di Francesco MONTUORI
Progetto e Restauro
DUE DISCIPLINE ?
Fra Progetto di architettura e Restauro dei Monumenti si è creata una distanza che tende sempre più ad allargarsi; la divisione fra i due campi appare culturale, didattica, professionale.
Si vanno delineando distinti settori di intervento: i monumenti e le aree vincolate da una parte, la galassia urbana del territorio urbanizzato dall’altra. Quante volte abbiamo sentito dire da Sindaci, Amministrazioni, Istituti destinati alla tutela che il centro storico è il campo del Restauro e la periferia, o il resto del territorio, quello dell’ “architettura moderna? ”.
E’ di questi giorni la polemica contro il progetto per un’addizione degli spazi espositivi del Palazzo dei Diamanti di Ferrara (fig. 1). [E’ proprio di un paio di giorni fa la notizia dello stop al progetto di ampliamento da parte del ministro Bonisoli, n.d.R]
Invece di affrontare il tema del linguaggio architettonico del progetto incriminato si alzano dei veti assoluti: “si vada altrove a reperire gli spazi: questo progetto è come aggiungere un altro canto alla Divina Commedia!” urla Vittorio Sgarbi.
L’Italia è, su questa strada, il paese dove, con maggiore evidenza, questa reciproca separatezza si è venuta manifestando. Si pensi alla creazione, istituzionalizzata, di distinti corsi di laurea e alla legislazione per gli incarichi professionali dove vengono rigorosamente separate le rispettive categorie vincolando rigorosamente la partecipazione alle gare di progettazione.
Il nostro paese è stato, meritoriamente, all’avanguardia nel promuovere la tutela dei Beni culturali e del paesaggio: l’art. 9 della Costituzione recita: La Repubblica…Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Ma la legislazione che ha applicato questo principio costituzionale contiene in sé il limite e le contraddizioni che hanno determinato l’attuale stato di cose.
Il Codice dei Beni culturali e del Paesaggio del 2004 compie lo sforzo più rilevante. Da esso apprendiamo che la legge tutela i Beni culturali ed il paesaggio e cosa essi siano.
Sono Beni Culturali le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o enoantropologico; segue un lungo elenco di cose e fra queste i musei, gli archivi, le ville, i parchi e fra le altre “cose” le pubbliche piazze, vie, strade ed altri spazi aperti urbani di interesse storico artistico.
Sono Beni Paesaggistici le cose che hanno cospicui (?) caratteri di bellezza naturale, le ville e i giardini che si distinguono per la loro non comune bellezza; i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale; le bellezze panoramiche considerate come quadri (sic) e cosi pure quei punti di vista o di belvedere, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze”.
Non si vuole qui tanto ironizzare sulla categoria di tradizionale o di “quadri” o di “godimento pubblico”, la cui vaghezza e soggettività si presta a interpretazioni arbitrarie; interessa il fatto che venga individuato un campo della realtà territoriale, un campo di incerti confini, e sancito un dualismo culturale fra paesaggio godibile e il restante territorio urbanizzato, siano essi centri urbani recenti, periferie o meglio, la galassia urbana, priva di confini, come oggi si configura la caotica compresenza di natura, infrastrutture, nuclei urbani ecc. che caratterizzano come inestricabile continuum la contemporanea geografia territoriale.
DUE CAMPI SEPARATI ?
La suddivisione in due campi presuppone regole, normative procedure e metodologie operative distinte. Ciò malgrado è sempre più forte e diffusa la lamentela per le condizioni di degrado in cui versano, malgrado i vincoli di tutela, i Beni culturali e paesaggistici. Il degrado viene giustamente imputato alla continua riduzione dei fondi per la manutenzione ed il restauro, alla riduzione di personale specializzato, al turismo di massa. Ma domandiamoci: esiste culturalmente un rapporto fra degrado del patrimonio e degrado del territorio urbanizzato ? Esiste cioè una relazione stretta fra le due aree in cui si è voluto distinguere nei due campi dell’antico e del moderno?
In altri termini: il degrado che minaccia Pompei ha una qualche relazione con quello che succede anche al di fuori dei cancelli dell’area archeologica? La miriade di villette, capannoni industriali che assediano le ville venete da Mestre a Treviso ha una qualche relazione con loro degrado? I devastanti parcheggi che assediano i centri storici di Pienza o S. Giminiano hanno una qualche relazione con il suk di botteghe che invadono gli storici borghi, rendendo impossibile di apprezzarne il tessuto medioevale?
