di Nica FIORI
Una volta veniva chiamata “Roma vecchia” per la grandiosità delle sue rovine che facevano pensare a una città, o anche “Statuario” per l’abbondanza delle sculture che vi si rinvenivano, attualmente sparse in vari musei in Italia e all’estero.
Parliamo della Villa dei Quintili, splendida testimonianza di lussuosa residenza suburbana di età imperiale, sopravvissuta alla speculazione edilizia tra le vie Appia Antica e Appia Nuova, in un paesaggio dominato sullo sfondo dai Colli Albani. Un luogo dal quale si gode
“un panorama bello in ogni stagione dell’anno e in ogni ora del giorno, ma del quale chi lo sente sinceramente non parla, se non è poeta, perché non riesce mai a esprimere il fascino che da quella campagna si svolge e domina in breve tutte le facoltà dello spirito”,
come scriveva Thomas Ashby nell’introduzione del suo lavoro sulla Villa dei Quintili del 1909.
Insieme agli altri complessi monumentali del Parco archeologico dell’Appia Antica, anche questo sito di grande interesse storico, archeologico e paesaggistico è stato riaperto al pubblico, dopo la quarantena anti covid, dal giovedì alla domenica (dalle ore 9 alle 19,30; ultimo accesso alle 19) con ingresso gratuito fino al 13 settembre 2020.
Vi si accede da un casale ristrutturato adibito ad antiquarium, in via Appia Nuova 1092, ma il percorso di visita è di fatto tutto all’aperto.
Le rovine maestose appaiono ancora inserite in quel paesaggio agreste riprodotto da tanti vedutisti sette-ottocenteschi: certo mancano le pecore al pascolo e la quiete sonnecchiante di un tempo, ma l’invadenza dell’erba e dei fiori di campo accomuna la veduta odierna alle antiche immagini. È grazie al rinvenimento di condotti idraulici in piombo riportanti i nomi dei proprietari che è stato possibile nel 1828 identificare la villa come quella dei ricchissimi fratelli Condiano e Massimo, della nobile famiglia dei Quintili.
Le fonti antiche che parlano di essi ne mettono in luce le doti di saggezza e di rigore morale dimostrate nell’attività pubblica, sottolineandone l’affiatamento. Sotto gli imperatori Antonino Pio e Marco Aurelio ebbero una brillante carriera: rivestirono importanti cariche pubbliche in Grecia e in Asia; insieme arrivarono al consolato nel 151 d.C., e sempre insieme furono mandati a morte dall’imperatore Commodo intorno al 182.
I due Quintili avevano creato questa bellissima dimora per poter godere appieno dei privilegi della vita in campagna, senza allontanarsi troppo dalla città. Qui, circondati da opere d’arte, si dedicavano con piacere alle attività fisiche e intellettuali, sperimentando nuove colture e scrivendo insieme anche un trattato in lingua greca sull’agricoltura (non conservato). Rinvenimenti di una villa rustica presso il VII km dell’Appia Nuova sono stati messi in relazione con l’attività agricola che si svolgeva nella tenuta. I reperti esposti nell’antiquarium, tra i quali troviamo numerose immagini di diverse divinità orientali, come Iside, Astarte, Eracle, Asclepio, Mitra fanno pensare alla presenza di schiavi stranieri e a un atteggiamento di tolleranza religiosa.
L’ingresso principale della villa era al quinto miglio dell’Appia Antica, sulla sinistra dello spettacolare ninfeo che ancora possiamo ammirare.
Questo fronte monumentale, con i suoi giochi d’acqua, marmi, nicchie e colonne, aveva una funzione scenografica che doveva dare subito l’idea a chi passava dell’importanza dei proprietari. Trasformato in castelletto medievale, è stato poi adibito dai Torlonia (proprietari del fondo dal ‘700 fino all’ultima guerra) a granaio e magazzino.
Un grande giardino “a ippodromo”, cinto fra due muri e sistemato a viali alberati con fontane, portava alla villa vera e propria, che si ergeva verso l’odierna Appia Nuova.
Le rovine, erose dal tempo e dalle spoliazioni, appaiono come frammenti fantastici di un’architettura grandiosa, particolarmente ammirata dai viaggiatori del Grand Tour, insieme agli altri celebri monumenti dell’Appia, quali la tomba di Cecilia Metella o il Circo di Massenzio.
Gli edifici più appariscenti della villa sono sicuramente le aule termali: due enormi costruzioni in laterizio che lasciano intravedere il cielo attraverso i vuoti dei finestroni.
Il calidarium era esposto a mezzogiorno per permettere ai raggi del sole di riscaldare l’interno, dove una grande piscina era raggiungibile scendendo tre gradini. La vasca non è profonda, perché i romani, più che nuotare, preferivano stare a bagno con i gomiti appoggiati ai gradini.
