La verità sul bianco di zinco. Breve storia dell’errore di datazione relativo all’inizio del suo uso in campo artistico.

di Francesca BECONCINI

Il Cardinal Del Monte, Platonismo,  Dioniso 1

Introduzione alla rassegna delle fonti sul pigmento bianco costituito da ossido di zinco.

L’origine di questo studio è stata totalmente casuale, o meglio, non ipotizzabile secondo il modello probabilistico. L’occasione è stata il ritrovamento, da parte di un amico, Marcello Ambrosi, di un dipinto, un Bacco, identico per dimensioni ed iconografia, all’esemplare custodito agli Uffizi. (Alto Ticino, correva l’anno 1988).

Da allora, lo studio e la vita di quest’opera sono stati travagliati da varie e disparate vicissitudini di cui, ora, ne ricordo solamente due, una passata ed una attuale.

La prima è stata la composizione minerale dei pigmenti che era, apparentemente, in contraddizione con le altre evidenze materiche e stilistiche. Il problema, come sopra accennato, è stato la presenza di ossido di zinco nel pigmento bianco, ossia di una sostanza tabù per un dipinto di epoca anteriore al XIX sec.. La negativa stigmatizzazione del bianco di zinco risale, invero, agli inizi del secolo scorso.

La seconda è la difficoltà a trovare una struttura idonea ad ospitarlo benché noti critici e storici d’arte, che hanno visionato e studiato il dipinto, lo riportino al topos accademico-artistico delle repliche di Caravaggio. Sono noti solo due esemplari del “Bacco”. Non solo, pochissime persone hanno visto l’opera.

E’ stato consolante leggere le parole di Pierre Rosenberg, nell’intervista rilasciata al direttore di About Art on line, Pietro di Loreto, nel marzo u.s.. Il grande studioso riafferma la centralità, nello studio dell’opera d’arte, della visione diretta della stessa:

“Il principio da cui partire secondo me è che innanzitutto occorre porsi davanti allopera darte; nessuna descrizione, per quanto accurata, nessuna narrazione può fornire la sensazione che dà essere davanti alloriginale ed osservarlo a lungo”.

A proposito di Caravaggio, prosegue Rosenberg, sono importanti le esposizioni:

“soprattutto laddove è possibile mettere a confronto opere che magari si contendono lautografia di un autore”,

ovvero, devo aggiungere, viste le perizie sul Bacco svizzero, il carattere archetipo di un dipinto rispetto al gemello ed alla produzione successiva dell’artista.

Mi auguro che in un futuro prossimo questo importante ritrovamento, perché tale rimane da qualsiasi prospettiva si voglia guardarlo, possa essere disponibile alla visione di tutti gli studiosi e del grande pubblico.  L’opera è di proprietà di soggetti privati ed in minima parte dello Stato Italiano.

La ricerca, qui presentata, non è certo esaustiva; si pone come invito a valutare con attenzione i risultati delle analisi sulla materia pittorica che, se posseggono indubbio valore scientifico per il mezzo diagnostico, non sempre sono corroborati “a monte” da una storia della scienza corretta.

Certo, non sempre può essere facile distinguere un dipinto antico da uno moderno, ma proprio per questo motivo quando un’opera ha tutte le caratteristiche per essere antica, la diligenza nell’esaminarla e la prudenza di giudizio dovrebbero essere d’obbligo. L’individuazione del bianco di zinco nei dipinti ha consentito certamente di tracciare tanti falsi, ma non deve essere tuttavia motivo di acritica, sistematica cassazione anche di opere autentiche. La ricerca non è facile tenuto conto che la memoria dell’impiego dell’ossido di zinco è insabbiata da quasi cent’anni e che quindi le poche opere autentiche con tale pigmento, presente nell’impasto del bianco, sono state sempre bocciate ovvero, quando escluderne l’antichità era impossibile, conservate come un autentico segreto alchemico, un po’ scandaloso.

Nell’impiego più frequente di tale ossido, ossia come schiarente dei colori o del dryer, la sua presenza è stata attribuita ora al restauro, se individuato nello strato più superficiale oppure ad impurità contenute in altri pigmenti di origine minerale, se rilevato negli strati pittorici sottostanti. Ciò che risulta evidente da questa ricerca è che in determinati ambienti, dove più vivo era lo sperimentalismo spagirico e alchemico, l’ossido di zinco aveva numerosi utilizzi, anche quello artistico.

“La chimica è incontestabilmente la scienza dei fatti, mentre l’’alchimia è quella delle cause…
(Questa) .. tenta di penetrare il misterioso dinamismo che presiede alle loro trasformazioni (dei corpi naturali).. Ci permette d’intravedere Dio sotto le tenebre della sostanza” (Fulcanelli, Le Dimore Filosofali ) [1]

Nel 1945 si tenne ad Amsterdam un illustre simposio di scienziati e storici dell’arte per giudicare l’autenticità di un dipinto attribuito a Veermer ma in realtà eseguito da Han Von Meegeren. L’opera, “La lavanda dei piedi”, era sicuramente l’opera meno riuscita del celebre falsario, tuttavia fu riconosciuta autentica dagli esperti; solo il dottor Johan Quirijn Van Regteren-Althena (Amsterdam, 1899 – 1980), docente di storia dell’arte all’Università di Amsterdam dubitò dell’autenticità. Han Von Meegeren non fu mai scoperto ma si auto-accusò successivamente per evitare di essere imputato di collaborazionismo con i nazisti.