Esemplare è il caso di Venezia: sono state censurate le proposte architettoniche di Frank L. Wright, Louis Kann (fig. 2, 3) e quella per un nuovo Ospedale di Le Corbusier, ma al tempo stesso non si riesce a porre limiti al degrado più estremo causato dal turismo che ha eletto questa città museo a luogo di culto.
L’artificiosa suddivisione in “due campi” non impedisce disastri nell’un campo e nell’altro dimostrando l’incapacità a salvaguardare il Patrimonio che si è voluto vincolare con appositi provvedimenti come a rendere meno squallida o perlomeno più ordinata la galassia urbana che stringe d’assedio i cosiddetti luoghi di culto
IL CONTESTO, UNA GABBIA
Alla definizione del campo della tutela corrisponde una precisa metodologia dell’intervento di restauro, un canone del Restauro dei monumenti
- In primo luogo la ricerca storicistica. Essa va applicata allo stato di fatto del Bene o del luogo vincolato. La molteplicità dei segni va ordinata in senso cronologico; al luogo fisico vengono così attribuiti dei significati, un senso che potrà giustificare una scelta all’interno della molteplicità dei segni. Essa farà di supporto alle diverse teorie posticce che giustificheranno le scelte progettuali: la teoria dell’antico splendore, oggi sopravanzata dalla teoria dov’era com’era ed ancora dal intoccabilità dello stato di fatto in assenza di una storia certa.
- Dal luogo al contesto. Il luogo o il monumento si trasformano, attraverso una scelta di valore dei significati, in contesto; esso codifica l’identità del sito e definisce i confini a cui sarà impossibile sfuggire nella redazione del progetto o meglio giustificheranno a posteriori, una volta per tutte le scelte del progetto.
Il passaggio seguente è quindi univocamente determinato: se il contesto edilizio medioevale è il valore da riaffermare, il restauro dell’edificio potrà al limite replicarlo, a meno dei soliti impicci tecnologici non prevedibili all’epoca.
Il contesto nella sua indiscutibile organicità si pone come categoria univoca a priori condizionante le scelte progettuali.
- Di qui la metodologia che vede nel ripristino filologico la strada obbligata e, laddove impossibile, costringe a una sorta di ambientamento cui il segno architettonico dovrà soggiacere al fine di risolvere la dicotomia fra architettura contemporanea e città, territorio e paesaggio.
Si conclude cosi la morsa ideologica che dalla ricerca storicistica di significati porta alla definizione di un contesto che costringe il segno architettonico a seguire un percorso obbligato: c’era un tetto ? si rifarà il tetto; oppure: i partiti sono in pietra, saranno restaurati anche se originariamente erano intonacati; la ricerca storica non ha dato esiti positivi? si conferma lo stato di fatto; si appura che una parte del fabbricato è posticcia rispetto all’antico splendore? sarà evidenziata rispetto al resto del fabbricato negli intonaci o nelle pavimentazioni, orgogliosi di averne denunciato l’estraneità allo stereotipo eletto a modello.
La soluzione più devastante e quella del mix fra intonaco e pietra a faccia vista tanto cara alle soprintendenze, con soluzione che arrivano ad esiti opposti da fare invidia alle pitture astratte.
IL LUOGO, UN ENIGMA
“Abbiamo dimenticato che il patrimonio storico e artistico è la forma (stessa) dei nostri luoghi, un’invidiabile intreccio tra arte e ambiente, un tessuto continuo di chiese, palazzi, strade, paesaggio… opere che hanno un vero significato artistico storico etico e civile solo se in quella rete rimangono inserite”. Con queste parole Tomaso Montanari riassume, nella prefazione all’antologia degli scritti, la visione di Giovanni Urbani, Direttore fra il 1973 e l’83 dell’Istituto Centrale di Restauro.
Fu buon profeta. Il disordine del luogo e dei luoghi da restaurare non ammette semplificazioni. Essi si manifestano ad un attenta osservazione come un enigma refrattario a ricostruzioni cronologiche. Nel tempo si sono arricchiti di una complessità insospettabile: sono stati realizzati nuovi manufatti che hanno trasformato il sito originario, una differente viabilità ha violato i punti di vista originari; aggiunte improprie ma anche nobili (si pensi alla trasformazione di molte chiese medioevali in epoca barocca) e irreversibili trasformazioni hanno violato antichi equilibri e l’ordine originario. Questa è la vicenda che edifici, siti, vaste aree del territorio urbanizzato rappresentano, con i loro segni architettonici che stabiliscono le condizioni in cui agisce il progetto, qualunque progetto, senza distinzioni di campo.