Le finestre probabilmente erano fatte con un’intelaiatura di piombo in modo da formare delle grate, sulle quali venivano applicate delle formelle di vetro o di alabastro. La volta, crollata, doveva essere a crociera, oppure a capriate di legno.
L’altra grande aula è quella del frigidarium, che conserva parte del decoro architettonico.
Due vasche per l’abluzione con acqua fredda sono disposte lungo i lati brevi; in esse sono visibili le impronte delle lastre marmoree che le rivestivano. Il vano comprendeva anche numerose statue a tema dionisiaco, rinvenute negli scavi ottocenteschi voluti da Giovanni Torlonia. Nel frigidarium possiamo ammirare parte di un bellissimo pavimento in opus sectile, realizzato in marmi pregiati, importati dalla Grecia e dalla Turchia.
Questo, rinvenuto negli ultimi interventi della Soprintendenza archeologica al di sotto di un riempimento di terra di oltre un metro e sessanta, si è mantenuto per via dei crolli della volta in calcestruzzo che ne rendevano ardui gli scavi.
Tra le due grandi aule vi era una serie di ambienti, che costituivano il tepidarium, scavati e reinterrati nell’Ottocento, e solo in parte indagati dagli ultimi interventi.
Queste terme erano alimentate da un acquedotto privato semisotterraneo (derivato dall’Anio novus e dal Claudio), le cui arcatelle affiorano qua e là tra il verde dell’erba, mentre delle grandi cisterne formavano una riserva d’acqua per le coltivazioni. La zona era comunque ricca di acqua anche per la presenza del fiume o fosso dello Statuario ed è probabilmente per questo motivo che venne scelta per costruirvi la villa, dati gli interessi dei Quintili per l’agricoltura.
Non lontano dal calidarium, vi è una struttura ovale che fa pensare a un anfiteatro. Viene chiamata “Teatro Marittimo”, perché ricorda in qualche modo il luogo analogo che si trova a Villa Adriana (presso Tivoli), ma doveva essere probabilmente un “viridarium“, ovvero un giardino per le piante rare.
Dietro di essa troviamo una grande piazza pavimentata in marmo e fiancheggiata da un criptoportico, che introduce nel settore residenziale, impostato intorno a una sala, che forse era adibita a triclinio invernale; il locale era infatti riscaldato per mezzo di un sofisticato sistema di intercapedini in cui passava aria calda. Gli appartamenti padronali sono divisi in una parte privata con le stanze da letto (cubicula), vani di servizio per la servitù e latrine e in una parte di rappresentanza, dove si tenevano le feste.
La villa divenne residenza imperiale, dopo che Commodo mandò a morte i proprietari, incamerandone i beni. Figlio di Marco Aurelio, Commodo raggiunse il potere nel 180 d.C., a soli diciannove anni, e manifestò ben presto la sua indole violenta e sanguinaria, dopo aver tolto al senato ogni potere. L’immagine non è affatto distante da quella che ci ha dato di lui Ridley Scott nel film Il Gladiatore.
Cassio Dione nella sua Storia romana (libro LXXII) ci fa sapere che:
“Uccise anche i due Quintili, Condiano e Massimo, poiché godevano grande fama di cultura, esperienza militare, concordia e ricchezza. Fu proprio a causa delle loro doti, infatti, che furono sospettati di essere scontenti della situazione di allora, sebbene in realtà non avessero meditato alcuna ribellione”.
I due fratelli furono strangolati dai pretoriani alla fine di un banchetto svoltosi nella loro dimora. Anche il figlio di Condiano trovò la morte nella stessa occasione. Il figlio di Massimo, invece, si trovava in Siria e probabilmente si salvò.
Secondo quanto scrive Cassio Dione
“Sesto Condiano, figlio di Massimo, che si distingueva tra gli altri per ingegno e cultura, quando sentì che la sentenza di morte ricadeva anche su di lui, bevve del sangue di lepre, dopo di che, salito a cavallo, si lasciò cadere a terra di proposito e vomitò il sangue fingendo che fosse suo; dopo essere stato sollevato come se fosse sul punto di morire da un momento all’altro, fu portato alla sua dimora, da dove sparì e al suo posto, in una bara, venne messo il corpo di un ariete che fu bruciato. Da quel giorno in poi, cambiando continuamente aspetto e abiti, andò vagando da un luogo all’altro…”.
