di Francesco MONTUORI
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M.Martini e F. Montuori
UN’ ARCO DI TRIONFO PER UN RE
L’Arco di Trionfo di Alfonso il Magnanimo
Castel Nuovo è una possente fortezza turrita voluta a guardia del porto di Napoli da Alfonso I d’Aragona; fu eretta a partire dal 1443 nel luogo in cui era un tempo la residenza fortificata di Carlo I d’Angiò.
Rivestito in piperno il Castel Nuovo è caratterizzato da cinque torri: la torre del Beverello, su cui per secoli è sventolato il vessillo del sovrano; la torre d’Oro, a protezione dell’ingresso, le torri di Mezzo e di Guardia che serrano l’Arco di Trionfo, opera fondamentale dell’arte italiana del Quattrocento. L’Arco celebra le campagne militari e l’ingresso trionfale a Napoli di Alfonso d’Aragona il Magnanimo, il 26 febbraio del 1443 (fig.1).
L’opera fu realizzata da artisti italiani, fra cui Pietro de Martino e Francesco Laurana, negli anni che vanno dal 1453 e il 1468. Segue l’esempio dei modelli romani, in particolare l’Arco di Trionfo a tre fornici che Costantino volle erigere all’inizio della via dei Trionfi; eretto nel 315 per volontà del Senato e del Popolo romano a ricordo della vittoria su Massenzio, fu decorato con rilievi e sculture delle imprese di Traiano, Adriano, Aureliano e infine da rilievi del Trionfo di Costantino sui Daci e la vittoria di Ponte Milvio.
La costruzione della fortezza angioina iniziò nel 1279 sotto il regno di Carlo I d’Angiò, che volle, per esigenze strategiche, una reggia prossima al mare. I lavori furono affidati agli architetti francesi Pierre de Chaulnes e Pierre d’Angicourt.
Carlo d’Angiò non vi abitò mai, ma vi si stabilì il figlio Carlo II, che fece nuovi lavori di ampliamento. Gli Angioini furono all’epoca la più importante dinastia d’Europa; durante il regno di Roberto d’Angiò il Castello diventa importante centro di cultura; qui vi soggiornarono artisti, medici, letterati e fra questi Giotto, Petrarca, Boccaccio. Fu durante il periodo angioino che fra le mura di Castel Nuovo si verificò uno dei più famosi eventi del medioevo napoletano: il “gran rifiuto” di Celestino V, il 13 dicembre 1294, nella Sala detta del Tinello. Dopo dieci giorni nella stessa sala il Conclave elesse papa Benedetto Caetani che prenderà il nome di Bonifacio VIII. Dietro consiglio di Carlo d’Angiò, Celestino V fissò la sede della curia a Castel Nuovo, dove fu allestita una piccola stanza in cui Celestino si ritirava a meditare e pregare.
Il Castel Nuovo rappresentò per Napoli il vero centro del potere regale: situato nel porto della città, era prossima ai castelli di Castel Capuano e Castel dell’Ovo. Ritenendo che i castelli sul mare non fossero sicuri, la scelta cadde sulla zona non ancora urbanizzata del campus oppidi, che divenne il nuovo polo di espansione della città. Dell’edificio angioino si conserva oggi la sola cappella Palatina, mentre sono perdute le slanciate torri, probabilmente a base quadrata.
Una prima proposta progettuale fu disegnata forse dal Pisanello, esponente del gotico internazionale, presente a Napoli tra il 1447 e il 1454; il suo progetto anticipava la soluzione di più torri di cui la principale presentava in facciata la sovrapposizione di due arcate, una loggia terminale ed archi aderenti a schemi tardogotici.
Il Castrum Novum si deve alla ricostruzione di Alfonso I d’Aragona. Questi, nel 1453, affidò la ristrutturazione della reggia-fortezza all’architetto aragonese Guillem Sagrera, catalano (fig.2).
