di Claudio LISTANTI
Nell’attività del Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto c’è anche una sezione dedicata agli Intermezzi del ‘700, un cospicuo spazio dedicato alla riproposta, in chiave attuale, di questo particolare genere musicale che ha avuto terreno fertile nella produzione musicale del XVIII secolo.
Da quasi tre lustri l’Istituzione guidata da Michelangelo Zurletti ha inserito nel programma dei vari festival proposte stimolanti e di indubbio valore storico-musicologico che hanno arricchito la valenza artistica della programmazione musicale. Nel corso di questi anni, inoltre, la preziosa attività si è rafforzata grazie alla collaborazione con il Centro Studi Pergolesi dell’Università degli Studi di Milano, diretto dal musicologo Claudio Toscani, che ha consentito delle riproposte scientifiche degli intermezzi settecenteschi supportate dalla pubblicazione di edizioni critiche nate da studi specifici che hanno portato ad un approfondimento della materia.
Per il 2021, anno importante per il teatro Lirico Sperimentale di Spoleto che celebra il ragguardevole traguardo dei 75 anni vita, è stato presentato l’intermezzo L’ammalato immaginario di Leonardo Vinci che, per l’occasione, è stato presentato nell’edizione critica approntata da Gaetano Pitarresi eseguita per la prima volta. C’è da ricordare che questa produzione è stata possibile grazie al sostegno della Fondazione Francesca, Valentina e Luigi Antonini.
Una proposta di grande spessore soprattutto perché relativa ad uno dei più grandi compositori della cosiddetta Scuola Napoletana che, nonostante la sua breve vita (1696-1730), occupò un posto di rilievo a Napoli, che all’epoca era il centro assoluto della cultura musicale italiana ed europea. Leonardo Vinci nato nella cittadina calabrese di Strongoli, nel 1708 intraprese gli studi musicali presso il Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo, uno dei quattro esistenti allora nella città partenopea. Rimase attivo fino alla sua prematura morte avvenuta nel 1730, per la quale non ci sono notizie certe circa la causa, ma lasciando numerose opere serie e buffe accanto a diverse cantate, oratori e musiche strumentali. La sua fama, ovviamente, superò i confini di Napoli e lo portò a comporre anche per Venezia e, soprattutto, per Roma dove fu molto attivo fino a pochi mesi dalla morte.
Nel 700’ napoletano, come da consuetudine consolidata, c’era la tradizione di inserire negli intervalli di un’opera seria, alcuni interventi di carattere comico o brillante, con l’intento di stemperare quel clima torvo conseguenza dei tremendi fatti in essa narrati per indurre ‘sollievo’ nello spirito dell’ascoltatore. Le scene comiche de L’ammalato immaginario furono inserite all’interno dell’opera seria L’Ernelinda, andata in scena al teatro San Bartolomeo di Napoli nel 1726, su un libretto di Francesco Silvani. Oggi è del tutto fuori repertorio anche se nel 2015 è stata proposta ad Alessandria, restando però praticamente sconosciuta, non solo al grande pubblico ma, anche, presso la più gran parte degli addetti ai lavori.
Il titolo L’ammalato immaginario lascia intravedere certamente una ispirazione a Molière, avvalorata anche dal fatto che c’è un riferimento al numero dei clisteri ai quali si è sottoposto il protagonista e al travestimento da medico da parte del personaggio femminile ma in una diversa situazione; nonostante questi elementi non è certo avvicinabile al capolavoro teatrale del commediografo francese. Possiede anche la particolarità di essere in tre parti contro le consuete, e canoniche, due, elemento che ha dato luogo ad ulteriori considerazioni da parte dei revisori.
