La visita delle Sette Chiese a Roma: il “Carnevale spirituale” di san Filippo Neri

di Nica FIORI

Il numero sette, che a Roma ha avuto fin dalle origini della città una forte valenza simbolica, continua ad avere una particolare importanza anche in epoca cristiana, tanto che la tradizione ha fissato proprio in sette le chiese principali dell’Urbe.

La scelta del numero potrebbe essere legata ai sette doni dello Spirito Santo, oppure alle sette chiese d’Asia di cui si parla nell’Apocalisse, alle stazioni della via Crucis, che inizialmente erano sette, o ancora alla divisione ecclesiastica di Roma in sette diaconie, fatta da papa Fabiano nella prima metà del III secolo.

Più semplicemente, secondo l’erudito e storico cinquecentesco Onofrio Panvinio, alle cinque basiliche patriarcali di San Pietro, San Paolo, San Giovanni in Laterano, San Lorenzo fuori le Mura e Santa Maria Maggiore, che erano meta di continui pellegrinaggi, il fervore dei fedeli volle aggiungere le basiliche di San Sebastiano e di Santa Croce in Gerusalemme, perché si trovavano la prima sulla strada che va da San Paolo al Laterano, la seconda tra il Laterano e San Lorenzo, e sembrava indecoroso passare davanti ad esse senza sostarvi a compiere, come nelle altre cinque, i consueti riti devozionali.

Antoine Lafrery, Le Sette Chiese di Roma, incisione su rame, da “Speculum romanae magnificentiae”, 1575

Nelle catacombe di San Sebastiano la tradizione voleva che fossero stati temporaneamente sepolti i corpi dei santi Pietro e Paolo, per sottrarli ai pericoli delle persecuzioni; in Santa Croce, invece, erano conservate reliquie della Passione di Cristo, il cui ritrovamento era attribuito a sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino, nel corso del suo viaggio a Gerusalemme del 327-328.

La pia consuetudine di visitare queste chiese tutte insieme doveva essere molto antica, ma a poco a poco, per via delle strade malagevoli e poco sicure, subentrò l’abitudine di limitare la visita alle sole basiliche giubilari (San Pietro, San Paolo, San Giovanni e Santa Maria Maggiore), le cui memorie offrivano abbondante occasione ai romei per soddisfare la propria devozione.

Giovanni Maggi, Roma nel 1600, con le Sette Chiese
Sebastiano Conca, San Filippo Neri

Le cronache medievali ricordano numerosi personaggi che erano soliti praticare la visita delle Sette Chiese, tra cui santa Brigida di Svezia, che nel 1349 si era stabilita a Roma, dove morì nel 1373, ma bisogna arrivare alla seconda metà del Cinquecento perché questo tipo di devozione acquisti nuovo vigore grazie a san Filippo Neri (Firenze 1515 – Roma 1595), l’apostolo della Roma cinquecentesca che influì moltissimo nella mutazione spirituale della città e del mondo cattolico iniziata col Concilio di Trento e nota come Controriforma. Mosso da profondo spirito di carità, egli si occupò di poveri e malati, orfani ed emarginati, trasmettendo un saldo ottimismo cristiano che vedeva, anche nella vita terrena, la possibilità della serenità e della gioia.

Ancor prima di diventare sacerdote egli si recava quasi tutti i giorni a visitare i luoghi sacri della città, ove era solito trascorrere lunghe ore in meditazione. Dopo aver preso gli ordini sacerdotali nel 1552, egli a poco a poco spinse i suoi amici e i seguaci ad accompagnarlo in questo suo pellegrinaggio alle Sette Chiese, tanto che col tempo esso divenne una vera manifestazione di popolo e la tradizione si è conservata, sia pure con ovvie modifiche, fino ai nostri giorni.

La visita così come fu attuata dal Neri, e in seguito dai filippini, era una sorta di processione penitenziale e al tempo stesso ricreativa. Il perché questa “penitenza” sia diventata per secoli un fenomeno collettivo è da ricercare probabilmente nel concetto stesso di Chiesa come assemblea. Si potrebbe citare a questo proposito la ben più antica processione penitenziale detta litania septiformis ideata da san Gregorio Magno durante la pestilenza del 590 (si trattava di sette processioni che partivano ognuna da una chiesa diversa per radunarsi nella basilica della Vergine). Sarà un caso, ma anche questa volta abbiamo a che fare con il numero sette.

