di Francesco MONTUORI
Migranti sull’About
di M. Martini e F. Montuori
CARLO SCARPA
IL MUSEO DI CASTELVECCHIO
Fu Cangrande II della Scala, signore di Verona, a volere la costruzione del castello Scaligero tra il 1354 e il 1356. Ebbe nel tempo funzioni differenti: di difesa militare, di deposito di munizioni e, sotto la dominazione della Serenissima,fu sede dell’accademia di ingegneria militare; solo ai primi anni dell’800 furono completati i lati settentrionale ed orientale per ospitare una caserma francese, e fu realizzato il cortile centrale (fig.1).
In ultimo, nel 1924, venne realizzato, in omaggio al clima eclettico del periodo, un restauro in stile medioevale ed il castello divenne sede delle collezioni civiche dell’ arte veronese. Ma le vicissitudini non erano finite: durante la guerra mondiale il 4 gennaio 1945 i tedeschi fecero saltare il Ponte sull’Adige che fin dalle origini proseguiva con una strada all’interno del Castello e Castelvecchio fu gravemente danneggiato (fig.2).
Il restauro venne affidato all’architetto Carlo Scarpa. “Professore di disegno”, neppure laureato, ma fra i migliori docenti dell’Istituto universitario di architettura veneziano; Carlo Scarpa non volle accettare di fare la trafila della professione né volle prendere mai l’abilitazione per diventare architetto. Solo nel 1963 diverrà professore ordinario, ma in decorazione.
Scarpa pervenne all’architettura attratto dall’esperienza della Secessione viennese. In gioventù aderì al movimento razionalista ma non fu mai convinto razionalista; disprezzava il neoclassicismo che, nella prima metà del ‘900, aveva influenzato molti degli architetti di allora.
Lavorò per anni nelle vetrerie di Murano dove produsse, per forma e colore, eccellenti oggetti; artista mai incline al compromesso, conservò il diritto alla progettazione lenta e consapevole, disegnando e ridisegnando ogni progetto in tutti i suoi particolari, fino a trovarsi soddisfatto della qualità raggiunta.
Siamo nel 1956. Scarpa ha realizzato un solo edificio, il padiglione del Venezuela alla Biennale veneziana. Il resto della sua attività era consistita in interni di negozi, nella sistemazione del museo Correr e delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, nei restauri della Facoltà di Architettura di Ca’ Foscari, in numerosi allestimenti di esposizioni e musei, fra cui il palazzo Abatellis di Palermo. Nel 1957 Scarpa inizia a lavorare al restauro ed all’allestimento del Museo di Castelvecchio; il suo lavoro si compì in due tempi: la prima fase tra il 1957 e il 1964 e la seconda fase tra il 1967 ed il 1975.
Nella prima fase Scarpa si dedicò al restauro della residenza scaligera; furono messe in luce nuove scoperte archeologiche e creata la pinacoteca in un’ala della Reggia.
Quando gli fu affidato l’incarico di rinnovare la museografia delle sale della Reggia destinate ad accogliere la mostra “Da Altichiero a Pisanello”, Scarpa affrontò il restauro della Corte d’Armi, l’edificio ottocentesco voluto da Napoleone, una Galleria composta da sette grandi sale illuminate da grandi bifore e trifore in stile gotico, frutto dei restauri degli anni ’20 (fig.3).
Qui Scarpa scelse di rendere facilmente leggibili le modifiche apportate nel corso dei secoli, ma riuscì a differenziare il suo intervento. Il progetto scarpiano si sviluppò come un’esemplare lezione di restauro. Il processo di elaborazione fu lungo; i momenti salienti furono:
- il congiungimento della Reggia con la Galleria, realizzato grazie ad un sottopasso della strada urbana diretta verso il Ponte sull’Adige;
- La sistemazione del Cortile maggiore con il nuovo ingresso alla Galleria;
- L’allestimento della Galleria delle sculture e della pinacoteca;
- La scelta di collocare il monumento equestre di Cangrande della Scala nel punto di cerniera fra la Galleria e la Reggia.
Il Cortile maggiore
Il Cortile maggiore è il primo spazio che il visitatore incontra entrando al Museo (fig.4).
Il Cortile è delimitato dalle Torri e dalle Mura scaligere mentre il lato opposto è definito dalla caserma napoleonica che Scarpa trasformerà nella Galleria delle sculture. Durante la conversione a Museo del 1923-24 il Cortile era stato destinato ad un giardino all’italiana; Scarpa ne rinnovò l’impostazione legandolo al progetto generale. Propose un disegno organizzato ortogonalmente che si espande dall’interno della Galleria stessa e si arresta prima di toccare il profilo del muro medioevale opposto. Un percorso in lastre di pietra Prun, pietra veronese molto resistente e compatta, affiancato alle nuove fontane, conduce all’ingresso della Galleria delle sculture (fig.5).
La Galleria delle sculture
In una conferenza tenuta a Madrid, entrando nel merito della soluzione adottata per il fronte sul cortile della Galleria delle sculture, Scarpa ammonì l’uditorio: “A Castelvecchio tutto era falso…. Ho dunque deciso quindi di rompere l’innaturale simmetria come lo richiede lo stile gotico”.
Scarpa nel restaurare quest’ala che si affaccia sul Giardino non si limitò dunque a un semplice lavoro di pulizia. Spostò l’entrata, decentrandola e creando un piccolo atrio esterno per accedere all’ingresso (fig.6); distinse l’involucro interno, creando una doppia parete ed evidenziò senza timore l’orditura dei nuovi infissi, rendendoli ben visibili attraverso le preesistenti aperture ogivali gotiche (fig.7).
