L’Arte e l’Antisemitismo. La rappresentazione pittorica degli ebrei, dal nord Europa alla Roma di Caravaggio.

Francesca SARACENO

Il Giorno della Memoria, che si celebra ogni anno il 27 gennaio per ricordare il dramma della Shoah, fornisce l’occasione di riflettere su quanto certi stereotipi sulle persone di religione ebraica, siano ormai radicati nel sentire comune, anche in virtù di come l’arte le ha rappresentate nel tempo. L’antisemitismo ha radici lontane, che segnano il confine drastico (a volte tragico) di quella spaccatura insanabile tra ebraismo e cristianesimo. Nel momento in cui la figura di Gesù viene ampiamente riconosciuta come l’incarnazione del Messia atteso dal “popolo eletto”, si compie anche il prologo del Vangelo di Giovanni:

“Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto.” (Gv 1,11)

Gesù era ebreo, e in quelle poche parole c’è già il seme di una incomprensione, di una incomunicabilità, che sfocerà in una ricusazione reciproca tra credi religiosi – per forza di cose – diversi, eppure “fratelli”; tra visioni del mondo e della vita fondate su premesse “estreme”: l’una per tradizione, l’altra per “rivoluzione”. Il Dio terribile degli ebrei diventa il Dio compassionevole dei cristiani; alla legge dell’occhio per occhio si sostituisce quella del perdono; il popolo di Dio non è più solo quello “eletto”, è l’intera umanità.

Ma… “i suoi non l’hanno accolto”, e questo rifiuto ha determinato, nel tempo, un rifiuto uguale e contrario da parte della nuova Chiesa di Cristo; che promulgava il perdono ma non “perdonava” ai fratelli ebrei di non aver voluto riconoscere in Gesù il loro Messia.

E mentre il Cristianesimo si espandeva, facendo proseliti ovunque, secoli di frizioni e conflitti dialettici originarono profonde divergenze tra le due religioni, fino all’accusa più terribile, e cioè che gli ebrei fossero stati i veri “colpevoli” della morte di Gesù. Il racconto evangelico di Giuda che “vendette” il suo Maestro per trenta denari, diventò la macchia infamante che bollava un intero popolo come opportunista, avido e infingardo. Tutto ciò, unitamente all’atavico attaccamento alle proprie tradizioni e a una certa intransigenza di fondo, ha fatto sì che i preconcetti avessero la meglio sui valori cristiani e che il popolo ebraico venisse, gradualmente, sempre più emarginato e guardato con sospetto.

Nel Cinquecento gli ebrei vennero isolati dal resto della popolazione. Il primo Ghetto in Italia fu istituito a Venezia nel 1516. Nel 1555 papa Paolo IV  Carafa ordinò la realizzazione del Ghetto di Roma. Vennero imposte agli ebrei restrizioni commerciali e sul patrimonio personale, il divieto di avere domestici cristiani, l’obbligo di indossare segni distintivi: una “rotella gialla”, un berretto “glauco” a punta per gli uomini e uno scialle giallo per le donne. Il pregiudizio montava e con esso la condanna morale da parte della Chiesa di Roma, che però doveva anche fare i conti con la “ragion di Stato”. La Chiesa Cattolica condannava pesantemente l’appartenenza alla religione ebraica e tutto ciò che essa rappresentava (anche in termini di convivenza con i cattolici), ma doveva rispondere anzitutto a se stessa e, primariamente, al principio che ogni “peccatore” poteva essere redento. La condanna, da sola, non era fruttuosa per nessuno.