Del resto anche nella Roma pagana i riti di purificazione ed espiazione erano collettivi. Pensiamo per esempio ai Lupercali che si celebravano a metà febbraio e che furono sostituiti secondo il Venerabile Beda da papa Gelasio I con la festa della Purificazione di Maria o Presentazione di Gesù al Tempio, più nota col nome popolare di Candelora.

La visita alle sette basiliche si svolgeva generalmente in due giorni, seguendo a piedi un percorso di sedici miglia che andava, in senso antiorario, da San Pietro a San Paolo, San Sebastiano, San Giovanni, Santa Croce, San Lorenzo e Santa Maria Maggiore. Per quei tempi, soprattutto quando il clima non era favorevole, doveva essere piuttosto impegnativa. Questa pratica, con la formazione della congregazione dell’Oratorio, fondata dal Neri, divenne di frequenza settimanale per i discepoli del santo, mentre in un giorno dell’anno, il giovedì grasso, assumeva un tono solenne con l’invito alla massa dei romani. Era il cosiddetto “Carnevale spirituale”, che si proponeva come alternativa ai disordini e alla violenza del carnevale romano.

Vi prendevano parte insieme nobili e plebei, tutti spinti dal desiderio di rendere omaggio alle memorie dei martiri e acquisire nello stesso tempo le indulgenze loro concesse. La partecipazione era massiccia: si arrivava infatti anche a 4.000 persone in un periodo in cui la città raggiungeva al massimo 30.000 abitanti. Lo stesso papa Pio IV (1559-1565) contribuì al successo di questa pratica recandosi col suo seguito, almeno due volte l’anno, a visitare le sette basiliche. Anche il suo successore san Pio V seguì questa tradizione, probabilmente perché era un grande estimatore del Neri (si ricorda tra l’altro che fece una visita straordinaria il 31 ottobre 1571, in occasione della vittoria di Lepanto sui Turchi).

A Gregorio XIII sembra risalire l’istituzione in quelle chiese, in occasione dell’anno santo 1575, dei sette altari privilegiati, presso i quali era possibile lucrare particolari indulgenze. Sisto V, da parte sua, confermò ufficialmente l’importanza devozionale della visita delle Sette Chiese con la bolla Egregia populi Romani pietas (spedita il 13 febbraio 1586), così motivandola:

Sono esse veramente celeberrime per l’antichità, pel culto, per le venerande reliquie dei martiri, per le sacre indulgenze e infine pel mistico senso del numero settenario. Giacché siccome l’apostolo Giovanni scrivendo l’ammirabile sua Apocalissi alle sette chiese dell’Asia, volle adombrare la Chiesa universale, cui Dio adorna coi sette doni celesti dello Spirito Santo, e nella quale soltanto dimora e riposa, così con grande arcano del numero stesso, sette chiese in Roma si stabilirono, acciò più chiaramente apparisse l’unione e la perfezione del capo istesso, donde dimana l’unità delle chiese tutte”.

Nello stesso tempo il pontefice legava a questa antica consuetudine i numerosi interventi urbanistici, che aveva avviato nella città durante il primo anno di pontificato e che si riprometteva di completare nel quadro di un ampio progetto organico. Si riprometteva di realizzare un itinerario razionale delle Sette Chiese, non esitando a passar sopra la tradizione, pur di inserirlo il più possibile nel cerchio protetto delle mura (anche all’epoca erano frequenti infatti le azioni brigantesche nel suburbio e nell’Agro Romano) ed ecco l’effimera sostituzione della troppo periferica basilica di San Sebastiano con Santa Maria del Popolo e il progetto di escludere anche San Paolo a favore della Trinità dei Monti.