Ovviamente venne cercato a lungo e molti furono puniti al suo posto, o per la somiglianza, o perché si pensava che fossero conniventi. Il tragico evento era stato in qualche modo preannunciato a Sesto Condiano da un vaticinio dell’oracolo di Anfiloco, che dava responsi sotto forma di sogni a Mallo, una città della Cilicia. Sesto aveva rappresentato il suo sogno con un disegno su una tavoletta: un fanciullo che soffocava due serpenti e un leone che inseguiva un cerbiatto. Sembra di cogliere il nesso con i due fratelli strangolati da Commodo, che si identificava con Ercole, il quale da bambino aveva strangolato i serpenti inviati contro di lui da Giunone, mentre il cerbiatto allude a Sesto che fugge davanti a una belva certo più forte di lui.
Una ben triste fine quella dei Quintili, che contrasta con l’atmosfera incantevole della loro residenza. La villa divenne, ovviamente, proprietà dell’imperatore, che amava molto trascorrere qui le sue giornate. Le trasformazioni volute da Commodo, attestate da bolli laterizi, consistono nell’aggiunta di elementi per il riscaldamento degli ambienti di rappresentanza e privati e in ampliamenti del settore termale. I cronisti dell’epoca ci dicono che nelle sue terme faceva il bagno 7-8 volte al giorno e spesso non da solo, ma in mezzo a una corte di fanciulli e fanciulle.
L’altra sua grande passione erano i ludi circensi e gladiatorii, tanto che si faceva chiamare Ercole romano perché nell’arena aveva ucciso dei leoni, proprio come Ercole che uccise il leone di Nemea. C’è chi sostiene che il cosiddetto Teatro Marittimo venisse usato da Commodo per cimentarsi nei suoi amati giochi circensi (ma più probabilmente non aveva questa funzione), e ovviamente non si limitava a uccidere gli animali feroci, ma amava combattere con i gladiatori, che sempre erano costretti a dargli la vittoria.
Si racconta che durante una carestia il popolo romano si sollevò contro di lui e da Roma arrivò fin qui una gran massa di persone affamate che, urlando e sbraitando, si spinsero contro il portone sulla via Appia antica. L’imperatore non si era accorto di nulla, perché si trovava nella parte privata più interna impegnato a divertirsi; allora il comandante della guardia, un suo favorito che si chiamava Cleandro, fece caricare la folla dai pretoriani. Ma il popolo inferocito avanzò fin sotto il palazzo, e allora Commodo, spaventato, fece uccidere Cleandro e lo gettò in pasto alla folla che lo trascinò per le vie di Roma, quindi, come se niente fosse, Commodo continuò a godersi tranquillamente la sua villa.
Tutto questo durò finché non venne assassinato. La sua concubina preferita, Marcia, avendo saputo che Commodo stava per condannarla a morte con la solita accusa di cospirazione, lo prevenne facendolo strangolare nel bagno. Era l’ultimo giorno del 192 e l’imperatore aveva 31 anni.
Alla morte di Commodo la villa passò ai Severi e quindi ai Gordiani, che nel III sec. d.C. ne modificarono alcune strutture. Il complesso rimase poi parzialmente in uso fino al VI secolo (sono stati ritrovati bolli laterizi dell’epoca di Teodorico), dopo di che andò progressivamente in rovina.
Accanto alla Villa dei Quintili si trova la tenuta di Santa Maria Nova, acquisita dallo Stato nel 2006, la cui visita, a partire dal luglio 2014, è stata abbinata alla Villa, perché i resti archeologici, in particolare un piccolo impianto termale, sono relativi allo stesso periodo dei Quintili (anche se i mosaici di rivestimento in bianco e nero sono successivi).
Il nome di Santa Maria Nova potrebbe far pensare a una chiesa, ma si tratta in realtà di un casale, che appare come il risultato di diverse fasi costruttive. Il nucleo originario è formato da un monumento di epoca romana, una conserva d’acqua o un castellum aquae a due piani, databile alla prima metà del II secolo d.C. In età tardo-romana, probabilmente nel corso della guerra greco-gotica (VI secolo d.C.), venne aggiunta al complesso una torre in opera laterizia, con funzione difensiva e di avvistamento.
La chiesa da cui trae il nome è quella del Palatino, ora Santa Francesca Romana, i cui monaci Olivetani acquistarono la tenuta in epoca medievale per ampliare il loro patrimonio. In realtà gli Olivetani non la utilizzarono direttamente, preferendo darla in enfiteusi, però è visibile il loro stemma – tre monti sormontati da una croce con accanto rami di ulivo – in alcuni blocchi di marmo inseriti nella rustica scala esterna del casale principale.
Presso il casale è stato scoperto un tratto di strada romana basolata che, attraversando il cortile d’ingresso, prosegue sotto l’edificio e oltre. Nel cortile settentrionale del casale, a ridosso del muro di contenimento della strada romana, è stata scoperta un’area funeraria della metà del II secolo d. C. con tre tombe a fossa coperte da tegole disposte “alla cappuccina”, di cui una, di una giovane, era impreziosita da un raro corredo in oro.
Nica FIORI Roma 23 agosto 2020