Il chimico che faceva parte del collegio dei periti di Amsterdam era il Dr Angenitus Martin de Wild [2]. Questi non ebbe nulla da eccepire sull’attribuzione a Vermeer perché i pigmenti usati dal falsario erano conformi a quelli usati nel ‘600. De Wild, infatti, era un esperto nel riconoscimento microchimico dei colori, in particolare di quelli usati dai maestri fiamminghi. Nel 1929 aveva pubblicato, con il collaboratore Scheffer, un trattato scientifico sui pigmenti usati dai maestri fiamminghi dal 1400 al 1800 [3]. L’opera celebrava, con esagerato ottimismo, il ricorso alla chimica come mezzo fondamentale e dirimente per stabilire l’antichità dei dipinti; il volume era corredato altresì da una carta cronologica dei pigmenti.

L’apparizione sulla scena del tempo del bianco di zinco era fissata al 1780; di conseguenza le opere contenenti il suddetto pigmento venivano datate come appartenenti al XIX secolo. All’inizio del secolo successivo sempre più spesso il mondo dell’arte chiedeva aiuto alla scienza per essere assistito nella determinazione dell’autenticità dei dipinti. L’Europa dalla fine dell’Ottocento era stata scossa da ripetute ondate di scandali legati al commercio di opere false, la fiducia nel mercato dell’arte era crollata, il reato aveva assunto diffusione grottesca.

Dal “Corriere della Sera” 07/11/1931 – Parigi-

Contro il falso l’avventurosa crociata del Louvre:

“Non è da stupirsi se questa di difendersi dai falsi in arte è diventata una vera e propria preoccupazione che ossessiona anche le folle. Gli scandali si succedono. Ondate sempre più frequenti di panico investono i musei, le collezioni, il mondo degli amatori, determinando anche qui, nel campo artistico, una violenta crisi di fiducia.. al Louvre è istituita la Commissione di ricerche scientifiche; utilizza U.V., RX e foto a luce radente proposta l’anno prima da Fernando Perez (ambasciatore argentino in Italia)”.

In realtà il primo uso documentato del bianco di zinco risale al I millennio a.C., benché, in seguito, se ne fosse stato fatto uso sporadico fino alla metà del XIX sec. Come Spiega Carlo Linzi [4], restauratore ottocentesco, gli antichi schiarivano i colori con il bianco di zinco o con quello di piombo ma quest’ultimo era di molto preferito al primo.

Non è possibile pensare ad un errore del Linzi per due ordini di ragioni. La prima è il fatto che esistono prove documentali, ossia ricette antiche relative alla produzione del pigmento a base di bianco di zinco; la seconda si riferisce alla figura professionale del Linzi che, a dispetto dei numerosi riconoscimenti -la sua opera era ancora in stampa nel 1984- avrebbe dovuto invece attestarsi sulla misera incapacità di non riconoscere un dipinto realizzato pochi decenni prima da uno eseguito nel 1500.

Martin De Wild, circa quarant’anni dopo, nella richiesta veste di collaboratore di giustizia al fine di arginare la truffa dei falsi, colloca l’inizio dell’uso dell’ossido di zinco in pittura nel 1780 . Tuttavia, il suo rigore scientifico gli impone di riportare nell’opera citata che la preparazione di 36 dipinti olandesi e fiamminghi, datati tra il 1430 ed il 1816, è costituita da creta bianca e bianco di piombo o bianco di zinco. L’impasse è superato grazie all’onnipotenza del “caso”. Il paragrafo, dedicato da De Wild al bianco di zinco, inizia infatti con queste parole:

“Sebbene certamente non si possa escludere che, nell’uso dello zinco come metallo, piccole quantità di ossido di zinco fossero ottenute accidentalmente, il primo tentativo di usare l’ossido come pigmento per sostituire il bianco di piombo ebbe luogo alla fine del 18° secolo”.

Il chimico mette così al riparo collezionisti e musei dall’invasione di migliaia di falsi allo zinco ma è costretto a sacrificare verità scientifica e storica. Se è infatti condivisibile l’ultima frase del periodo, e ciò che nessuno fino al 1780 aveva pensato di eliminare il bianco di piombo dalla tavolozza dei pittori, quell’avverbio “accidentalmente” tradisce tutto l’imbarazzo di De Wild. Questi non poteva certo ignorare che, nell’estrazione dello zinco metallico dai suoi minerali, l’ottenimento dell’ossido è una fase necessaria della lavorazione, non accidentale. Solfuri e carbonati di zinco sono portati prima alla forma di ossido mediante calcinazione o arrostimento e quindi ridotti a zinco metallico con il carbone [5]. Un’imprecisione voluta, dettata dall’esigenza di far rientrare l’allarme sociale per gli scandali dei falsi. Per una scelta di realpolitik gli albori, fine XVIII sec., della produzione industriale dello zinco sono fatti coincidere con l’inizio dell’uso del pigmento.