Quattro possenti torri furono realizzate e una quinta torre fu aggiunta per meglio inquadrare l’accesso; la facciata principale è rinserrata fra tre torrioni: la torre di san Giorgio, la torre di mezzo e la torre di Guardia (fig.3). Dell’edificio angioino venne conservata solo la cappella Palatina, nel cortile del Castello, con i frammenti del ciclo ad affreschi di Giotto. Il Castello assunse l’aspetto attuale: le possenti mura angolari rivestite in piperno, il basamento a scarpa obliquo e i corridoi merlati che consentivano un efficace uso delle nuove armi da fuoco. Fra le mura guerresche che collegano le torri della fortezza, sorge la tessitura di bianco marmo dell’Arco di Trionfo di Alfonso d’Aragona, il Trionfo del Magnanimo (fig.4);
per più di dieci anni, anche dopo la sua morte, avvenuta nel 1458, vi lavorarono numerosi artisti, ma è certo che l’idea di una architettura decisamente scultorea, incastrata fra le mura di difesa, fu di Francesco Laurana, uno dei prìncipi del Rinascimento italiano.
L’uomo che, sconfitti gli Angioini, inaugurò il periodo aragonese ricorse a tutte le sue prerogative di sovrano vincitore perché quell’arco sorgesse; i posteri dovevano sapere che Alfonso era entrato a Napoli come un duce romano.
Il 26 febbraio 1443 il corteo percorse le strade principali di Napoli, con i napoletani plaudenti ed osannanti. Così avvenne l’ingresso trionfale in Napoli di Alfonso d’Aragona detto il Magnanimo e così quell’ingresso trionfale fu raffigurato, dai maggiori scultori del tempo, sull’Arco di Trionfo di Castel Nuovo, monumento fra i più insigni del Rinascimento italiano. A volere l’Arco fu Alfonso in persona; fu lui che si battè con tutte le forze affinchè quell’Arco sorgesse.
Alfonso d’Aragona era nato nel 1394; la regina di Napoli Giovanna II^ Durazzo d’Angiò, priva di discendenti, fece atto di adozione per Alfonso che governò con il nome di Alfonso I di Napoli. Decise per prima cosa di ricostruire Castel Nuovo, allora ridotto in rovina, e di farne una reggia, oltre che una fortezza. Designò un gruppo di architetti catalani, il più importante dei quali era Guglielmo Sagrera e a loro affidò la ricostruzione del castello. Il disegno fu fatto, quasi certamente da Francesco Laurana; Pietro di Martino si assunse il compito di realizzarlo; entrambi collaborarono alla decorazione scultorea dell’Arco (fig.5).
Il castello, sorto fra il 1279 e il 1283 per volere di Carlo I d’Angiò, fu completamente trasformato per glorificare la dinastia aragonese che aveva spodestato quella degli Angioini.
L’Arco consta di tre ordini sovrapposti: il primo, un vero Arco di trionfo romano, porta scolpiti, nella trabeazione, due grifi che reggono lo scudo della casa aragonese; il secondo ordine evoca l’ingresso trionfale in città di Alfonso d’Aragona (fig.6);
il terzo ordine è rappresentato da un attico. I tre ordini sono chiusi da un timpano; all’apice dell’Arco di Trionfo è la statua di San Michele Arcangelo (fig.7).
La sovrapposizione degli elementi ricorda gli archi trionfali di epoca gotico-romanica e rimanda all’idea di romanità rivisitata nel medioevo e alla riscoperta dell’antico in ambito umanistico. Modelli imperiali romani furono introdotti da Francesco Laurana, sotto l’influenza determinante della nuova concezione albertiana dell’architettura rinascimentale (fig.8).
