di Elvira D’AMICO
Nella fertile valle del Mela, ai piedi delle prime pendici dei monti Peloritani, esiste un paese di soli 466 abitanti caratterizzato –come in genere gli antichi borghi feudali del messinese- dalla ricchezza delle proprie chiese e dei propri palazzi padronali, traboccanti di cultura, di arte, di storia locale. E’ il pittoresco borgo di Condrò, la cui Matrice è stata ora riaperta al culto dopo un restauro durato almeno quattro anni. Il restauro ha interessato il soffitto ligneo a cassettoni, il pulpito ed alcuni altari laterali del secolo XVII.
Ma la riapertura al pubblico ha consentito anche la visione dello spettacolare altar maggiore tardo barocco (fig.1) in legno dipinto, dorato ed intagliato, rivestito da un elegante paliotto ricamato, databili entrambi alla prima metà del secolo XVIII, per molto tempo celati alla vista (1).
Tale nuovo ‘svelamento’, oltre a costituire una notevole acquisizione al patrimonio di arti decorative della provincia messinese, solleva peraltro degli interrogativi che val la pena di evidenziare, scaturenti dalla sua intitolazione alla Madonna del Tindari, al pari della chiesa nella quale l’altare è allocato.
Questa infatti, fondata nel 1571, vanta tale intitolazione – oltre che al patrono S.Vito – almeno dalla fine del secolo XVII, come risulta da documenti relativi(2) e come si evince pure dall’iscrizione incisa sulla facciata (fig.2).
L’ altare, opera delle esperte maestranze di scultori lignei e intagliatori locali, che sembra ispirato, come altri della provincia messinese, ad esemplari iberici seicenteschi, è improntato ancora all’ horror vacui tipico del barocco nella moltitudine di intagli e decori dorati, nell’articolazione in diversi piani prospettici che accolgono colonnine, putti, festoni, angeli musici, statue. Esso inoltre, sormontato da una ampia corona sorretta da due angeli, che richiama il baldacchino della Madonna della Lettera del duomo di Messina, si svolge su due registri afferenti al Vecchio e al Nuovo Testamento: in quello superiore, l’Eterno Padre tra cherubini è affiancato da due figure bibliche – il re David con l’attributo della lira e un profeta col libro della Genesi (fig.3)-, in quello inferiore sono le statue di S.Gioacchino e S.Anna a sinistra, di S.Pietro e S.Giovanni Battista a destra, mentre nella parte centrale campeggia, in posizione da intermediaria e affiancata da due angeli recanti gli attributi virginei dell’olivo e del cipresso, la statua della Vergine col Bambino adagiato sulle braccia, considerata ab antiquo una Madonna del Tindari (fig.4).
Ciò pone un quesito non di poco conto, in quanto la statua si discosta totalmente dall’iconografia tradizionale della Madonna del Tindari molto diffusa nella zona. Questa, risalente al periodo iconoclasta, codificata dal gruppo scultoreo medievale del santuario del Tindari (fig.5), attribuito ad arte catalana del secolo XII, ma per lungo tempo considerato opera bizantina e variamente replicato (fig.6), raffigura la Vergine come una Basilissa nera col Bambino benedicente sulle ginocchia, creando il prototipo diffuso in altre chiese siciliane e non solo.
Con questa contrasta palesemente la statua dell’altare di Condrò, raffigurante invece la Vergine bianca in piedi che tiene il Bambino in braccio (fig.7), sebbene sia da rilevare che nei secoli XVII e XVIII l’osservanza di tale iconografia non fosse pedissequamente rispettata(3).
L’anomalia iconografica si ripete nel superbo paliotto sottostante ricamato in oro e seta, recante la medesima immagine della ‘Madonna del Tindari’ (fig.8), con la Vergine che tiene il bambinello in braccio sul lato destro, come nella statua lignea corrispondente, all’interno di una cornice frangiata sormontata da corona.