In realtà l’uso del pigmento si diffonde circa sessant’anni dopo. Nel 1780 a Digione (Guyton de Morveau, Bernard Courtois) si tento’ di produrre bianco di zinco (precipitato aciculare) sì da sostituirlo completamente al bianco di piombo, la cui fabbricazione era causa di avvelenamento degli operai addetti alla manifattura; ebbene l’ossido di zinco era venduto a 8 franchi la libbra, quando il bianco di piombo costava un quarto di detta somma. Winsor & Newton commerciarono bianco di zinco come bianco cinese nel 1834 per la prima volta. La produzione poté aumentare con l’introduzione del forno a muffola e la diminuzione dei costi e quindi l’interesse per l’uso dell’ossido di zinco in pittura fu riacceso solo nel 1842 –Rouquette-, nel 1844 –MathieuLeclaire e Barruel nel 1849 che ripresero la produzione[6].  A ciò si aggiunge l’avversione dei pittori per tale pigmento tanto che sino alla prima metà del ‘900 gli artisti usavano i pigmenti bianchi in ragione delle necessità della resa cromatica: l’ossido di zinco ha un grado maggiore di bianchezza e minima tendenza ad ingiallire, ma ha meno potere coprente del bianco di piombo a causa della maggior quantità di olio necessaria al primo per lo stesso volume di pigmento. I pittori per tale motivo hanno sempre caricato il bianco di zinco con altri bianchi nell’impasto a corpo.

La presenza di ZnO nell’impasto, che si traduce in una maggiore secchezza e durezza della materia del dipinto, riscontrabile già a distanza di pochi anni dalla composizione dello stesso, è altresì resa più evidente a causa del processo chimico di saponificazione degli acidi grassi di alcuni olii indotto da ZnO. I fiamminghi aggiungevano infatti il solfato di zinco nell’olio come dryer.

Nel corso del 1800 si svilupparono due processi produttivi:

“Il primo (processo francese) consisteva nell’ossidazione controllata di vapori di Zn a 300°C e dava un pigmento molto puro; il secondo (processo americano) consisteva nel bruciare minerali di Zn con carbone e dava un prodotto meno puro. Le particelle di ZnO possono presentare morfologie diverse, cristalli di tipo aciculare isolati o geminati o in combinazione tetraedrica, formatisi nel più lento processo francese, o particelle di tipo nodulare, di aspetto sferico, comuni nella più rapida produzione americana [7]. (figure  1 e 2)
Figg 1 – 2

Il processo francese è quello con il forno a muffola in cui il materiale da trattare è separato dal combustibile ed utilizza zinco metallico per produrre l’ossido. I vapori che si producono sono raffreddati con aria nelle tramogge; nel processo americano i minerali di zinco o lo zinco metallico sono fusi con il carbone, i vapori sono quindi ossidati (analogo è il procedimento spagirico[8]). In questo processo, benché lo ZnO non sia objectionable per le impurità, è ben possibile migliorarlo con una nuova sublimazione.

Soltanto alla fine di questo secolo, dopo le faticose e incerte iniziative industriali degli Inglesi, risalenti al 1730, si sperimentavano i primi aggregati a muffole presso la vetreria di Wessola (Slesia) nel 1798, e solo nel 1837 la grande società belga della Vieille Montagne, tuttora operante, perveniva ai primi impianti con quel tipo di forno a più ordini di muffole sovrapposte, detti belga-slesiani oppure renani, che tuttora domina nella grande metallurgia dello zinco.

Ciò avveniva in Europa. Negli Stati Uniti: 1852, l’azienda Sussex Zinc cambia il suo nome in New Jersey Zinc, e sviluppa il primo procedimento, commercialmente praticabile, per fondere minerali al fine di ottenere ossido di zinco.

Nel XIX sec., in Italia c’erano solo poche rivendite di pigmenti: Poggi, Roma, 1825; Giosi, Vasto-Napoli, 1830; Calcaterra, Milano, 1837; Colorificio Toscano, Firenze, seconda metà del secolo (Leonardo Borgioli).

Sporadicamente usato nel passato ed abusato nel mercato truffaldino da falsari grami dalle tecniche grossolane, il bianco di zinco è bandito progressivamente dall’arte antica dall’inizio del’900. Da pigmento desueto ma conosciuto in antichità (Marcucci 1815, Linzi 1893), in meno di mezzo secolo la manualistica dei pigmenti pittorici cataloga l’ossido di zinco prima come una curiosità scientifica (Previati, 1905) per escluderlo infine dalla storia dell’arte antica (De Wild, 1929).

Le fonti rinvenute, relative alla diffusione dell’ossido di zinco nel campo artistico, abbracciano un arco temporale vasto. Le prime citazioni risalgono agli Assiri che già ne distinguevano la purezza in base al punto in cui l’ossido si depositava nella fornace (fig. 3): sul fondo, sulle pareti, in alto. Era utilizzato, oltre all’impiego medico, per opacizzare il vetro o per colorarlo se era utilizzato l’ossido del fondo ricco d’impurità[9].

Fig 3 Purezza

L’insieme delle credenze relative alla Terra Madre che tiene in gestazione i minerali ed i metalli, il convincimento dell’immanenza di una legge necessaria ed ineludibile, Heimarméne, e soprattutto l’esperienza dell’uomo arcaico impegnato nel lavoro della miniera, della fusione e della forgia, sono all’origine dell’alchimia[10].

Gli assiri, consideravano la fornace di zinco un microcosmo. La parte più alta di essa, dove si depositava l’ossido di zinco più puro, era la sede degli dei intermediari fra cielo e terra.

Il fuoco è il principale agente di trasformazione, durante il suo utilizzo l’uomo arcaico, faber, assume una funzione demiurgica, plasmatrice, con ciò impegna i suoi atti verso i minerali ed il fuoco ma si appella alla dimensione ineffabile. Gli atti si sacralizzano, i fabbri divengono sacerdoti, il lavoro al forno liturgia.