La redenzione degli ebrei diventò così una vera e propria missione, ma anche un potente strumento di propaganda politica, utile a diffondere e rafforzare il potere cattolico. Nel 1572 papa Gregorio XIII Boncompagni obbligò gli ebrei all’ascolto delle prediche della dottrina cristiana con l’intento di convertirli. Spezzare la famigerata, coriacea fermezza di un ebreo, riconducendolo all’ovile di Santa Romana Chiesa, era una conquista importante e fortemente simbolica per il papato, anche nell’ottica dell’altra grande “frattura”: quella con i protestanti. Inoltre, per la natura stessa dell’ordinamento morale cattolico, certe attività – per così dire – commerciali non potevano essere condotte dai cristiani, ma l’economia della città e l’amministrazione pontificia, non potevano farne a meno; così, pur condannando l’usura, la Chiesa aveva delegato agli ebrei la gestione dei banchi di prestito. Se non poteva “piegare” il nemico, lo avrebbe usato per i propri scopi, sfruttando una competenza consolidata e indiscutibile nella gestione del denaro, fomentando al contempo quell’aura di diffidenza e di disprezzo che già la popolazione – opportunamente indottrinata – nutriva nei confronti degli ebrei.

Eppure, nonostante tutto, Roma rimaneva almeno formalmente più “morbida” – oltre che pragmatica – con l’ebraismo; gli scissionisti luterani, nel nord Europa, furono molto più rigidi e intolleranti dei cattolici con gli ebrei, fino a rifiutare del tutto, per loro, ogni possibilità di salvezza, considerando la loro condizione assolutamente immutabile. La condanna, a quelle latitudini, era senza appello.

L’arte, in questo particolare periodo storico, fu portavoce di questo clima generale di disapprovazione verso il popolo ebraico e, dal momento che il potere religioso aveva un enorme peso politico, l’arte sacra non poteva sottrarsi dal suo ruolo propagandistico.

E proprio lì, dove l’avversione era più radicale, l’espressione artistica restituiva una realtà quotidiana fatta di disprezzo e biasimo, spingendo maggiormente verso una rappresentazione delle persone ebree fortemente pregiudizievole. Nelle raffigurazioni pittoriche cinquecentesche degli artisti di area nord europea, gli ebrei vengono dipinti spesso in maniera caricaturale e con intento denigratorio.

Un esempio evidente lo troviamo in un dipinto del XVI secolo, attribuito a Hieronymus Bosch; una Salita al Calvario (Fig. 1) dove il Cristo sofferente è letteralmente accerchiato da una folla di personaggi dai volti terribili, volutamente grotteschi, e alcuni riportano proprio i segni distintivi con cui l’ebreo era riconoscibile: i cappelli a punta di colore “glauco”, i nasi adunchi, le espressioni arcigne, “cattive”, quasi sadiche.

Fig. 1) Hieronymus Bosch (attr.) Salita al Calvario, XVI sec., Museum voor Schone Kunsten, Gand, Belgio.

L’artista li raffigura con quell’atteggiamento forzosamente beffardo, intenti ad arzigogolare tra loro, indifferenti alla sofferenza del condannato. Qualcuno pone uno scudo davanti a Gesù come a contrastarne il cammino verso il Gòlgota; anche questa è un’accusa “figurata” all’ebreo ottuso, che vorrebbe impedire il compimento del disegno di Dio, quello che si ostina a negare, ovvero che il Cristo deve essere crocifisso per poi risorgere.

È una scena fortemente simbolica in cui ogni gesto, ogni dettaglio, è strumentale al messaggio che si intende veicolare.

Allo stesso modo, in un’opera del 1520 di Quentin Metsys (o Massys, fig. 2), quattro loschi figuri, dai volti marcatamente caratterizzati, confabulano all’interno di un ufficio; alle loro spalle uno scaffale stipato di grossi volumi, mentre sotto le avide mani, il banco in primo piano è colmo di monete raggruppate in cumuli. Uno dei personaggi ritratti, dall’aria soddisfatta, stringe nel pugno sinistro un grosso sacco che si intuisce anch’esso pieno di denaro, mentre con la destra cinge le spalle dell’amico/complice. È un’evidente tipizzazione dell’ebreo, che diventa lo stereotipo sul quale si alimentano odio e pregiudizio.