Il disegno del paliotto a giardino in stile rocaille, di una qualità elevata e fantasiosa (fig.9), si avvale di volute ricurve concatenate che contengono rametti fioriti sparsi su tutta la superficie e di due eleganti composé articolati su tre livelli:
il primo che simula due alzate con cestine ripiene di spighe di grano e grappoli d’uva sopra reticolati di merletto, il secondo con volute crestate da cui pendono nappe di baldacchino, il terzo con vasi e di nuovo brani di merletto, il tutto a contornare la raffigurazione sacra centrale, che sormonta una cestina più grande coi suddetti simboli eucaristici, lasciando ipotizzare l’opera di un elegante disegnatore, forse lo stesso pittore che dipinge la figura della Vergine incoronata da due angioletti (fig.10).
Ma tale interpretazione personalistica di un’iconografia consolidata può essere in questo caso una scelta dovuta alla committenza?
Nessuna notizia certa vi è in proposito né sull’autore, né sulla data, né sul committente dell’altare, sicché la via delle ipotesi è l’unica percorribile.
Si sa per certo che Il piccolo borgo di Condrò appartenne dal secolo XV alla famiglia dei Bonfiglio, di cui un Francesco ottenne il titolo di principe di Condrò nel 1637 e che dal 1747 divenne feudo del nobile palermitano Federico di Napoli principe di Resuttano a seguito del matrimonio che questi contrasse in quell’anno con donna Felicia Bonfiglio. E’ possibile ipotizzare una commissione dell’altare – databile come il paliotto a poco prima della metà del secolo – in vista di tale matrimonio e addirittura pensare a un dono da parte del nuovo feudatario per omaggiare la Matrice del suo nuovo possedimento, in occasione delle sue nozze, come spesso avveniva?
L’usanza era ampiamente praticata dalla classe nobiliare, a imitazione delle abitudini dei reali, come – per fermarci a quel torno di anni – Carlo III di Borbone che in occasione dei suoi sponsali con Maria Amalia di Sassonia celebrati nel 1738, aveva donato al santuario di Santa Rosalia su monte Pellegrino la veste in argento dorato della statua seicentesca della Santa (fig.11), tutta sbalzata a motivi di rose, riecheggianti il nome della Santuzza palermitana.
Certo è che il principe Federico II di Napoli e Montaperto, rampollo della nobile famiglia palermitana dei principi di Resuttano, al cui padre don Federico di Napoli e Barresi si deve la costruzione della più maestosa villa della Piana dei Colli (fig.12), non doveva essere estraneo alla bellezza e all’arte.
Egli stesso, che andò ad abitare con la moglie nella suddetta dimora avita, continuò l’opera del padre commissionando al più rinomato pittore palermitano del tempo, Vito D’Anna, il grande affresco del salone da ballo con Il trionfo delle arti e delle scienze protette dagli dei (1762) (fig.13), probabilmente per solennizzare la futura riapertura dell’Accademia dei Pastori Ereini, fondata dal padre nel 1730 e da lui ripristinata nel 1766(4).
Allo stesso Federico junior si deve presumibilmente la commissione del monumento marmoreo contenente il suo ritratto e una tabella incisa coi suoi tratti biografici (1787 ca.) (fig.14), allocato come quello della moglie nella chiesa di Gesù Maria e Giuseppe, la ’cappella’ di famiglia annessa alla splendida villa Resuttano ai Colli.
E’ possibile che al gusto artistico del principe si debba pure la scelta del complesso altare del duomo di Condrò, con la sua iconografia non proprio ligia ai canoni tradizionali e forse anche del delizioso paliotto ricamato in stile rocaille, in cui la figura della Vergine sembra opera di uno dei rinomati pittori messinesi del tempo? Certo è che l’opera tessile, finora inedita, si viene ad annoverare tra gli altri manufatti all’incirca coevi, dotati di simili caratteristiche artistiche, dei quali si è dato conto su questa stessa rivista(5), ai quali sono da aggiungere altri significativi inediti, come la pianeta con la figura dell’Assunta della parrocchia di S.Maria Assunta di Pozzo di Gotto (fig.15) o lo stendardo della Madonna del Rosario della chiesa di S. Domenico di S.Angelo di Brolo (fig.16),
i cui centrali risultano delineati da pittori locali ancora da indagare che prestano la loro opera nell’affascinante settore dei tessili siciliani.
Elvira D’AMICO, Palermo, 10 Novembre 2024
Note