Quando disporrai il piano del forno per minerali (kobu), tu cercherai un giorno favorevole in un mese favorevole, e allora disporrai il piano del forno. Dopo che il forno è stato orientato e tu ti sei messo all’opera, poni gli embrioni divini nella cappa del forno: un altro, un estraneo non deve entrare, ne alcuno impuro deve camminare davanti a loro, tu devi offrire le libagioni dovute davanti a loro, il giorno in cui tu depositerai il minerale nel forno, tu farai un sacrificio davanti all’embrione; tu poserai un incensiere con incenso di pino; tu verserai della birra kurunno davanti a loro. Tu accenderai un fuoco sotto il forno e depositerai il minerale nel forno. Gli uomini che condurrai per aver cura del forno si devono purificare e dopo tu li stabilirai per aver cura del forno. La legna che tu brucerai sotto il forno sarà dello storace (sarbatu), spesso, in grossi ceppi, senza scorza, che non sono stati esposti in fascine, ma conservati sotto una coperta di pelle, tagliati nel mese di Ah. Questa legna sarà messa nel tuo forno.” (Biblioteca di Assurbanipal)[11] (fig. 4)
Fig. 4

Nel corso dei secoli, dei millenni, l’impiego dell’ossido e del metallo di zinco ha goduto senza dubbio maggior diffusione nella metallurgia. E’ presente nelle ricette della Mappae Clavicula V-X sec., nel nel De Diversis Artibus seu Diversarium Artium Schedula di Teofilo, XII sec., per le leghe di oricalco -ottone- e princisbecco, anche in sostituzione dei metalli più preziosi. Il materiale, per le sue auree affinità, si rivela altresì un utile ingrediente degli inchiostri nella crisografia a basso costo, le lettere auree dei manoscritti (X-XI sec. Abbazia di Bobbio); Omelie di S.Gregorio (codice 148, Archivio Capitolare Vercelli) e per la colorazione dei mosaici (VIII sec. Mobillon-Pellizari)[12]. Con il nome Cathmia, Cadmia era indicato sia l’ossido di zinco che i suoi minerali, o una sua lega; alla fine del Medioevo si distinse più precisamente la cadmia artificiale, propriamente ossido di zinco, da quella naturale: il minerale di zinco in natura[13]. (fig. 5)

Fig. 5 Minerali Zn

Con il rientro in Europa della sapienza antica greca, mediorientale ed araba, i frammassoni del Medioevo costruirono cattedrali, capolavori dell’architettura gotica, o meglio argotica secondo Fulcanelli[14]. La luminescenza e lo splendore inimitabili delle vetrate gotiche (”..Inestimabilem vitri decorem et operi preziosissimi varietate..Teofilo XII) colorate spesso con  materiali tratti dal laboratorio spagirico-alchemico, calano in questi monumenti dello spirito il simulacro della luce/fuoco di Hermes (figg. 6-7).

Figura 6, Parigi, Grand Chappelle
Figura 7, Tours, Cathédrale
“La nostra pietra ha ancora due virtù sorprendenti: la prima nei confronti del vetro, al quale essa dà, internamente, ogni sorta di colori, come ai vetri della Sainte Chapelle a Parigi, ed alle vetrate delle chiese di Saint Gatien e di Saint Martin nella città di Tours[15]

La ricetta qui riportata, contenente ZnO, è relativa alla preparazione di un verde “olivina”; risale ad un manoscritto spagirico-bizantino del 1300 che fornisce istruzioni per imitare lo splendore delle gemme nella colorazione dei vetri. Canseliet, allievo di Fulcanelli, in un’intervista del 1980[16], precisa che gli artigiani delle vetrate conoscevano senza dubbio il cadmio, la cui scoperta è invece fissata agli inizi del XIX sec. ad opera di Friedrich Strohmeyer il quale lo notò tra le impurità della calamina (carbonato di zinco) in una fornace di zinco[17].

Del Monte, è noto, era appassionato anche di arte vetraria ed alimentava questo interesse scambiando indicazioni ed accorgimenti tecnici con la fonderia medicea e gli artigiani di Venezia[18]. La fabbricazione del vetro e l’arte del vasaio sono spesso richiamate metaforicamente dai testi alchemici per analogie di procedimento con la Grande Opera Alchemica e con i rispettivi risultati. A Del Monte più che il colore o l’opalescenza (Tutia-ZnO) dei vetri, interessava la loro trasparenza e purezza non solo per fabbricare lenti ottiche ma per i richiami al Vas  honorabilis, appellativo della Vergine ed insieme contenente e contenuto, che deve essere di “Vetro chiaro, trasparente, senza bolle[19] (fig. 8)

Fig 8 Raimondo Lullo, Opere, pagina di titolo, tomo 1, in Canseliet, L’Alchimia spiegata sui suoi testi classici, Mediterranee, Roma, 1996

Arnaldo da Villanova (XIII), presente nella collezione dei ritratti di alchimisti, posseduta da Del Monte, non esita ad affermare che “Certamente, chi sa fare il vetro” è in grado di ottenere la misteriosa acqua viva dei filosofi.

In conclusione – chiosa Paolo Lucarelli-  questo vaso misterioso è mercurio, o acqua viva, di cui si è già tanto parlato. E’ di natura, o di terra, quando è nella sua forma grezza. Poi diventa dell’arte quando è estratto, o fabbricato, dalla terra, come si estrae il vetro dalle ceneri silicee. A questo punto contiene in sé l’oro immaturo dei Filosofi, perciò è verde [20].

