di Nica FIORI
Ventotene: l’esilio di Giulia
Le bellezze naturalistiche della nostra Italia si abbinano non di rado a resti archeologici che si prestano a rievocare momenti storici più o meno conosciuti. La pubblicazione di un post facebook sulla cosiddetta “Villa di Giulia” a Ventotene (provincia di Latina), da parte della Soprintendenza Archeologia Belle arti e Paesaggio per le province di Frosinone, Latina, Rieti, diretta da Paola Refice, mi ha colpito non solo per le fotografie, che in parte ripropongo in questo mio breve articolo, ma soprattutto per la triste storia di Giulia, l’unica figlia di Augusto.
Se arrivare in quest’isola, ancora negli Anni ’50 del secolo scorso, era un’impresa, immaginiamoci come doveva essere molto prima, quando era disabitata e riservata unicamente ad accogliere esiliati. Meno di tre chilometri di lunghezza per un massimo di ottocentocinquanta metri di larghezza. Unica bellezza il mare, che appare azzurro e cristallino, e il panorama che si ammira dalle modeste alture, con le basse sagome delle altre isole Pontine, tutte di origine vulcanica, e in particolare lo scuro isolotto di Santo Stefano, coronato in alto dalla tetra presenza dell’ex-penitenziario.
Certo Pandataria, oggi Ventotene, doveva apparire una ben triste prigione a chi era abituato alla grandezza di Roma: un’isola inospitale, battuta dal vento, riarsa dal sole e dal mare.
Di proprietà dell’imperatore, come le altre isole Pontine, fu utilizzata più volte come esilio per membri della casa imperiale. A tale scopo Augusto, che nel 2 a.C. inaugurò la consuetudine relegandovi la figlia Giulia, fece costruire una grande villa e un porto che ancora oggi possiamo ammirare. Tra gli ospiti qui confinati si ricordano pure Agrippina maggiore, figlia di Giulia e moglie di Germanico, e Ottavia, moglie ripudiata di Nerone.
Devastata dai saraceni e rimasta per secoli disabitata, la ventosa isola fu ripopolata verso la metà del XVIII secolo da abitanti di Ischia, fatti qui emigrare dal governo borbonico, e nel periodo fascista divenne nuovamente colonia di confino.
Il destino odierno di Ventotene è, per fortuna, ormai da tempo votato al turismo: un turismo marino, ma con una forte connotazione archeologica. Ancor prima di sbarcarvi, il primo impatto del visitatore con l’isola è con la sua antichità.
Il porto romano si presenta sostanzialmente integro, intagliato com’è nel banco tufaceo, con una fuga di arcate erose dal vento e dall’acqua, corrispondenti ad altrettanti magazzini scavati all’interno. Il bacino, profondo in media tre metri, è completamente circondato dalla roccia; aggrappato alla terraferma, sembra cercare protezione contro la forza dei marosi che per secoli lo hanno colpito.
Accanto al porto, subito dopo il bacino di alaggio, lo scuro banco roccioso si protende in mare in forme che mostrano, già a prima vista, l’intervento dell’uomo.
Nella sua parte centrale, sotto l’attuale faro, vi sono i resti di una peschiera. Gli impianti ittici erano costituiti da più vasche raggruppate, tutte scavate nella roccia. Erano dotate sul fondo di canali per il ricambio dell’acqua con una sorta di chiusura a saracinesca per impedire la fuoriuscita dei pesci.
Tra le altre opere romane, di grande interesse sono le cisterne. Del tutto priva di sorgenti, Pandataria poneva il problema dell’approvvigionamento idrico delle persone che l’abitavano. Per questo fu realizzato un ricco impianto di serbatoi e canali per la raccolta e la distribuzione dell’acqua piovana. Sapientemente restaurate e illuminate, con il loro rivestimento in cocciopesto, le cisterne hanno un fascino particolare, sotterraneo e aereo al tempo stesso. La visita più emozionante la riserva quella detta dei Carcerati, ricca di testimonianze umane lasciate in diverse epoche.
Non molto rimane, purtroppo, della grande villa imperiale che abbracciava diversi ettari, tutti esposti ad oriente, per meglio godere dei raggi mattutini del sole.
Ma c’è da credere che questo accorgimento non alleviasse la solitudine di Giulia, che vi abitò – guardata a vista – per cinque anni e le lasciò il suo nome. Villa Giulia, già distrutta in parte dagli agenti atmosferici e dalla salsedine, fu depredata nel Settecento da alcuni antiquari amici dei Borboni (tra cui lord William Hamilton) e fu poi per troppo tempo utilizzata come cava per materiale da costruzione. Oggi Punta Eolo, il promontorio su cui sorge, e il cui nome sembra alludere ai venti che continuamente lo flagellano, è il punto di forza di un parco archeologico che intende esaltare la grandiosità dell’architettura di diversi vani abitativi e del settore termale.
L’impressione che si ha dalla visita è che il costruttore ha sempre cercato la fusione tra ambiente naturale e strutture architettoniche (per lo più in opera reticolata). L’effetto scenografico, infatti, non è stato ottenuto con l’uso di costruzioni artificiali, ma sempre nel rispetto dei pianori, degli avvallamenti e dei declivi del terreno.