Proprio sotto il pontificato sistino, nel 1586, arriva a Roma Federico Borromeo, allora giovane ventiduenne, ricco di cultura umanistica ed educato al rigore cristiano dall’esempio del cugino san Carlo Borromeo. Molto presto egli stringe rapporti con Filippo Neri e con l’ambiente vivace dei suoi oratoriani. Pochi giorni dopo il suo arrivo egli scrive alla cognata Ersilia Farnese:

Hoggi sono andato alle Sette Chiese che veramente sono il compendio di tutte le devozioni del resto del mondo”.

Ogni tratto del pellegrinaggio era devotamente associato a un episodio della Passione, riproponendo sotto altra forma il tema tradizionale della via Crucis; in ogni tappa inoltre era invocata la presenza di uno dei doni dello Spirito Santo (sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà, timore di Dio), per acquisire ognuna delle sette virtù che si opponevano ai sette vizi capitali.

Processione alle Sette Chiese in un’incisione settecentesca

I partecipanti erano divisi in centurie, precedute ciascuna da un’orifiamma consistente in uno stendardo raffigurante un’opera di misericordia. Aprivano il corteo i padri cappuccini recanti una croce, seguivano i giovani guidati da alcuni padri dell’Oratorio, poi i dignitari sacri, gli Ordini religiosi, il Clero e i membri dei collegi ecclesiastici dell’Urbe, poi le centurie dei fratelli dell’Oratorio, degli uomini e infine delle donne. Durante le soste nelle basiliche, oltre alle orazioni specifiche per i santi titolari delle chiese, era previsto un sermone, la visita al Ss. Sacramento e agli altari privilegiati. Una particolare devozione era riservata alla Madonna, mentre i martiri delle persecuzioni anticristiane venivano commemorati quando si passava sopra il terreno delle catacombe. Sull’argomento erano state compilate anche delle apposite guide, come quella di Marco Attilio Serrano, De septem Urbis ecclesiis, una cum earum reliquiis, stationibus et indulgentiis (Roma 1575), quella di Giovanni Severano, Divotioni da pratticarsi nella visita delle sette Chiese di Roma (Roma 1630) e Il peccatore pellegrino nel giro perpetuo alla visita delle Sette Chiese di Roma, di autore anonimo (Roma 1718).

Si partiva generalmente la sera del mercoledì grasso, dopo aver recitato l’Itinerarium (la preghiera dei pellegrini), da San Gerolamo della Carità (prima sede dell’attività di san Filippo Neri), e in seguito dalla Chiesa Nuova, dove si radunava il corteo, che si dirigeva, passando per ponte Elio, a San Pietro, prima tappa del percorso.

Giovanni Maggi, Roma nel 1600, part. con San Pietro

L’appuntamento era per il giorno successivo alla basilica di San Paolo, dove si compiva la seconda fase della visita.

Giovanni Maggi, Roma nel 1600, part. con San Paolo

L’itinerario che conduceva a San Paolo era costellato di cappelle e ricordi del cristianesimo primitivo: in particolare sulla via Ostiense si transitava davanti al luogo dove, secondo una leggenda, si sarebbero incontrati i santi Pietro e Paolo prima di essere condotti separatamente al martirio. Dalla basilica di San Paolo si proseguiva per San Sebastiano, lungo un percorso che all’epoca era in aperta campagna.

Giovanni Maggi, Roma nel 1600, part. con S. Sebastiano

La suggestione doveva essere notevole, perché al godimento estetico dei luoghi si aggiungeva l’elevatezza delle preghiere accompagnate spesso da musiche, in un’atmosfera di serena letizia. Per le deserte vie della campagna echeggiavano tra le altre le note malinconiche di una canzone, dovuta forse allo stesso Neri, il cui ritornello “Alla morte che sarà / ogni cosa è vanità”, sembrava quasi far rivivere le severe parole di Girolamo Savonarola contro tutto ciò che è terreno. Non dimentichiamo che il santo era nato proprio a Firenze, cioè in pieno ambiente savonaroliano, e da lì potrebbe in effetti provenire questa composizione. Ma il Canto delle vanità termina con una strofa di speranza, invitando il cristiano ad avere fiducia in Dio:

Dunque a Dio rivolgi il cuore, / Dona a lui tutto il tuo amore. / Questo mai non mancherà, / tutto il resto è vanità”.