Sempre appartenenti all’alveo ermetico spagirico sono le ricette, contenenti ZnO, per tingere le porcellane come si è rinvenuto nel ricettario di Theodore di Mayerne, o in Cipriano Piccolpasso. Il primo, medico ugonotto presso le corti di Enrico IV e Giacomo I, era assai attivo nel movimento paracelsiano di rinnovamento ideologico e medico in Europa [21]. Piccolpasso, famoso per i suoi Tre Libri sull’Arte del Vasaio, lascia preziosi consigli agli artigiani delle due dimensioni. Per quel che interessa ora, leggiamo una ricetta per il zallulino in cui è indicata anche la Tuzia e vediamo un’immagine alchemica che, come ha sapientemente evidenziato Fulcanelli[22], si riferisce al processo con cui trattare vaso e composto (figura 9)

Fig. 9 Cipriano Piccolpasso, Tre Libri sull’Arte del Vasaio

Nella scultura in legno policroma, si ricordano la Virgin del Valle (1200) e Cristo del Perdón (1500) che contengono bianco di zinco in quantità medie non in tracce, come rilevato dagli studi spettroscopici condotti da studiosi spagnoli [23].

Al XIV e XV sec. appartengono le ricette della preparazione del bianco di zinco, rubricate nel Liber de coloribus con il nome tuzia, tucia, tutia di origine araba, mediorientale (Fondo Palatino BNF). Pare, comunque, che l’uso esclusivo del bianco di zinco negli incarnati e nei bianchi sia una caratteristica obsoleta tanto in epoche precedenti la rivoluzione industriale quanto in quelle successive, quando l’uso del pigmento a base di ZnO è aumentato in modo esponenziale. Tale pigmento infatti, non possedendo lo stesso potere coprente dei bianchi di piombo, è stato quasi sempre caricato con altri bianchi nella stesura pittorica a corpo. Negli ultimi due secoli ciò è avvenuto prevalentemente con bianchi di bario e titanio, in passato è stato trovato caricato con bianchi a base di arsenico, piombo, calcio, bario (lapis solaris o fosforo di Bologna)[24].

Il Manoscritto Veneziano[25] ci tramanda due ricette con la tuzia, scritte in un idioma composto da dialetto italiano del nord, latino, inglese; in quella relativa al bianco “ Ad album, the best that have sawsi raccomanda la miscela di ossidi di arsenico, zinco e piombo. Nel Bacco l’impasto è di gesso o carbonato di calcio, ossido di zinco e bario. Combinato con carbonato di calcio costituisce, come sopra detto, la preparazione in alcuni dipinti fiamminghi. Per quanto riguarda gli strati preparatori, particolare attenzione andrebbe prestata a quelli dei fondi oro, soprattutto nordici o di contaminazione nordica per la proprietà dello zinco di far risaltare i metalli nobili; ivi lo zinco potrebbe essere rilevato tanto nell’impasto, quanto localizzato  nella mestica in certi punti sottostanti la doratura e quindi per ampie porzioni del dipinto.

Il ricorso ad un impasto di bianchi, tra cui quello di zinco, è comunque decisamente raro e volto probabilmente ad accentuare la brillantezza del dipinto o parte di esso. La tutia, come aveva correttamente rilevato Linzi, è soprattutto rinvenibile in piccole quantità quale additivo per chiarificare altri colori (Giallo, Fondo Palatino, Ricettario Medici; Rosso, Manoscritto Veneziano; Blu, Jehan Le Begue; Cremisi, Marcucci).

 Per una “terra ricca in zinco”, utilizzata  da Perugino, Beato Angelico, Raffaello, Lorenzo Costa, Piero di Cosimo, Savoldo, Lotto, Moroni, Cavagna, Carpaccio, Tiziano si richiama il saggio di Moioli/Saccaroni [26]. Sorge, comunque, spontaneo e consequenziale il dubbio che almeno una parte di quella “terra ricca in zinco” sia attribuibile, in realtà, alla pratica di schiarire i colori d’impasto con il bianco di zinco in modo conforme alle ricette citate ed a una prassi constatata anche dal Linzi, ovvero la ragione della sua presenza potrebbe essere ricondotta alla tecnica di aggiungerlo nel medium per renderlo più limpido ed essiccativo, oppure per rendere più luminosi una doratura o un colore tendente all’oro.

Le fonti antiche sull’ossido di zinco appartengono per lo più all’ambito metallurgico e spagirico-alchemico.

I pigmenti contenenti tuzia più antichi, dopo quelli assiri, sono descritti nei papiri di Leida e Stoccolma, le cui ricette rimangono pressoché identiche per circa un millenio; sono quelli simil-aurei, utilizzati per la crisografia, le pitture dorate, i mosaici; nel Basso Medioevo  troviamo la tuzia nella colorazione di vetri, terrecotte, legno e tele; come componente per la base delle dorature su qualsiasi supporto e come essiccativo dell’olio il Manoscritto di Strasburgo suggerisce l’utilizzo di vitriolo di zinco (solfato). Eastlake[27] riporta che un dipinto su tavola di Van Eycke, posto al sole ad asciugare si spezzò per il calore e che questo incidente, accaduto anche ad altri artisti, così come il fastidio di attendere l’asciugatura delle opere in un clima umido avesse indotto il pittore a cercare di rendere più siccativa la vernice ordinariamente utilizzata. Il dryer principale che utilizzò per vernice ed olii è il solfato di zinco (white copperas), “un materiale comune in Germania  e che fu certamente usato nelle Fiandre per questo scopo[28]. Il vitriol era un termine che indicava i solfati in spagiria, mentre nella sua accezione alchemica è un acrostico del noto apoftegma: Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultam Lapidem, gli alchimisti francesi anagrammano vitryol in l’or y vit, vi vive l’oro (Lucarelli)[29].

