di Vitaliano TIBERIA
TITO: ARTE COME ESTETICA E FEDE
Il 7 di ottobre, nei suggestivi ambienti di SALA 1 Centro internazionale d’Arte Contemporanea e dell’Associazione culturale TRAleVOLTE, si è inaugurata la mostra di pittura e scultura TITO ARTE PASSIONE.
La manifestazione, che resterà aperta fino al 30 ottobre 2021, coincide con i primi trecento anni di vita dell’Ordine dei Passionisti. L’elegante catalogo, delle Edizioni Palumbi, di Teramo, si avvale di una presentazione di P. Ottaviano D’Egidio, che vi presenta tre sue poesie cristologiche, di due saggi critici di Roberto Tagliaferri, Il Tragico nella Passione di Gesù. La poetica artistica di Tito Amodei, e di Giuseppe Appella, Tito: l’immagine come fluire del quotidiano e disegno divino, e di un dettagliato contributo biografico dell’artista di Rosamaria Mariano.
Fra questi scritti si trova anche una riflessione estetica breve ma intensa, Le mie Deposizioni, dello stesso Tito, che non apprezzava i facili compromessi e, fin dagli anni Sessanta del secolo scorso, denunziava
«[…] lo scadimento di tutte quelle immagini religiose dolciastre che imperversavano, ed imperversano, nelle chiese e nella devozione dei fedeli. Proprio in quegli anni avevo iniziato quella campagna di denuncia contro svilimento della iconografia sacra contemporanea. Un impegno personale e convinto per ridare al più grande dramma della nostra salvezza (e a tutti i misteri che dalla stessa hanno avuto origine) la potenza e la sacralità che quel dramma esigeva».
Tito è stato il poeta delle trasposizioni geometriche in seducenti ed ispirate forme plastiche, senza cadere nel dogma estetico di un facile monumentalismo; come osserva Giuseppe Appella, non si è fatto sedurre «dal monumento commemorativo o dal rilievo decorativo», e neppure ha rinnegato la civiltà estetica da cui proviene.
Tito, soprattutto nella scultura, “costituisce” brandianamente l’oggetto della sua indagine sul mistero della sacralità, per formulare quindi immagini libere da scontate premesse concettuali, e intrise delle intense suggestioni formali che affiorano dal tormento strutturale, senza condizionamenti ideologici, di materiali come il legno, il ferro, la pietra. In questo senso, come ha sottolineato Roberto Tagliaferri, Tito ha recuperato il primato della simbolicità, come capacità di incontrarsi pur senza essersi fisicamente conosciuti, per godere di un’eredità spirituale condivisa ab antiquo.
In questa sede voglio ricordare un aspetto di Tito meno noto, quello del teorico e del saggista.
Ho conosciuto Tito nel 1983, nel salone dei Cento Giorni, in palazzo della Cancelleria, quando ambedue fummo cooptati nella Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon. In quella seduta accademica pubblica entrarono a far parte del Sodalizio dei Virtuosi personalità artistiche illustri come Angelo Canevari, Dilvo Lotti, Ennio Tesei, Felice Ludovisi, che furono “apri pista”, di lì ad una manciata d’anni, degli ingressi di Ernesto Lamagna, Bruno Liberatore, Guido Veroi.
Erano gli anni, in cui Giovanni Paolo II, raccogliendo l’eredità intellettuale di Paolo VI, apriva, anzi, parafrasando una felice quanto suggestiva sua espressione cristologica, spalancava le porte agli artisti con pastorale entusiasmo ma anche con la convinzione che l’arte e la cultura sono vettori essenziali nello sviluppo di un nuovo umanesimo cristiano dedicato alla bellezza. La Lettera che indirizzò loro nel 1999, chiudeva un millennio ed apriva il nuovo secolo nel segno della via pulchritudinis; il tema che divenne il pilastro fondante del Pontificio Consiglio della Cultura, voluto in quegli anni Ottanta da papa Wojtila, che lo affidò alla guida magistrale del cardinale Paul Poupard, reduce dalla direzione del Pontificio Seminario di Parigi; e Poupard, da esperto pedagogo, svolse, su quella traccia, una importante pastorale della cultura, sostenendo con entusiasmo la rinascita dell’Accademia dei Virtuosi al Pantheon, dopo un periodo di sua non breve decadenza.
Tito fu tra i protagonisti di quella nuova stagione di speranze millenaristiche, contribuendo alla sua fioritura con una innovativa produzione artistica ed anche con varie riflessioni sul rovente tema dell’estetica religiosa e sui problemi della conservazione delle opere d’arte di pertinenza ecclesiastica. E volle pubblicare le sue riflessioni anticonvenzionali non in sedi ecclesiastiche ma sugli “Annali della Pontificia Insigne Accademia di belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon”, la rivista annuale d’arte, di storia, critica, letteratura, musica e poesia, da me fondata nel 2000 e diretta fino al 2016, quando è stata abolita, per dar spazio ad una pubblicistica on line sullo svolgimento delle varie operazioni estetiche.