Fig. 2) Quentin Metsys (o Messys) Gli usurai, 1520, Galleria Doria Pamphilj, Roma

Una scena simile la troviamo in un dipinto di scuola fiamminga della seconda metà del XVI secolo (fig. 3). Si tratta di un’altra immagine sferzante che trasmette e induce tutto lo sdegno che, anche in quelle zone d’Europa, si provavano verso una “categoria” professionale ovunque detestata e che gli ebrei incarnavano: quella degli Usurai; ma in generale dei banchieri, degli esattori delle tasse, e di chiunque maneggiasse per mestiere “lo sterco del diavolo”.

Fig. 3) Marinus van Reymerswale, Gli usurai, 1540, Museo Stibbert, Firenze

Ne troviamo due, seduti al tavolo di un supponibile banco dei pegni, dove monete e preziosi, insieme al libro contabile, costituiscono una “ambivalente” natura morta: alla ricchezza ritratta corrisponde la puntuale registrazione di un sicuro impoverimento. Anche qui, i volti dei soggetti mostrano i tratti somatici caratteristici degli ebrei; le loro vesti sfarzose non riportano alcun segno distintivo, ma – in questo caso – l’abbigliamento definisce e qualifica esso stesso la persona ritratta, ricca perché “ladra”, e doppiamente indegna perché la sua ricchezza è ottenuta in maniera truffaldina sullo stato di bisogno altrui. E il biasimo diventa monito e condanna nella presenza delle forbici aperte che pendono fatali sulle teste dei due avidi funzionari; insieme al rocchetto di filo sul tavolo costituiscono, infatti, una sorta di memento mori, un richiamo al mito greco delle Parche che intessevano i destini degli uomini per poi tagliare loro il filo della vita nel giorno prefissato.

Le espressioni dei due sembrano non tradire alcuna apprensione: uno ignora del tutto il riguardante, rimanendo attento ai suoi calcoli sul libro contabile, mentre l’altro con fare arrogante rivolge lo sguardo proprio fuori dallo spazio pittorico e, con il dito puntato sulle pagine del vile registro, sembra minacciare che anche noi potremmo finirci dentro. Ma le loro pose hanno anch’esse, come la natura morta di libro e denari, un carattere doppio, perché l’iscrizione visibile su quel volume, in realtà, non riporta calcoli o annotazioni contabili, bensì un duro monito contro l’avarizia, che modifica anche l’interpretazione del dito puntato dal personaggio a destra:

“L’avaro non è mai sazio di denaro, etc. Non ambite a ricchezze ingiuste, perché esse non vi daranno alcun vantaggio nel giorno della Venuta [di Cristo] e del Giudizio. Siate dunque senza avarizia.[1]

Figure fortemente stereotipate, quindi, con intento accusatorio e moralizzante. Attraverso queste scene, e molte altre simili, si delineano i topos caratteristici nella raffigurazione pittorica della figura dell’ebreo, e non solo in ambito fiammingo:

-gli occhiali (perché l’ebreo è cieco di fronte al disvelamento della verità di Cristo)

-abbigliamento elegante e/o il copricapo caratteristico (a punta)

-il naso prominente (che richiama il fiuto per gli affari con intento truffaldino)

-l’ostentazione della ricchezza e l’attaccamento al denaro.

-la “borsa dell’usuraio” o un sacchetto contenente denaro.

In ambito cristiano la rappresentazione iconografica dell’ebreo è molto meno artificiosa. Il giudeo è comunque riconoscibile, “deve” esserlo; ma prevale, nelle raffigurazioni, anzitutto l’aderenza ai canoni pittorici, un senso estetico generale che non rinuncia alla forma per la sostanza.

In un dipinto di Girolamo Muziano della fine del Cinquecento, ad esempio, dove si rappresenta il Martirio di san Matteo (fig. 4), il sicario inviato per uccidere l’apostolo presenta il tipico copricapo a punta di colore blu-grigio (“glauco” per l’appunto), come anche l’uomo in primo piano, raffigurato di spalle in maniera irrispettosa per il riguardante, ne porta uno simile di colore giallo (colore, come detto, anch’esso distintivo dell’ebreo).