La sopravvivenza della conoscenza della tuzia e del vetriolo bianco è assicurata dal suo successo imperituro nella produzione di leghe e pigmenti di scarso valore ma simili all’oro. Le pratiche artigianali, artistiche e alchemiche degli ordini monastici e degli artigiani, in cui frammenti di sapere tecnico sulla preparazione di leghe, colori, vetri, si mescolano e sovrappongono ad istruzioni alchemiche, ne hanno garantito trasmissione e ricordo. In Occidente, priva di una filosofia precedente e legata ad un’operatività materiale, l’Opera Alchemica viene associata ad una particolare lavoro, quella della trasmutazione metallica mentre l’ossido di zinco, rame e stagno, suppliscono ai fallimenti nella confezione della pietra trasmutatoria, alimentando le contraffazione dei metalli preziosi.

La maggior parte delle ricette reperite sono del XIV e XV sec., epoca di massima diffusione delle pratiche spagirico-alchemiche che erano declinate con fantasia da molte arti: dai vasai agli speziali, dai metallurghi ai tintori, dai vetrai ai pittori, da santi e da imbroglioni.

Dal 1500 l’Ermetismo inizia a perdere richiamo tra i più , l’opinione muta, anche i suoi sostenitori, defatigati dai ripetuti fallimenti nel tentativo di ottenere la pietra trasmutatoria, abbandonano l’alchimia. La Sacra Arte, immutabile nei principi e nelle operazioni, riacquista carattere segreto ed elitario seguendo il suo andamento carsico; solo in pochi circoli neoplatonici si studia e si pratica la Grande Arte.

E’ fuori di dubbio che Ferdinando de’ Medici ed il Cardinal Del Monte conoscessero e utilizzassero l’ossido di zinco per le più svariate produzioni (figura 10) e che l’estrazione di questo fosse una forte allegoria del potere del Fuoco: la nascita di leggeri fiocchi nivei dalla cadmia, alchemicamente sinonimo di materia prima dell’opera che nella sfalerite presenta tonalità più o meno brune, scure. Volatile come l’Argentum vivum, il Mercurio dei filosofi, la tutia è stata descritta dagli alchimisti di ogni tempo.

Fig. 10

Del Monte, circostanza notoria, possedeva i ritratti di illustri alchimisti e proto-scienziati: il leggendario Ermete Trismegisto, Jabir ibn Hayyan, Ruggero Bacone, Arnaldo da Villanova, Raimondo Lullo, Paracelso, Libavio, Alberto Magno, insomma si fregiava di modelli culturali che costituivano la Summa delle conoscenze e della sapienza tradizionali così come dello sperimentalismo empirico. I mentori del Cardinal del Monte, ad eccezione del leggendario Ermete, avevano praticato teorie ermetiche, pratica alchemica ed indagini neo-empiriste, scientifiche/protoscientifiche. E’ una deduzione di ovvietà elementare ritenere che il nostro Cardinale conoscesse anche studi ed esperimenti sull’ossido di zinco, utilizzato in ambiti disparati ab antiquo, e ben descritto dalle sue autorevoli fonti.

Tali esperimenti, coniugati con le ricerche sulle qualità della luce tanto fisiche che metafisiche, trovavano talvolta realizzazione anche artistica. L’impiego in una stesura pittorica di quei minerali, sali e metalli, catalogati ed allineati sugli scaffali dei laboratorio alchemici e naturalistici (figura 11) poteva consentire d’infondere evidenza reale ad un simbolo ermetico, velato e disvelato dall’immagine mitologica.

Fig 11 Francesco Calzolari XVI sec, (Zymoglyphic Museum)

Bacco, doveva non solo esprimere concetti rilevanti per la Prisca Theologia ma anche infondere una suggestione profonda sul potere trasmutatorio della luce.

Più è astratta la verità che tu intendi insegnare e più devi sedurre i sensi perché si sentano attratti da lei” (Nietzesche).

La seduzione dei sensi, l’eros che è risvegliato dalla bellezza e mette le ali all’anima, è un tema costante nell’alveo medio e neoplatonico in cui i filosofi riprendono concetti cosmogonici, legati alla figura di Eros ed originatesi nella mitologia greco-orfica, così come speculazioni pitagoriche, gnostiche e cristiane relative all’amore nostalgico  per un elisio perduto.

Eros è il Dioniso polimorfo dell’epiclesi orfica: Protogonos, ovvero Eros, Evo-Aion, Fanete-luce[30], ed ancora Preteuritmo, primo ritmo buono che dà inizio alla danza ritmata delle stelle, Erikepaios – datore di vita. E’ il Signore della semplicità assoluta e del molteplice, Uno-Tutto.

