso Colle Pardo, celebrato in incisioni di Piranesi, Labruzzi, Canina e altri (fig. 16).[4]
Tiberio Latinio Pandusa infatti figura nell’iscrizione apposta su un lastrone di marmo del monumento nella sua carica di curator viarum. A parere dell’archeologo rumeno Florescu poteva essere una “specie di arco” posto sull’Appia all’inizio del viadotto, ipotesi sviluppata in un grafico dal sottoscritto (1995) e ripresa da Maria Cristina Vincenti (fig. 17).
Pandusa era stato una personalità di primo piano di età tiberiana, ricordato da Tacito nel 19 d. C. come Propretore della Mesia (Annales, II, 65-66), una vasta regione dell’impero romano tra Bulgaria e Serbia.[5]
La sua alta dignità di quadrumviro e l’appartenenza alla tribù aricina Horatia – come specificò Giuseppe Tomassetti -, indicate sempre nell’iscrizione, non esclude tuttavia si tratti dei resti di un mausoleo adibito a scopo funerario eretto nella patria del magistrato. In effetti la collocazione di una memoria dedicata ai presunti restauri del viadotto a poco meno di duecento metri da questo, allineato peraltro con varie tombe romane, non sembra pertinente.
I blocchi superstiti, ritrovati nel 1995 per impulso di chi scrive – all’epoca direttore dell’ufficio tecnico comunale –, dopo che erano stati seppelliti sotto cumuli di terra e detriti per la rimozione dei materiali del crollo del torrione nel 1976, sono stati montati in anastilosi nel 1997 nel Parco Chigi (fig. 18).[6]
Viene legittimo chiedersi se l’uomo della spada non potesse essere un esponente della famiglia Pandusa o lo stesso magistrato. In effetti il Canina aveva proposto una ricostruzione del mausoleo su cui era stato eretto il torrione, collocando la parte circolare sopra un alto basamento a pianta quadrata rivestito di lastre di pietra, pensando sicuramente ad alcuni blocchi all’epoca visibili presso il monumento.[7]
Ma soltanto una campagna di scavo condotta secondo criteri scientifici potrà fornire una risposta al quesito sull’identità del misterioso uomo della spada, dato che il tracciato dell’Appia Antica, che passa a pochi metri dal manufatto, si trova a circa cinque metri sotto l’attuale livello stradale. Lo documenta bene una rara foto scattata nel 1980 da Marco Antonini (fig. 19)
L’esposizione dell’opera a Palazzo Chigi, nella Sala dei Cani, offre oggi l’occasione per riprendere le ricerche, approfondendo lo studio su un manufatto unico nel suo genere e sul suo contesto di provenienza lungo la via Appia antica.
È intenzione dell’amministrazione comunale promuovere infatti una pubblicazione sulla spada di Ariccia, raccogliendo le relazioni della presentazione del 18 maggio, tenute da Lisa Lambusier, Gabriella Serio, Giuseppina Ghini e Giovanna De Palma.
Francesco PETRUCCI Ariccia 27 Maggio 2023
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