Fig. 4) Girolamo Muziano Martirio di san Matteo, 1586-1589 ca., Basilica di Santa Maria in Aracoeli, Roma.

Ma i due personaggi sono raffigurati senza alcuna caratterizzazione particolare, la linea disegnativa, i riferimenti cromatici, sono fedeli ai canoni del tardo manierismo. Pur evidenziando i “colpevoli” mettendoli al centro e in primo piano, tutta la scena risponde primariamente ai principi estetici e iconografici di quel periodo, che rispettavano – peraltro – i dettami tridentini in cui si richiedeva, per le scene di storia sacra, un tono solenne che ispirasse la fede. Il biasimo nei confronti dell’ebreo era indotto comunque, ma senza l’estremismo espressivo dei fiamminghi.

Un altro bellissimo dipinto di Orazio Borgianni, del 1609 ca., raffigura Cristo tra i dottori (fig. 5) e, anche in questo caso, abbiamo un giovane Gesù in piena luce, attorniato da facce torve, scure, dall’espressione e dalla posa inquisitoria; uno, sulla destra, tiene tra le mani il libro delle Scritture col chiaro intento di cogliere in fallo Gesù, mentre il personaggio sulla sinistra è forse quello più caratterizzato e riconoscibile come l’ebreo diffidente, scettico, con i suoi spessi occhiali sul naso adunco, perché non vuole vedere la verità che ha sotto gli occhi, e cioè che quel ragazzino “saccente” è il Messia.

Fig. 5) Orazio Borgianni Cristo tra i dottori, 1609-1612 ca. Rijksmuseum, Amsterdam.

E Gesù si rivolge proprio a lui, al più scettico del gruppo, come a voler rimarcare la ritrosia degli ebrei alla conversione e, al contempo, la “pazienza” e la determinazione dei cristiani – e quindi della Chiesa cattolica – nell’opera di redenzione, giocata peraltro sui temi teologici, dunque a un livello superiore rispetto alla mera condanna morale.

Entrambi questi dipinti, ci riportano, per motivi diversi, a un pittore che ha saputo interpretare le intenzioni della Chiesa in un momento storico particolarmente importante. È proprio nell’anno giubilare 1600, infatti, che Michelangelo Merisi da Caravaggio presenta a Roma, e al mondo, la sua versione della Vocazione di san Matteo (fig. 6); un’opera che diventerà iconica, anche e soprattutto per l’iconografia ricercata e sapientemente espressa, che riesce a comunicare quel messaggio di redenzione così importante per la Chiesa.

Fig. 6) Caravaggio Vocazione di san Matteo, 1600, Chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma

L’intero ciclo dedicato alle storie di san Matteo, nella Cappella Contarelli di San Luigi dei Francesi a Roma, ha come filo conduttore quello della “salvezza”, e l’uso rivoluzionario, fortemente scenografico, che Caravaggio fa della luce, ottiene un effetto straordinario e strumentale a questo scopo.

All’interno di una chiesa collocata su una delle direttrici più importanti nel cammino giubilare dei pellegrini verso San Pietro, l’espressione concettuale e pittorica di Caravaggio si smarca totalmente dalle forzature caratterizzanti nord europee, privilegiando l’aspetto teologico e didattico, interpretando con una chiarezza disarmante il messaggio cristiano e cattolico.

Se nel dipinto di Muziano si rimarcano l’accusa e la condanna nei confronti degli ebrei “assassini”, nella sua Vocazione di san Matteo il maestro lombardo centra l’attenzione sul valore salvifico della chiamata alla conversione, spostando il peso della comunicazione dall’accusa alla possibilità di salvezza. E Borgianni, che del Merisi fu seguace, deve aver assimilato la lectio caravaggesca; non solo nella composizione in presa diretta e ravvicinata, ma anche nell’aspetto concettuale che privilegia il logos, l’opera costante di conversione sui temi teologici.