Quella rivista era strettamente collegata al nuovo Statuto dell’Accademia decretato da Giovanni Paolo II nel novembre del 1995, del quale rispecchiava l’articolazione in cinque Classi accademiche. In quella sede annalistica, in cui si presentavano contributi di arti e lettere, Tito presentò riproduzioni delle sue opere di scultura ma anche scritti. Il primo di questi è del 2012 e apparve nel numero degli “Annali…” dedicato all’anno della fede, decretato da Benedetto XVI. L’argomento fu le icone con un titolo provocatorio, Attenti alle icone, che mirava a scansare i rischi sia dell’apologia che del rifiuto di questa particolare forma artistica d’origine orientale. Tito avvertiva che
«[….] l’icona è un pianeta a sé nella storia dell’arte [….] l’icona gallegia sovrana e solitaria, sempre uguale a se stessa, figlia sola dei suoi rigidi canoni e dello sforzo sovrumano di rivelare il trascendente».
Egli assimilava l’icona all’immutabilità della liturgia in quanto rivelatrice dell’invisibile, anche se consapevolmente ne sottolineava la distanza netta dalla cultura occidentale contemporanea, soprattutto laica, proprio perché l’icona va oltre il simbolismo dei sistemi linguistici per attingere l’ineffabile.
Per tentare di chiarire quindi la contraddittoria presenza–assenza dell’icona, Tito ricordava un padre dell’Astrattismo, Malevic, che, nel groviglio delle Avanguardie, annientò le cose per vitalizzare un’arte senza contingenze dell’oggettualità, sublimata nella scansione ritmica, ovvero nell’assolutezza del bianco e del nero. L’assenza di pittura tradizionale del Suprematismo di Malevic, rappresentata dal Quadrato nero su fondo bianco, era così paragonata da Tito alla rinunzia da parte dell’icona ai giochi della forma naturalistica, ferma restando la distanza religiosa e filosofica di quelle teorizzazioni.
Le riflessioni di Tito, come ho accennato, non si esauriscono sui temi filosofici dell’arte. C’è, forte ed orgoglioso, un suo impegno civile, che si manifesta nell’articolo Musei per i beni ecclesiastici, pubblicato sugli “Annali…” del 2013.
Qui egli tratta l’argomento dei musei costituiti con opere di proprietà ecclesiastica, le quali, sradicate in varie epoche e per diversi motivi dai loro originari contesti, hanno perduto molta parte dei loro significati in vantaggio di valutazioni qualitative o mercantili, perdendo talora anche la loro integrità fisica, come è avvenuto nel caso degli smembramenti di polittici, secondo logiche di godimento privatistico contrarie ai loro significati simbolici e alla loro destinazione pubblica.
Attualizzando sul piano pratico l’argomento, Tito sottolineava il valore morale e culturale dell’arte e la necessità di inventari e di cataloghi delle opere d’arte, per una consapevole ed efficace conservazione nei luoghi della loro originaria destinazione; nello stesso tempo, auspicava una stretta e leale collaborazione della componente ecclesiastica con le Autorità statali preposte alla tutela, per garantire interventi conservativi secondo la legittima teoria e pratica del restauro di fondamento tecnico-scientifico.
L’ultimo scritto di Tito su “Annali…” è del 2014 e reca un titolo già di per sé eloquente: Santino sì santino no. Qui si manifesta a tutto tondo la vis polemica di Tito, brillante scrittore dei ricordi dei sentimenti affettuosi, soprattutto quelli dell’infanzia, e delle ragioni dell’attualità. Parlando dei santini, osserva:
«Gli sono legato misteriosamente con un filo sotterraneo […]. In maniera sottile, quasi furtiva, [scil. il santino] riesce ancora a insinuarsi anche nella più aggiornata cultura figurativa o teologica, per carpirmi una sia pur minima attenzione e, ancora più subdolamente, scampoli di emozioni. Però nelle mie decise prese di posizione contro la paccottiglia che si mette nelle chiese, il santino diventa il termine di paragone più offensivo che abbia mai trovato. Nel passaggio dalla mentalità devozionale seminaristica per le immagini alla coscienza professionale dell’artista, il santino galleggia davanti a me come una vergogna […]. Santino sta per irredimibile squalifica, sotto il profilo artistico […].».
In conclusione, Tito ha trattato questo spinoso argomento con equilibrata partecipazione, distinguendo le ragioni della vocazione da quelle della professione, i moti del cuore, la dolcezza dei ricordi e gli affetti dell’anima dalle esigenze oggettive dell’estetica, soprattutto se ispirata da temi religiosi; questa, agli occhi “illuminati” di Tito, non poteva appiattirsi su scontati ed esausti linearismi del passato, ancor più insignificanti per chi, come lui, è stato poetico interprete delle possibilità simboliche delle figure geometriche nella scultura.
Vitaliano TIBERIA Roma 10 ottobre 2021