di Marco FIORAMANTI
L’ENIGMA D’AMORE NELL’OCCIDENTE MEDIEVALE
Edizioni La Lepre, 2017
Intervista ad Annarosa Mattei*
*Annarosa Mattei, amante e studiosa di teoria e storia della letteratura, ha diretto per gli editori Archimede e Le Monnier collane di narrativa e curato l’edizione di classici della letteratura italiana; come autrice -oltre ad articoli e saggi vari- ha pubblicato per Mondadori Una Ragazza che è stata mia madre, Il sonno dl reame e l‘Archivio segreto; il suo ultimo libro, L’enigma d’amore nella civiltà occidentale, edizioni La Lepre, ha ricevuto il Premio Speciale dell’editoria, nell’ambito della edizione 2017 del Premio Internazionale Capalbio Piazza Magenta. L’intervista è stata realizzata per la rivista Articolo 33 dall’artista Marco Fioramanti che ringraziamo per la collaborazione.
Professoressa Mattei, quali ragioni l’hanno portata a occuparsi del cosiddetto ‘amor cortese’?
Ho scritto questo libro nella convinzione che proprio oggi, in un’epoca apparentemente anaffettiva e sorda rispetto a questo tema capitale, abbia senso parlare delle origini del discorso d’amore, dei passaggi necessari a farne esperienza, nel corpo, nell’anima, nel cuore e nella mente. Sono ripartita da un grande libro, Il mistero dell’amor platonico del Medioevo, (1840), di Gabriele Rossetti, contemporaneo di Ugo Foscolo, come lui poeta, critico letterario, patriota, anche lui esule politico in Inghilterra. Leggendo il suo studio accurato e documentato, non troppo ricordato dagli studiosi moderni e solo recentemente ripubblicato, si può riscoprire la bellezza incomparabile e soprattutto le stratificazioni di senso dell’antica letteratura d’amore, capace di andare oltre il piano letterale della parola per svelare il significato allegorico profondo di un’esperienza riservata ai pochi capaci di intenderla. Cento anni dopo, un celebre libro, L’amore e l’occidente (1939) di Denis De Rougemont, va nella stessa direzione, spiegando come l’immagine della donna e l’idea dell’amore, celebrati nella poesia e nei romanzi cavallereschi medievali, vadano necessariamente interpretati come figure simboliche e allegoriche di un cammino iniziatico di conoscenza. Prima dell’introduzione, riporto una bellissima canzone di Guglielmo, duca d’Aquitania, vissuto nell’undicesimo secolo e noto come il primo grande trovatore, per invitare il lettore ad accostarsi all’ “enigma” d’amore iniziando subito a interrogarsi sul senso dei suoi leggeri e mirabili versi, che sembrano dire tutto e il contrario di tutto – Farai un vers de dreit nien (scriverò una canzone di puro niente) – , ponendo al centro dell’esperienza amorosa il quesito del cavaliere sulle ragioni della sua inchiesta, compiuta ‘en durmen sus en cheval’ (dormendo su di un cavallo), in modo simile al paradossale cammino esistenziale di ogni essere umano.
Nella poesia d’amore medievale c’è, dunque, qualcosa di più, che va oltre il livello letterale ed esplicito?
Nel mondo classico e ancora nel Medioevo la realtà e il mondo non sono mai letti in termini piatti e letterali, ma sempre in modo simbolico e allegorico. In questo senso, il tema dell’amor cortese, la cosiddetta fin’amor, femminile in lingua d’oc, acquista certamente il significato di ‘amore per la sapienza’, oltre che per una donna vera e reale. Modello della poesia d’amore sembra essere, infatti, il sublime Cantico dei Cantici, collocato non a caso tra i libri sapienziali della Bibbia. Si tratta, come ognuno sa, di un canto in cui un uomo loda, sin nei minuti dettagli, la bellezza della donna amata, che, secondo molti interpreti, diventa, nella sua totalità, un’immagine figurata della divina ‘sophia’, vale a dire una via d’accesso alla sublime e vera sapienza di Dio. La civiltà fiorita nel dodicesimo secolo, nell’antica e ricca Aquitania, nel sud ovest della Francia, espresse, attraverso i riti cortesi e la poesia d’amore, l’innata aspirazione alla conoscenza degli esseri umani più consapevoli, fondandola per di più sulla parità tra l’uomo e la donna, sulla libertà del pensiero, quindi su una nuova, laica, grammatica morale che liberava la scelta d’amore da ogni vincolo religioso o sociale.
A cosa si deve quest’improvvisa rifioritura della cultura proprio nei territori del Midi?