Le prime due parti sono del tutto lineari. Nella prima vediamo agire Erighetta, giovane prematuramente divenuta vedova ma che vuole riposarsi, scegliendo come vittima Don Chilone, che oltre ad essere ricco e anziano è anche ipocondriaco. Erighetta cerca di convincerlo che il matrimonio è la medicina giusta peri mali di Don Chilone ma egli rifiuta perché il suo medico sostiene il contrario. Erighetta non demorde e gli consiglia di incontrare il suo medico, dottor Guarisci.
Nella seconda ci si sposta in casa di Don Chilone dove c’è l’incontro con il medico che in realtà è Erighetta travestita da dottore, che conferma all’anziano che il matrimonio è l’unica terapia per il suo male. Don Chilone si convince e chiede a Erighetta di sposarlo. La giovane accetta assicurandosi il completo controllo delle sue proprietà. Nella terza parte però si riscontra qualcosa di inusuale. Don Chilone dice di essere sopraffatto fisicamente e spiritualmente, condizione che lo porta alla rottura (separazione o divorzio) tra i due personaggi. Questa ‘sorpresa’, come vedremo, ha stimolato la fantasia dei revisori per dare all’insieme una buona credibilità teatrale.
Il soggetto di questi tre intermezzi inseriti nell’Ernelinda, come mette in evidenza il musicologo Claudio Toscani direttore del Centro Studio Pergolesi che sul programma di sala scrive;
“… aveva già avuto una certa circolazione a Venezia e nel Granducato di Toscana, prima di approdare a Napoli; aveva infatti fornito materia per intermezzi messi in musica, tra gli altri, da Gasparini, Orlandini e Vivaldi”.
Leonardo Vinci, con la sua musica, ne ha certamente lasciato intatto lo spirito comico proponendo un’azione del tutto vivace che ruota attorno ai due personaggi ed al loro spirito.
Per quanto riguarda l’autore dell’edizione critica, Gaetano Pitarresi, ci fa sapere che le fonti sono due copie manoscritte custodite a Montecassino ed a Napoli con il supporto letterario scaturente da una serie di libretti. I criteri di realizzazione, come asserito dal Pitarresi nel programma di sala, sono adottati per “… giungere ad individuare quale fonte sia maggiormente attendibile” e ricercare quale “… eventuale relazione o dipendenza ci sia tra di esse…” e definire “… una partitura più agevolmente fruibile da parte degli esecutori moderni”. Il curatore è poi intervenuto per correggere nella fonte principale eventuali errori e imprecisioni del copista e, infine, proporre una possibile soluzione esecutiva.
Rappresentare gli intermezzi al di fuori della collocazione musicale per la quale furono concepiti e in più adattarli per la moderna pressi esecutiva è uno dei compiti più difficili. Ad esso, nello specifico, hanno provveduto il direttore d’orchestra Pierfrancesco Borrelli e il regista Andrea Stanisci, con una operazione scenica/musicale di particolare interesse.
Come loro stessi hanno chiarito durante la conferenza di presentazione dello spettacolo il loro impegno, perfettamente condiviso da ognuno, è stato quello di produrre una esecuzione che presenti in teatro una rappresentazione del tutto omogenea, come se fosse una opera buffa in nuce, dai caratteri squisitamente ‘sintetici’ che dia al pubblico la sensazione di assitere ad un’opera buffa ‘in miniatura
Per ottenere tutto ciò occorreva in primis dare una continuità drammaturgica ai tre intermezzi rinvenuti. Se i primi due presentano una certa unitarietà, come prima anticipato, il terzo intermezzo alla prima lettura appare alquanto misterioso per la sua difformità con quanto avviene nei primi due e, quindi, occorreva trovare una strada che potesse portare alla piena integrità dell’azione. Pierfrancesco Borrelli ha creato una sorta di cesura tra questi elementi discordanti, inserendo due arie provenienti dall’Ernelinda, “Sì bella mercede” e “Nube di denso orrore”, affidate ad ognuno dei due protagonisti, arie che lo stesso Borrelli ha definito molto opportunamente ‘coturnate’, vale a dire dense di solennità e gravità, caratteristiche delle tragedie in musica.