Fig 12
Fig 13
Fig 14
Fig 15
Fig 16
Fig 17
Fig 18

Francesca BECONCINI   5 Maggio 2024

NOTE

[1] pag. 70, Mediterranee, 2002
[2] http://www.igiornielenotti.it/la-storia-di-han-van-meegeren-e-dei-falsi-vermeer-quarta-parte-e-ultima-parte/
[3] The Scientific examination of the pictures, Bell & Sons , London, 1929
[4]“Tecnica della pittura e dei colori ad olio”, L’Arte del dipingere ad olio secondo Raffaello, Tiziano, Giorgione, Tintoretto, 1893- Hoepli, 1984.
[5] Ugualmente De Wild non poteva non conoscere il Manoscritto di Strasburgo del XV sec. che consiglia di mescolare vetriolo di zinco (solfato) nella preparazione dei supporti per i fondi oro per esaltarne lo splendore e di aggiungere lo stesso nell’olio come dryer.
[6] H.Kuhn, Artists’ Pigments, R.L.Feller Editor, 1986
[7] Marcella Guiso https://docplayer.it/17785789-Ass-chimici-per-un-ora-appunti-prof-ssa-marcella-guiso.html
[8]  “Il” metodo per ottenerlo è di fondere del metallo di zinco in un crogiolo posto sopra dei carboni accesi, nel mentre lo zinco si fonde, viene ad infiammarsi per cui il metallo ossidandosi si attacca alle pareti del crogiolo in fiocchi lanuginosi bianchi…Lorenzo Marcucci, “Saggio analitico chimico sopra i colori minerali e mezzi per procurarsi gli artefatti, gli smalti e le vernici“ 1815
[9] R. Campbell Thompson, A Dictionary of Assyrian Chemistry and Geology, Oxford, 1936
La fornace di ottone nel simbolismo assiro rappresenta il microcosmo: la parte più alta del Cielo è LULUDANITO in cui si trovano le divinità Igigi, intermediari fra cielo e terra. Lulu, ossido di zinco puro, aderisce alla cupola; DANITO dal sanscrito etd’ni – aderito. Ibidem
[10]Le energie sono più forti e radicali nei minerali che nei restanti corpi perché sono più vicini alla prima origine, perciò le sono anche più uniti e per conseguenza più forti..Così sono i sali, i metalli e simili…”  Pharmacopeia medico-chimica live Thesaurus Pharmacologicus..autore Joanne  Schròdero,1677,,in P.Lucarelli, la Cosmologia, in Scritti, Mimesis, 2012
[11] Tratto da un testo della biblioteca di Assurbanipal, M. Eliade  pag 72 The forge and the crucible, The university of Chicago Press, Chicago-London, titolo originale
Forgerons et alchimistes, Flammarion, Parigi, 1977.
 ”Ci pare di poter sognare qui operai benvoluti che avvertono, in cave oscure che la lucerna appena illumina, l’empito vitale che a pochi è dato riconoscere nella “materia inerte”. Li vediamo toccare toccati, manipolare manipolati, osservare osservati, in una sempre più ampia consapevolezza che climi più miti e aure più propizie favoriscono e non ostacolano. Li sentiamo stupiti, chini sui forni, non ancora assordati da progressi improbabili, udire i lamenti del minerale torturato, le grida del metallo liberato. Li scorgiamo sognare titaniche lotte, uccisioni, morti e vendette, vergini eroi, incesti e nozze sacrali, fiamme divoratrici, fiati velenosi e nascite miracolose. Li scopriamo nascosti in tende sui monti, accoglienti e protette, cuocere lentamente a dolce fuoco di lampada viventi amalgame, olenti e profumati miscugli, in pacifiche notti rugiadose di primavere clementi. Li vediamo, fabbri proscritti e zoppi, mal sopportati, iniziare pochi destinati all’emarginazione invidiosa, che già disprezza e teme, inventare sacerdozi e templi, miti e religioni, per nascondere ai molti e insegnare ai pochi” Paolo Lucarelli, Le Origini dell’Alchimia, in Scritti Alchemici e massonici, Mimesis, MI, 2012
[12]  I trattati d’arte, Achille Pellizzari, 1915
[13] Cadmia deriva da Cadmo, sposo di Armonia e mitico fondatore di Tebe. Cabalisticamente la cadmia è la terra nera, la materia prima dell’alchimista (P.Lucarelli in Eireneo Filalete, Opere, Mediterranee, 2001)
[14]Secondo noi arte gotica è una deformazione ortografica della parola argotico..conformemente alla legge fonetica..i dizionari definiscono l’argot un linguaggio caratteristico di tutti gli individui interessati a comunicarsi i pensieri senza essere compresi da coloro che li circondano..Gli argotici, coloro che si servono di questa lingua, sono i discendenti ermetici degli argo-nauti, che armarono la nave Argo, parlando la lingua argotica – la nostra lingua verde – per poi navigare alla conquista del Toson d’Oro…L’arte gotica è, in effetti, l’art got ou cot (Xo), l’arte della Luce o dello Spirito” Il Mistero delle Cattedrali, pag. 66, edizione tradotta ed annotata da P.Lucarelli, Mediterranee, 2005)
[15] Clef du Grand-Ouvre, ou Lettres du Sancelrien tourangeau, Parigi, Cailleau, 1777, pg. 65 in Fulcanelli, Le Dimore Filosofali I, pag. 215, Mediterranee, 1996-2002