Nella vecchia basilica di San Sebastiano, sulla via Appia antica, si celebrava una messa e la maggior parte dei presenti prendeva parte alla comunione eucaristica. A questo punto si era soliti fare una sosta ricreativa che dapprima avveniva nella vigna dei Crescenzi nei pressi di porta San Sebastiano, ma poi divenne consuetudine fermarsi nel giardino Mattei al Celio, quello che adesso è villa Celimontana.

Gli strumenti musicali e il canto delle laudi accompagnavano il pranzo modesto, quasi penitenziale; poi, come di solito accade, il pranzo acquistò sempre maggiore importanza, tanto da apparire a Giuseppe Gioachino Belli, ai suoi tempi, una baldoria di campagna.

Si proseguiva il percorso andando a San Giovanni

Giovanni Maggi, Roma nel 1600, part. con S. Giovanni in Laterano

e da lì, dopo una sosta alla Scala Santa, si raggiungeva Santa Croce;

Giovanni Maggi, Roma nel 1600, part. con S. Croce in Gerusalemme

poi, attraverso Porta Maggiore, si usciva dalla cinta muraria per andare alla basilica di San Lorenzo.

Giovanni Maggi, Roma nel 1600, part. con San Lorenzo

Anche in questa parte del tragitto i canti devoti erano intervallati da pause meditative; poi, al tramonto, si compiva la visita a Santa Maria Maggiore, che si concludeva in tarda serata.

Giovanni Maggi, Roma nel 1600, part. S. Maria Maggiore

È ovvio che tutto questo aveva bisogno di un’efficiente organizzazione: si pensi per esempio alla preparazione della refezione collettiva di migliaia di persone, che dovevano avere tutte vitto sufficiente in uguale quantità, inoltre occorreva chiedere l’autorizzazione al marchese Mattei per usare il suo giardino, quindi avvertire i benedettini di San Paolo in modo che esponessero il loro Crocifisso e i canonici di Santa Maria Maggiore, perché scoprissero la celebre icona della Salus Populi Romani.

Refezione nel Giardino Mattei, di anonimo settecentesco

Si chiedeva la licenza di fare il sermone nelle chiese di San Giovanni e San Lorenzo, procurando l’oratore, e, una settimana e mezza prima della visita, si chiedeva al papa la concessione dell’indulgenza plenaria per tutti i partecipanti. Bisognava pure procurare i facchini per il trasporto di tutto l’occorrente, compreso un organo portatile e le “biffe”, cioè i paletti con i cartellini numerati che servivano per dividere in vari settori lo spazio del giardino Mattei. Vi era infatti una diversa sistemazione per le varie centurie.

Nel Settecento questi settori, tanto per cambiare, erano sette. Il pranzo veniva servito, con tanto di stoviglie, da numerosi “fratelli” addetti al servizio. Comprendeva pane, uova, salami, formaggi e frutta. Anche il vino era ammesso, ma annacquato. Effettivamente la sosta ricreativa, senza togliere niente all’aspetto religioso, costituiva il clou della giornata e viene ricordata tuttora in un’epigrafe nella villa Celimontana. Per evitare che si inserissero all’ultimo momento degli intrusi, all’inizio della visita ogni partecipante riceveva un “bollettino”, una sorta di biglietto senza il quale non si aveva nessun diritto a partecipare al convito. I bollettini erano gratuiti, ma vi erano delle libere offerte che sopperivano alle spese. Il cibo che avanzava veniva dato alle carceri come elemosina.

Il successo di questa pratica devozionale suscitò agli inizi non poche perplessità e maldicenze nei confronti del Neri, che veniva accusato da qualche zelante prelato di avere una scarsa preparazione dottrinale. In realtà egli, amante com’era della natura, della preghiera e dell’arte, riuscì a far convivere tutti questi elementi, come scrive il padre oratoriano Carlo Gasbarri

in modo tale che la pietà non ne venne defraudata né profanata e lo svago di una bella giornata in campagna ricevette un carattere di ricreazione intensamente spirituale”.
S. Filippo Neri gioca con alcuni ragazzi, in un’incisione settecentesca

Ne risultava per il cristiano un gaudium per la riconquista dei veri valori di fede, e quindi un nuovo stato d’animo che gli faceva apparire come trasfigurata ogni cosa su cui si posava la sua attenzione. In questo contesto anche il più materiale dei bisogni fisici, quello del mangiare, assumeva un aspetto tutto nuovo, gaudioso. Ed ecco allora il pranzo alla buona, sull’erba, che si trasformava in un banchetto, uguale per tutti, ricchi e poveri.