A raccordo delle due arie un piccolo intervento strumentale, l’allegro dal Concerto n.3 in sol maggiore di Michele Mascitti, musicista originario della zona di Chieti ma molto stimato nel mondo musicale a cavallo del tra ‘600 e ‘700, attivo prima a Napoli e poi operante a Parigi dove morì nel 1760. Tali interventi hanno innanzi tutto evocato quel senso di contrasto, anche qui espresso in modo del tutto sintetico, tra opera seria e opera buffa con il quale lo spettatore settecentesco veniva a contatto durante una rappresentazione dell’epoca come quella di Ernelinda, riuscendo anche a dare un senso di ‘fluidità’ all’azione che termina così in modo del tutto inconsueto vista la mancanza del lieto fine, ma molto comprensibile allo spettatore di oggi per il quale un ‘divorzio’ o una ‘separazione’ di coppia rientra perfettamente negli avvenimenti e nei canoni dai quali è circondato.
Per concludere questo pregevole senso di ‘unitarietà’ dello spettacolo proposto era necessaria anche una vera sinfonia introduttiva, ovviamente mancante nell’originale perché si tratta di tre pezzi staccati e posizionati in momenti distanti tra loro. Borrelli, anche in questo caso ha integrato la partitura con un altro brano di Mascitti, il Concerto n.1 in si bemolle maggiore della struttura musicale del tutto assimilabile ad una sinfonia anteposta all’inizio dell’azione.
A conclusione, oltre a ribadire la validità delle scelte fatte, siamo giunti alla considerazione che il terzo intermezzo, dalle dimensioni evidentemente limitate, non fosse un vero e proprio interludio tra un atto e l’altro ma una scena a sé stante inserita in qualche altro momento dell’opera; anche questa una pratica spesso utilizzata in circostanze analoghe.
La regia di Andrea Stanisci è risultata funzionale a questa idea di spettacolo omogeneo ed unitario creando un allestimento scenico di stampo moderno ma semplice ed efficace e abbinato ai bei costumi di Clelia De Angelis tra i quali spiccavano quelli di Erighetta, colorati e vivaci, specchio delle caratteristiche acute e giovanili del personaggio per una parte visiva completata dalle luci di Eva Bruno.
La medesima cura è stata riservata all’azione scenica e alla parte vocale per le quali, anche qui, sia Borrelli che Stanisci hanno collaborato riuscendo ad ottenere dalla compagnia di canto una recitazione basata su efficaci movimenti scenici del tutto privi di ogni esagerazione e forzature e una esecuzione vocale curata sia nella realizzazione dei recitativi sia nella parte vocale con emissioni misurate ed efficaci grazie alla partecipazione (ci riferiamo alla recita del 10 settembre) di due validi cantanti, il soprano Giorgia Teodoro, primo premio al concorso 2020, una Erighetta dalla voce fresca e ben educata e il baritono Alberto Petricca, un Don Chilone del tutto convincente. La parte scenica era completata dalla parte mimica affidata a Diletta Masetti.
Concludiamo citando la prova del direttore Pierfrancesco Borrelli che ci ha dato una direzione attenta e accurata, funzionale alla realizzazione di quella unitarietà della quale abbiamo diffusamente parlato. Questo grazie al contributo dell’Ensemble strumentale del Teatro Lirico Sperimentale formato da Giacomo Bianchi violino I, Margherita Pelanda violino II, Giuseppe Benedetto viola, Riccardo Viscardi violoncello e Andrea Cesaretti contrabbasso ai quali si aggiunge Davor Krkljus come maestro al cembalo.
Il pubblico convenuto nella splendida sala del Teatro Caio Melisso, luogo ideale per una rappresentazione di questo tipo, pur limitato nel numero a causa delle disposizioni anti-covid, ha applaudito convintamente e a lungo tutti gli esecutori.
Claudio LISTANTI Roma 19 settembre 2021