In ragione dell’orientamento dell’abside verso sud-est, spiega Fulcanelli, i tre rosoni delle cattedrali gotiche, che ornano i transetti ed il grande portico, riproducono, secondo un processo circolare, i colori che si susseguono nell’Opera. Il rosone settentrionale non riceve mai i raggi del sole -nero-, il secondo fiammeggia al sole di mezzogiorno -bianco-, il terzo riceve i raggi del tramonto -rosso– Il Mistero delle Cattedrali, Mediterranee, 2005
[16] https://m.ina.fr/video/CAA8000934601/alchimie-et-vitraux-moyen-age-video.html
[17] In mineralogia con il termine cadmia s’intendeva un’ossido di zinco che si raccoglie nelle pareti delle fornaci dove lo zinco è sublimato (Webster’s Dictionary, 1913), è una polvere ricchissima di cadmio perché quest’ultimo si volatilizza più rapidamente dello zinco. Minerale, di colore bianco, ma spesso colorato da impurità in giallo, rosso, verde e azzurrino, con lucentezza vitrea.
Non a caso il Dr Besozzi elenca tra i colori rinvenuti in dipinti del ‘700 “ Colori al cadmio con tonalità varie” A.Besozzi Datazione dell’impiego nelle pitture a olio dei pigmenti usati nelle belle Arti, Pitture e Vernici, n 1 1963, Aracne, MI)
[18] Z. Wazbinski Il Cardinal Francesco Maria Del Monte, Leo S.Olschki, Fi, 1994
[19] Fulcanelli, il Mistero delle Cattedrali, pag. 269 cit.
[20] ibidem pag.270 nota
Non diversamente, Cenerentola – chiamata Cucendron, cioè la χ (chi), il raggio nelle ceneri- sposa il suo principe grazie alla scarpetta di vetro. Canseliet, Simbolismo ermetico e pratica filosofale, Mediterranee, 1996, pag.64
[21] Trevor Roper, Il Movimento Paracelsiano, in Il Rinascimento, Laterza, 2005
[22] Il Mistero delle Cattedrali pag. 294-295, cit
[23]Maria José Nuevo, Department of Physics, University of Extremadura, Badajoz, Spain
Alejandro Martín Sánchez – Miguel Angel Ojeda , Centro de Conservación y Restauración de Bienes Culturales, Junta de Extremadura, Mérida, Spain – Spectroscopic analysis of polychromic sculptures belonging to the cultural heritage of Extremadura (Spain), Academia.edu
[24]  La scoperta di bario nelle opere antiche è stata, da alcuni, giustificata in ragione delle caratteristiche geologiche del luogo d’estrazione del gesso che avrebbe contenuto solfato di bario –baritina- come “tracciante”. Altri, a seguito del riscontro più frequente di tale elemento hanno ritenuto fosse stato usato deliberatamente in virtù delle sue qualità di fosforescenza per accentuare il chiarore, la luminosità del dipinto. L’alchimista Scipio Begatello nel 1602 già chiamava fosforo di Bologna il solfuro di bario”. Nello stesso periodo Vincenzo Casciarolo di Bologna scopriva un minerale tralucente nei pressi del monte Paterna che, ridotto in polvere e calcinato, acquistava la proprietà di splendere nell’oscurità dopo essere stato esposto al sole; il solfuro di bario fu chiamato anche“lapis solaris” perché sembrava trattenesse la luce del sole. C.Maltese, “Significati di ampiezze e differenze di valori rilevati su opere caravaggesche”, Electa, MI, 1996; Maltese, Sciuti, Gigante, Marconi, Rinaldi “Spurio Autentico Copia”, Bagatto Libri, Roma, 1991; Macquer, Scopoli, Vario “Dizionario di Cimica”, tomo IV, presso G.M.Porcelli, Napoli 1785; Ann Massing in R.Lapucci “La tecnica dei primi caravaggeschi” Michelangelo Merisi da Caravaggio ed i suoi primi seguaci”, Salonicco, 1997.
[25] (curatrice B.S.Tosatti,Acanthus, Pioltello -MI- 1991) raccolta quattrocentesca di pittura ed altre arti, la cui denominazione è dovuta a Eastlake nel XIX sec. L’assemblatore si presenta con uno pseudonimo: Halforde, un  studente e poi dottore in arti e medicina che vagò tra i ducati e le signorie dell’Italia settentrionale ed in altre parti del mondo e raccolse da fonti diverse ricette d’arte e di medicina.
Sono ricettari artigianali e alchemici, anche se non hanno alcun contenuto ermetico ma esclusivamente chimico; da quest’ultimi è estratta la ricetta  relative alla preparazione del bianco che contiene tuzia, l’altra, per il rosso, appartiene ad ambienti artigianali contaminati della cultura pseudo magica.
[26] Analisi XRF sul Tabernacolo dei Linaioli e sulle due versioni della Tebaide degli Uffizi e del Museo di Budapest , Edifir
[27] C.L. Eastlake – Materials of the History of Oil Painting, London 1869-
[28] Van Eycke, pittore di corte presso il duca di Borgogna, ricoprì anche incarichi politico-diplomatici per Filippo il Buono, fondatore dell’Ordine del Toson d’Oro a gloria della stessa Verità e Tradizione alchemiche. L’Alchimia è stata un tema pittorico frequente tra i pittori fiamminghi tanto nella sua espressione simbolica ( I coniugi Arnolfini) quanto nella sua realtà operativa in laboratorio  (Il laboratorio dell’alchimista:Teniers, Van Ostade, Van Helmont)
[29] in Fulcanelli, pag. 270, nota, Il Mistero delle Cattedrali, cit
[30] Frammenti orfici, Boringhieri, 1959