Ruppe la volumetria originaria realizzando un nuovo volume, un sacello sporgente rivestito esternamente da blocchetti di Prun di varie intensità di colore, dal bianco al rosso, alternati con superfici scabre e lisce (fig.8).
Lo spazio museale è organizzato secondo un infilata simmetrica di stanze con una trave di ferro a soffitto che segue la longitudinalità lungo tutto lo spazio interno. Le pavimentazioni, in cemento fratazzato alternato a ricorsi in pietra Prun, sempre ben distinte dal bordo delle mura, sono disposte ortogonalmente all’asse longitudinale (fig.9).
Anche a Castelvecchio come al Querini Stampalia Scarpa, in corrispondenza degli archi, ricorre all’uso di una canaletta per distanziare la pavimentazione dai blocchi di pietra che rivestono le pareti. Il quadrato che individua geometricamente la pavimentazione di ciascuna delle sei sale espositive, rivela la forma trapezoidale dello spazio come fu realizzato in epoca napoleonica e contrasta con le irregolarità degli ambienti, dando rilievo alla lieve flessione della parete nord che segue l’ansa del fiume Adige (fig.10).
Le pareti murarie dei passaggi ad arco sono rivestite da grandi lastre di pietra rosa a spacco di cava (fig.11). Sulle pareti Scarpa stese intonaci differenziati per la granulometria degli inerti che li componevano. L’accentuarsi delle componenti cromatiche conferisce tocchi di animazione al basso continuo dei grigi chiari e scuri, dei bianchi caldi e freddi che costituiscono il tessuto unitario dell’intero complesso.
La Galleria vibra di ritmi spaziali e di trame contrastanti; le sei aperture ad arco svelano la sequenza serrata delle cinque sale espositive. Scarpa collocò le sculture liberamente nello spazio della Galleria; le opere che richiedevano di essere osservate a tutto tondo furono collocate in modo di invitare il visitatore a circolare fra di esse, scostandosi dall’assialità centrale. Ne sortì uno spazio popolato da sculture che offrì ai visitatori che attraversano lo spazio museale una molteplicità di scorci prospettici (fig.12).
Nella prima sala della Galleria si scopre nuovamente il sacello: molti degli oggetti qui esposti, anche minuscoli, provengono da tombe longobarde; lo spazio creato è intimo ed illuminato solo attraverso la vetrata zenitale. Come nella Galleria delle sculture, la pavimentazione è montata al di sopra del livello del pavimento preesistente. Essa si discosta tuttavia dalla pavimentazione delle altre sale; mattonelle di cotto, di minore proporzioni sono posate perpendicolarmente alla pavimentazione delle sale adiacenti.
Cangrande II della Scala
Una raffinata cancellata scorrevole è appoggiata all’ultimo portale ad arco (fig.13), superato il quale appare un ampio spazio all’aperto destinato alla statua di Cangrande della Scala.
E’ il punto più alto di concentrazione espressiva. Dopo vari tentativi, documentati da numerosi disegni, Scarpa sceglie di collocare la statua equestre di Cangrande in una smagliatura muraria fra la Galleria delle sculture e la Torre della Reggia che domina la strada urbana che, attraversando il complesso castellano raggiunge il ponte sull’Adige. Nella frattura muraria, uno spazio aperto non monumentale conservato come un rudere e liberato dalle aggiunte arbitrarie, aggetta in diagonale un semplice piedistallo sorretto da una trave in cemento armato ad U rovesciato; qui Scarpa sistemò la statua del Cangrande a cavallo. L’apparizione della stupenda statua, ben visibile da molteplici punti di osservazione, costituisce il fulcro di tutto l’intervento, sintesi di rovina, restauro, allestimento (figg.14-15).
Dalla stessa scala che permette di pervenire alla statua di Cangrande si accede infine alle sei sale della galleria del piano superiore destinate a dipinti datati dal XV al XVIII secolo (fig.16). Scarpa ne modificò sostanzialmente il sistema di circolazione, allineando le aperture di passaggio lungo la parete meridionale e permettendo così l’esposizione delle pitture nelle pareti divisorie fra gli ambienti. La pavimentazione in grandi riquadri di cotto levigato sono disposti in modo omogeneo in modo da creare una superficie compatta. La cornice di pietra di Prun ha la funzione di creare una sorta di tappeto ortogonale staccato dalle pareti.
Attraverso il disegno Scarpa arrivò pazientemente a conoscere e capire ogni scultura, ogni oggetto; ne valutò la collocazione con estrema cura, considerò con attenzione le proporzioni dello spazio in cui ogni oggetto doveva essere collocato. Collocò le sculture nella giusta luce, ne dislevò il senso. Il museo di Scarpa non è uno spazio neutrale aperto all’inserimento di qualsiasi opera. Le sculture, come i quadri della pinacoteca (fig.17) sono figure della forma architettonica, figure non giustapposte ma parte organica dello spazio che Scarpa ha progettato.
Scarpa pensa per figure; visitando il museo di Castelvecchio si percepiscono la molteplicità degli spazi e delle visuali, i rumori dell’acqua, i movimenti della luce sulle strutture murarie, la ricchezza dei dettagli, la sensazione tattile dei materiali, ora lisci, ora rugosi. E’ impossibile visitare un edificio di Scarpa con le mani in tasca, bisogna toccare, accarezzare i frammenti, gli intonaci, i pavimenti.
Il classicismo veneto non è come in Alberti, Brunelleschi, Bramante basato su composizioni di solidi volumi tridimensionali; esso proviene dal Serlio, Sansovino, Palladio, Scamozzi che con le loro trasparenze e stratificazioni sembrano spiegare molte complessità del sistema compositivo di Carlo Scarpa.
Francesco MONTUORI Roma 8 novembre 2020