Una descrizione puntuale dell’Arco di Trionfo dal basso verso l’alto dimostra la complessità della vicenda aragonese e della decorazione scultorea che la illustrò:
– le decorazioni in bassorilievo dello zoccolo di Isaia da Pisa;
– al primo livello le colonne corinzie binate dell’arco principale; sul sottarco i bassorilievi di Alfonso tre i congiurati, i capitani, la Partenza per la guerra, gli ufficiali e il rientro vittorioso del Re (fig.9);
– le figure dei grifi reggenti sopra l’arco con lo stemma di Alfonso d’Aragona (fig.10);
– al secondo livello: il fregio del corteo Il re, ammantato di porpora, e, seduto al trono, al riparo di un baldacchino, su un carro tutto d’oro trainato da quattro cavalli bianchi, opera principale di Francesco Laurana (fig.11); sull’edicola a destra l’inizio del corteo con i suonatori a cavallo dell’artista pisano Antonio di Chiellino; a sinistra il corteo dei dignitari e ambasciatori di Pietro di Martino;
– sotto l’Arco superiore che si apre tra colonne ioniche binate, era in origine collocata la statua di Alfonso d’Aragona;
– in alto nell’attico superiore le quattro statue rappresentanti le virtù: sulla destra la Fortezza di Isaia di Pisa e la Prudenza di Guglielmo Sagrera; sulla sinistra La Giustizia di Francesco Laurana e accanto La Temperanza di Domenico Gagini.
– nel coronamento le due grandi figure dei fiumi sono a sinistra di Paolo Romano e a destra di Domenico Gagini;
– all’apice dell’Arco di Trionfo San Michele Arcangelo dello scultore tarragonese Père Joan, attivo a Napoli dal 1450 al 1458 (fig.12).
Con Alfonso il Magnanimo, il Maschio angioino subì radicali opere di consolidamento e ristrutturazione.
Furono creati ambienti sontuosi. Nel cortile, una scala esterna conduce alla sala dei Baroni, così detta dai feudatari fedeli agli Angiò, qui fatti arrestare e decapitati nel maggio 1487 da Ferrante I d’Aragona, figlio primogenito di Alfonso (fig.13).
E’ un vasto ambiente quadrato, perfettamente cubico con un soffitto tipico dell’architettura gotica iberica, con volte a costoloni che, a 28 metri di altezza, disegnano un’enorme stella (fig.14).
La cappella Palatina si apre sul cortile della fortezza con un portale rinascimentale ornato da sculture di Andrea dell’Aquila e sovrastata da un rosone; è l’unica testimonianza supersite della reggia angioina (fig.15).
All’interno pochi frammenti documentano l’importante ciclo di affreschi realizzati intorno al 1330 da Giotto e già in rovina nel XV secolo.
Molte furono le traversie del Maschio angioino; nel corso degli avvenimenti bellici che videro i Francesi contrapposti agli Spagnoli il castello fu più volte saccheggiato e solo nel 1734 con l’incoronazione di Carlo di Borbone riassunse l’antica dignità; nel 1799 i Francesi vi proclamarono la costituzione della Repubblica partenopea.
La porta bronzea del Maschio è oggi conservata a Palazzo Reale; i battenti erano formati da pannelli con cornici decorate e medaglioni raffiguranti re Ferrante d’Aragona, la regina Isabella Chiaramonte e Guglielmo Monaco. Fu soprannominata la vittoriosa grazie alla rappresentazione di varie imprese vittoriose di re Ferrante come la disfatta degli angioini e l’entrata vittoriosa dell’esercito napoletano nella città assediata.
Benedetto Croce dedicò al Castel Nuovo un racconto nella sua opera sui Miti e leggende napoletane; ricorda che il Maschio venne a lungo utilizzato come carcere:
“Era in quel castello una fossa sottoposta al livello del mare, oscura, umida nella quale si soleva cacciare i prigionieri. Ma di là i prigionieri sparivano: un giorno si vide un inatteso e terrifico spettacolo: un coccodrillo che con le fauci afferrava per le gambe un prigioniero e se lo trascinava in mare per trangugiarlo”.
A portare il coccodrillo a Napoli sarebbe stato Ferrante di Aragona che lo utilizzò per gettar loro i Baroni dopo la congiura ordita contro di lui.
Francesco MONTUORI Roma 12 dicembre 2021