Ripristinare il luogo originario, il suo equilibrio, il suo ordine significa introdurre misure artificiali che “proteggano il luogo” contro il suo inevitabile divenire. Lo storicismo, la ricostruzione del contesto sono nozioni assimilabile al ripristino di un antico equilibrio sperato. E l’equilibrio artificiale dovrà essere protetto mediante la repressione delle innovazioni. Essere in ordine significa essere in equilibrio garantisce al metodo storicista l’unica via della conoscenza.
Al contrario la compresenza di fenomeni urbani disordinati e complessi può diventare il motore di un progetto e che conduce ad un nuovo ordine spaziale. Un nuovo ordine che scaturisce non dalla ricostruzione storicistica dei luoghi ma trae origine ed organizza la complessità instabile dei segni del paesaggio urbano e non, anche non direttamente riferibili al singolo oggetto del restauro. Il tempo è attivo, agisce, produce: all’ordine di una coerenza “logicamente necessaria” prodotto da una razionalità atemporale contrapponiamo il non-equilibrio, l’instabilità , la turbolenta ed irreversibile trasformazione della forma architettonica.
La forma del luogo è il polo dialettico della forma architettonica: il conflitto fra il disordine creatore e il segno architettonico non può risolversi nella figura monotona e reversibile del cristallo ma nella forma ambigua e deformata dell’ordine dei vortici.
I due campi dimostrano di essere un solo campo, quello del progetto riunificato nell’enigma del luogo.
UNA METODOLOGIA PROGETTUALE UNITARIA
Fa voti che ti sia lunga la via. / E siano tanti i mattini d’estate / Che ti vedano entrare (e con che gioia / Allegra) in porti sconosciuti prima
ITACA – Costantino Kavafis 1911
Cosi il poeta interpreta il viaggio di Ulisse verso Itaca: quanto più lungo tanto più ricco di conoscenze, “ Ma non precipitare il tuo viaggio. Meglio che duri molti anni, che vecchio tu finalmente attracchi all’isoletta, ricco di quanto guadagnasti in via….
Il viaggio di Ulisse è da sempre la metafora della conoscenza: un viaggio imprevedibile e, quanto più lungo, tanto più ricco e aperto a molteplici soluzioni. In questo viaggio Ulisse darà prova di astuzia e di ingegno nello sfruttare le occasioni che gli permettono la sopravvivenza; alla fine del viaggio sarà diventato più saggio ed esperto.
La sua qualità è la metis, la ragione astuta; essa opera laddove si affrontano forze antagonistiche, la conservazione e la trasformazione. Ugualmente la metis governa il progetto sull’esistente quando il conflitto fra luogo e progetto rischia di scivolare verso l’opaca oggettività, l’esperienza del passato dove “non possono esserci sorprese” o, in alternativa, verso scelte soggettive di costruzione del futuro.
La metis si oppone dunque alla ragione del dominio illuministico sulla natura, alla tentazione totalizzante nel controllo dei processi sociali e di trasformazione della città; presuppone una progettualità in cui soggetto e luogo sono reciprocamente implicati e condizionati; implica l’attenta valutazione delle resistenze e delle retroazioni; presuppone che il progetto interagisca con il luogo e non raggiunge l’obbiettivo in modo lineare; usa stratagemmi aprendosi vie traverse, oblique, tortuose per raggiungere il risultato figurativo che si prefigge.
La crisi del Movimento moderno in architettura sta tutto nella pretesa dei grandi maestri del primo novecento di voler dominare integralmente la forma della città e di non tener conto dell’ esistente se non come passato da negare.
Rappresentativa di questo conflitto è l’esperienza di Le Corbusier; essa ha inizio con la proposta di una nuova città” (fig.4) per il futuro di Parigi:
sullo stesso disegno che esprime la sua idea si confrontano il quartiere storico del Marais che si progetta di demolire e la proposta dei Grattacieli che si propone di edificare sullo stesso sito. Quarant’anni dopo l’esperienza professionale di questo grande maestro si conclude con il progetto, inopinatamente respinto, del nuovo Ospedale di Venezia (fig.5):
un edificio sospeso sulla laguna dalla struttura geometrica modulare assai più complessa e articolata che, senza concedere nulla al cosiddetto ambientamento dei segni architettonici, fa i conti con la struttura urbana della città mediando la dimensione degli isolati, l’altezza degli edifici, il rapporto fra spazi aperti e costruiti.
Un percorso emblematico per una sintesi fra forma del luogo e forma del progetto.
Francesco MONTUORI Roma gennaio 2019