Caravaggio si rivela interprete raffinato, sorprendente ed efficace, nella struttura stessa del suo dipinto, trasportando l’evento evangelico della conversione del pubblicano Levi alla realtà presente della Roma dell’anno giubilare. Una luce traversa irrompe dall’alto in un interno oscuro, oggi diremmo “underground”, creando immediatamente l’atmosfera dell’evento epocale che sta per compiersi davanti agli occhi del riguardante. Quella luce scenografica, che filtra da una supponibile “apertura”, definisce il fondo della scena evidenziando le figure sedute al tavolo, schiena al muro, indicando loro che il cristianesimo apre un varco di redenzione per tutti: ebrei, protestanti, infedeli di ogni confessione, come potevano essere molti dei pellegrini che confluivano a Roma in quell’anno. E a quel tavolo di gabella c’è, in particolare, un gruppo di ebrei “contemporanei” dei quali due sono molto ben evidenziati dall’artista.

Uno è forse il più stereotipato nei tratti iconografici, ed è l’uomo anziano, in piedi, all’estrema sinistra della tela (fig. 7); presenta gli occhiali sul naso (simili a quelli che userà anche Borgianni nel suo dipinto) da ottuso cieco miscredente, la pelliccia da ricco professionista attaccato al denaro, con gli occhi fissi al tavolo perché neanche una moneta si perda, indifferente e sordo al richiamo di Cristo nonostante la luce che lo investe, e che “chiama” anche lui.

Fig. 7) Caravaggio Vocazione di san Matteo, 1600, Chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma, particolare.

L’altro è il protagonista dell’evento, l’infingardo Levi, esattore delle tasse per conto dei romani; colui che incarna non solo il prototipo dell’ebreo affarista truffaldino, ma quello del “peccatore” a tutto tondo e della peggiore risma. È lui che deve essere salvato, per quelli come lui Cristo è venuto al mondo:

“E già veggio il mio Cristo, ch’a chiamare e pubblicani venne,  / e peccatori, come al primo apparir, sgombra e rischiara la mente di  / Mattheo, ch’ingorda e cieca si stava al mondo in duri lacci avvolta […]”

Riporto i versi che Marzio Milesi scrisse in omaggio alla straordinaria opera del Merisi, perché credo siano dirimenti rispetto all’eterna diatriba tra i critici sull’identità di Matteo nella Vocazione del maestro lombardo; identità che è importante individuare anche nell’ottica dell’argomento che qui si discute, ovvero la rappresentazione artistica dell’ebreo. Il Matteo di Caravaggio, secondo Milesi, è “ingordo e cieco”, con la mente stretta da “duri lacci”. Ebbene, un’ampia maggioranza di esegeti ritiene – da sempre – che il “chiamato” sia il personaggio barbuto, elegante, che con l’indice sinistro sembra indicare se stesso (fig. 8); collocato dall’artista al centro della scena e del tavolo, secondo la critica, in ottemperanza al più classico dei principi pittorici che vuole il protagonista in posizione centrale, proprio perché sia immediatamente individuabile.

Fig. 8) Caravaggio Vocazione di san Matteo, 1600, Chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma, particolare

Ma qui abbiamo a che fare con un pittore che i principi classici li aggirava e rielaborava a suo piacimento e per la maggior resa della sua scena; e questa scena, in particolare, doveva comunicare qualcosa di molto preciso: c’è un farabutto da redimere a quel tavolo, c’è il più cieco, incallito e riottoso degli ebrei da convertire, per la sua salvezza, e per la gloria di Cristo e della Chiesa cattolica.

L’elegante barbuto che drizza un indice, a parte l’abbigliamento ricercato, non ha, a ben vedere, i tratti somatici tipici nelle raffigurazioni degli ebrei (ha carnagione chiara, e capelli e barba rossicci), né l’atteggiamento “cieco e sordo” di chi si trovi con la mente “in duri lacci avvolta”; lui è il più pronto del gruppo ad accorgersi dell’improvvisa presenza di Cristo e Pietro all’interno della stanza, e la sua espressione è solo quella di un uomo sorpreso. La luce traversa sul fondo lo investe, come investe anche il vecchio ebreo alla sua destra e il giovane impennacchiato alla sua sinistra; quella luce che filtra potente li chiama tutti verso l’apertura promessa, ma lascia al di sotto i personaggi più importanti: Cristo e Pietro.