Come si legge nel post della Soprintendenza,
“La villa, che si estendeva per oltre 300 metri di lunghezza adattandosi al modellato naturale della roccia, era formata da una triplice serie di blocchi costruttivi, funzionalmente interrelati l’uno all’altro. Il primo blocco era quello “di servizio”, più strettamene connesso alle attività produttive della villa. Il secondo blocco, dotato di camminamenti, porticati e giardini, fungeva da scenografico raccordo tra il primo settore e il terzo blocco, quello più propriamente residenziale. Era questa la parte più scenografica dell’intero complesso e ospitava anche ninfei, terrazze degradanti sul mare e impianti termali. La prima fase costruttiva, in ragione del particolare tipo di tecnica costruttiva impiegata, è databile alla fine del I sec. a.C., ma la villa ebbe anche numerosi rifacimenti successivi”.
La Soprintentendenza e il Comune di Ventotene stanno studiando un nuovo percorso pedonale per rendere fruibile anche un tratto della bassa scogliera di tufo ai piedi dell’area archeologica, così da percepire maggiormente la suggestione del paesaggio marino.
Merita una visita anche il locale museo civico che conserva molte anfore ripescate nel mare, frammenti di affreschi recuperati dalla villa, parti di pavimentazione in opus sectile, lastre decorative in terracotta, porzioni degli elementi in stucco che decoravano le volte degli ambienti principali. Si è conservato in parte anche qualche elemento statuario in marmo, tra cui una bella testa di Augusto. Nessuna immagine rimane invece di Giulia. Si dice, infatti, che l’imperatore avesse fatto distruggere le sculture che la raffiguravano, in una sorta di damnatio memoriae (rimane, per fortuna, il rilievo del lato sud dell’Ara Pacis, dove è inserita nella famiglia imperiale accanto al figlio Gaio Cesare, che si sostiene alle vesti del padre Agrippa).
Una ben triste fine quella di Giulia, se si pensa che per nascita, bellezza e intelligenza sembrava destinata a un grande avvenire. Proprio il padre la punì con il confino, in applicazione alla Lex Iulia sugli adulterii, facendola passare alla storia come una donna dissoluta.
Con la mentalità di oggi potremmo pensare che questo avvenne, probabilmente, perché Giulia era incapace di venire a patti con una mentalità basata sull’ipocrisia. La sua sembra la tragedia, sempre attuale, della difficoltà di conciliare il bisogno di libertà con gli obblighi del dovere, ma anche quella del desiderio inappagato di amore di una donna costretta a subire i giochi del potere del padre. Figlia unica di Ottaviano e di Scribonia (la sua seconda moglie, da cui divorziò nel 39 a.C., lo stesso giorno della nascita della bambina, per sposare poco dopo Livia Drusilla), Giulia venne fatta sposare via via a coloro che Ottaviano, divenuto Augusto nel 27 a.C., designava a reggere l’impero dopo la sua morte: dapprima al cugino Claudio Marcello, che morì prematuramente dopo tre anni, poi al maturo Vipsanio Agrippa (il luogotenente di Augusto, celebre per la vittoria ad Azio contro Marco Antonio e Cleopatra nel 31 a.C.), da cui ebbe cinque figli, infine a Tiberio, che fu costretto a divorziare dalla prima moglie che amava e detestò quindi quella nuova. Fu durante quest’ultimo matrimonio che Giulia venne accusata di condurre una vita licenziosa e relegata nell’isola.
In questa scelta ci fu probabilmente lo zampino di Livia, terza moglie di Augusto e madre di Tiberio. Probabilmente la donna aveva raccolto le prove dell’adulterio di Giulia con Iullo Antonio (figlio di Marco Antonio) e le aveva portate ad Augusto minacciandolo che, se non avesse fatto il proprio dovere, avrebbe preteso un processo pubblico.
Può anche darsi che Augusto, attraverso la rovina della figlia, volesse ostacolare l’ascesa di Tiberio, che in realtà non amava. La prima cosa che fece, infatti, fu quella di sciogliere per decreto il matrimonio di Giulia, annullando così ogni suo legame con Tiberio (che comunque alla sua morte gli succedette come imperatore).
C’è da credere che Giulia la sua punizione se la fosse andata a cercare. Sarebbe stato molto facile per lei evitare gli scandali assumendo un atteggiamento di convenienza, come del resto facevano in molti, compreso Augusto, che aveva moltissime amanti ma le teneva nascoste. La donna preferì frequentare apertamente l’uomo che aveva scelto (oltretutto sospettato di un complotto contro Augusto), provocare l’ira paterna, non accettare alcun compromesso. E il padre, sempre attento alle apparenze, non glielo perdonò.
Svetonio riferisce che Augusto “sopportò la morte dei suoi molto più coraggiosamente delle loro azioni disonoranti”. In particolare “quando si trattò del malcostume della figlia ne informò il senato per mezzo di una nota letta in sua assenza da un questore, e, per la vergogna, si astenne a lungo dal trovarsi in mezzo alla gente; anzi, meditò di farla uccidere”.
Cassio Dione ci fa sapere che Giulia, privata dei suoi figli, fu accompagnata nel suo esilio dalla madre Scribonia. Gli anni passarono tristi per le due donne, senza alcun contatto col mondo esterno. Unica vista il mare. Nessuna delicatezza culinaria era loro concessa, né tantomeno il vino.
Un giorno, finalmente, arrivò a Giulia l’ordine di lasciare l’isola. Quasi sicuramente la donna si illuse di poter rientrare a Roma. Ma non fu così. Fu relegata a Reggio Calabria, dove nel 14 d.C. finì i suoi giorni.
Tacito scrive che si lasciò morire, poco dopo la scomparsa del padre. Venuto meno l’oggetto del suo odio, e insieme del suo amore di figlia, Giulia non aveva più nessuna ragione per vivere.
Nica FIORI Roma 10 maggio 2020