Il sud ovest della Francia, che i romani chiamavano Aquitania, in quell’epoca, tra undicesimo e dodicesimo secolo, era un punto di confluenza tra culture diverse, che si raccordavano tra loro in modo assolutamente pacifico e oggi impensabile: l’eredità classica conviveva con la cultura islamica mozarabica di provenienza spagnola, oltre che con l’ebraismo e il cristianesimo; le crociate, inoltre, non solo avevano rimesso in contatto oriente e occidente, riattivando pienamente un ininterrotto flusso di idee e conoscenze, ma avevano lasciato libere le donne di amministrare e governare i loro feudi, in assenza degli uomini. Soprattutto la ricchezza e l’autonomia politica dei ricchi teritori del Midi, rispetto al potere centrale del re di Francia e al controllo della Chiesa, favorirono in modo straordinario l’evoluzione dei costumi e la conseguente fioritura di arte, cultura e libertà.
Nei territori aquitani la donna aveva, dunque, pari grado e dignità dell’uomo?
Sì. Nella civiltà cortese occitanica – così chiamata perché si parlava la lingua d’oc – la donna era uguale all’uomo e aveva pari accesso alla cultura. Eleonora d’Aquitania, signora potentissima, divenuta due volte regina, prima di Francia, sposando Luigi VII, poi d’Inghilterra, attraverso il matrimonio con Enrico II, più giovane di lei di dieci anni, ne è l’esempio più illustre. Tutti i suoi dieci figli, inoltre, maschi e femmine, ebbero un ruolo importantissimo nella promozione della letteratura d’amore e, in genere, della cultura, soprattutto le donne. Basti pensare alla duchessa Maria di Champagne e alla sua corte di Troyes, dove trovarono protezione e ospitalità Andrea Cappellano, autore del celebre trattato De amore, e Chrétien de Troyes, che scrisse, su sua commissione, la gran parte dei suoi famosi romanzi cavallereschi, che ebbero a lungo risonanza in tutta l’Europa romanza: basti pensare alla corte di Ferrara, dove, tra la fine del 1400 e i primi decenni del 1500, trovarono un’eco straordinaria nei poemi di Matteo Maria Boiardo e Ludovico Ariosto. Certamente la ricchezza e il potere dei signori del sudovest favorì una cultura raffinata ed emancipata, che non poteva fiorire altrove nelle stesse condizioni e che ancora oggi, per questa ragione, non finisce di stupirci.
I trovatori come riuscivano ad entrare nelle grazie dei vari signori? si proponevano spontaneamente o avevano bisogno di referenze specifiche?
I trovatori erano dei veri e propri professionisti, che prestavano il loro servizio presso le corti, chiamati da quelle dame e da quei nobili signori capaci di intenderne e apprezzarne la raffinatezza, la sensibilità e le capacità artistiche. I trovatori appartenevano a tutte le classi sociali. Spesso erano di umile origine, come Bernart de Ventadorn, figlio del fornaio del castello omonimo, stando a quanto si racconta di lui. Oppure appartenevano alla piccola nobiltà come Marcabru. Spesso, invece, erano nobili e potenti signori, come Guglielmo d’Aquitania. Molte erano anche le donne, le cosiddette trobairitz, le trovatrici, come la contessa de Dia, o i cosidetti jovens, i paubres cavaliers, di rango inferiore, ma partecipi della stessa cultura e degli stessi codici comportamentali.
All’interno della nobiltà c’erano, ovviamente, delle disparità e proprio attraverso la condivisione dei codici cortesi, che regolamentavano il discorso e i riti d’amore, i contrasti potevano essere attenuati e compensati, trovando un’alta forma di espressione. Il cosiddetto jeu d’amour, il gioco del corteggiamento, era, proprio in questo senso, una sorta di rito d’iniziazione, codificato da un sistema di regole, che consentivano al cavaliere di avvicinare la dama secondo un percorso graduale, per imparare a dominare le proprie passioni, arrivare a conoscere se stesso e diventare, in tal modo, un om cortes, capace di intendere pienamente l’esperienza della fin’amor.
Possiamo dire che alla fine dell’anno Mille in quell’area particolare, a sud ovest della Francia, fiorì una sorta di Rinascimento?
Assolutamente sì. Il Rinascimento, la più grande stagione di fioritura delle arti e della cultura, si sviluppa in Italia tra la fine del quindicesimo e l’inizio del sedicesimo secolo, ma trova certamente le sue origini nella meravigliosa ‘rinascenza’ occitanica del 1100. Le regole della vita di corte, della “civil conversazione”, dei rapporti tra l’uomo e la donna, regolati da quella grammatica di vita che ancora oggi chiamiamo “cortesia”, nacquero proprio nelle corti occitaniche dell’antica Aquitania e rifiorirono in ogni dove, nell’Europa dell’epoca, trovando un terreno particolarmente fertile nelle corti italiane, in particolare presso i signori d’Este, a Ferrara, dove l’eredità del discorso d’amore venne raccolta e celebrata nei poemi cavallereschi di Boiardo e Ariosto, fino ad arrivare a Torquato Tasso. Alle origini del Rinascimento troviamo senza alcun dubbio l’evolutissima civiltà delle corti di Aquitania che, anche solo per questa ragione, andrebbe riscoperta e degnamente rivalutata.
di Marco FIORAMANTI Roma 2017