Alla morte di san Filippo Neri, avvenuta nel 1595, la congregazione dell’Oratorio ne raccolse l’eredità spirituale e così la visita alle Sette Chiese continuò, nella forma concepita e attuata dal santo per quaranta anni, per tutto il Seicento e il Settecento.

Negli ultimi anni del secolo XVI, in un clima di cristianesimo trionfante, si estese a nove il numero delle chiese includendo una visita, subito dopo quella alla basilica di San Paolo, all’abbazia delle Tre Fontane (le antiche Aquae Salviae, dove san Paolo avrebbe subito il martirio) e un’altra alla chiesetta della SS. Annunziata, a metà strada tra le Tre Fontane e San Sebastiano, dove esisteva pure un piccolo ospedale per i pellegrini impegnati nel lungo percorso. In caso di inagibilità una chiesa veniva sostituita con un’altra (generalmente Santa Maria in Trastevere), altre volte la visita veniva annullata a causa di epidemie, pestilenze, carestie o per il maltempo che rendeva impossibile la sosta ricreativa sull’erba. Niente impediva comunque a piccoli gruppi di devoti di recarsi alle sette basiliche in carrozza o a cavallo, indipendentemente dalla visita collettiva organizzata dai filippini.

Tra i romei famosi si ricorda in particolare, tra gli altri, Carlo Goldoni, che visitò Roma tra il novembre 1758 e il luglio 1759. Egli descrisse questo pellegrinaggio in una gradevole composizione poetica, La visita delle sette chiese (stampata per la prima volta nel 1764), che dedicò a Teresa Millesi in occasione della sua monacazione. Si tratta di 57 ottave che esprimono appieno lo spirito di serenità ed elevazione spirituale, così com’era nell’intento del Neri, che la magnificenza della Roma cristiana aveva provocato in lui. Ne viene fuori un’immagine del poeta penitente decisamente lontana dall’atmosfera ironica e scanzonata di tante sue commedie veneziane:

Movendo il pie’ colla corona in mano / per il lungo, fangoso, arduo cammino, / meditando i mister da buon cristiano, / vo cogli occhi socchiusi e a capo chino”.

Alla fine del Settecento l’entrata delle truppe francesi a Roma e l’esilio di Pio VI assestarono un duro colpo alla tradizione religiosa, così che questa devozione fu abbandonata, anche se non se ne estinse del tutto la memoria. Nell’Ottocento la consuetudine rifiorì sino a quando il governo italiano, dopo il 1870, ne interruppe lo svolgimento.

Guido Reni, S. Filippo Neri in adorazione della Madonna, Chiesa Nuova, Roma

In seguito la visita riprese con nuovo vigore a partire dal 1922, in occasione delle celebrazioni per il III centenario della canonizzazione di san Filippo Neri. Si preferì però spostare la data dal giovedì grasso alla seconda, e poi alla terza, domenica dopo Pasqua. Ai nostri giorni, cambiato ormai il clima religioso e soprattutto il sistema di vita, non ha più il carattere di manifestazione popolare, o addirittura plateale di un tempo, ma ha acquisito una forma più privata. Si può, comunque, partecipare due volte l’anno, a settembre e a maggio (poco prima della festa di San Filippo Neri, che cade il 26 maggio), a una passeggiata notturna, guidata da un padre della Congregazione dell’Oratorio, che ripercorre l’antico cammino.

Il giro delle sette chiese è sempre raccomandato, inoltre, ai pellegrini degli anni santi, anche se dal giubileo del 2000 l’itinerario ha visto la sostituzione della basilica di San Sebastiano con il santuario della Madonna del Divino Amore.

Nica FIORI  Roma 6 febbraio 2022