Caravaggio è un sottile sceneggiatore, raffinato interprete della storia sacra, seppure opportunamente “consigliato” dai padri della congregazione di San Luigi dei Francesi; la redenzione costa volontà e sacrificio per tutti, ma per Matteo il disegno di Dio prevedeva un percorso particolare: dal più torbido inferno alla gloria celeste. Esattamente come ce lo racconta il maestro lombardo nella sua trilogia.

Così il Matteo-Levi di Caravaggio si siede a sinistra, in fondo al tavolo della gabella (fig. 9): l’ultimo dei “chiamati”, il primo di tutti noi che guardiamo la scena, peccatori da redimere tanto quanto lui.

Fig. 9) Caravaggio Vocazione di san Matteo, 1600, Chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma, particolare.

Veste abiti vistosi ma trasandati, strapazzati da una vita dissoluta, e assume le sembianze arcigne del più ostile degli ebrei a quel tavolo; il più irriducibile, prostrato adoratore del dio-denaro, l’unico raffigurato nell’atto di “arraffare” monete; l’unico che, nella sinistra, da infido truffatore, nasconde un sacchetto gonfio. Lo nasconde ai presenti, e forse –  più di tutti – lo nasconde all’anziano funzionario che veglia attento sulle operazioni di pagamento, ma non si accorge del furto. Perché se è vero che, come molti artisti dell’epoca, Caravaggio si ispirò anche alla Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, vale la pena riportarne un passaggio in particolare, dove si legge:

“La prima [caratteristica di Matteo, ndA] è la velocità nell’obbedire, infatti appena Cristo lo chiamò egli abbandonò immediatamente l’incarico di esattore e, senza temere i suoi superiori, lasciò incompiuti i conti delle imposte e si dedicò anima e corpo a Cristo”.

È molto probabile che la figura dell’anziano ebreo alle spalle del ragazzo a capotavola sia riferita proprio al controllo delle attività di riscossione di Matteo da parte di quei “suoi superiori”. Per il vecchio “controllore” i segni distintivi dell’ebreo sono evidenti, e così anche per il torbido Levi che riesce a truffare tassati e tassatori…

Proprio a lui, a questo inqualificabile individuo, è rivolto, secondo una diversa lettura del dipinto, l’indice puntato dell’elegante barbuto, il quale sembra non capacitarsi di come Gesù voglia “chiamare” a sé proprio quel farabutto, ladro impenitente. Ed è a questo punto che il pennello di Caravaggio compie il “miracolo” della redenzione; che passa – non a caso – per un altro dito puntato, quello michelangiolesco del Cristo-nuovo-Adamo il quale, coadiuvato dalla mano di Pietro – ovvero “la Chiesa” – chiama Levi alla nuova vita che lo attende. E la luce che investe il volto, il braccio e la mano del Cristo, così come la schiena di Pietro (fig. 10), non è la stessa che filtra dall’alto e scivola sulle loro teste, ma arriva da un luogo diverso, più basso e centrale.

Fig. 10) Caravaggio Vocazione di san Matteo, 1600, Chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma, particolare.

Il punto preciso della cappella in cui, a ogni messa, si compie il sacrificio eucaristico: l’altare (fig. 11). Il destino di Matteo passerà per quello stesso sacrificio: darà testimonianza a Cristo attraverso il martirio; non a caso, la scena posta di fronte alla Vocazione che conclude la trilogia nella cappella.

Fig. 11) Cappella Contarelli, Chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma.

La luce che chiama al sacrificio della vita è quella “salvifica”, che opera materialmente la conversione dell’ebreo Levi. Impatta sulla sua gamba destra, già all’esterno rispetto al tavolo, e sulla “mente” (la parte bassa e illuminata del volto), come scrisse Milesi, di quel ragazzo torvo chino sul tavolo, e ne “scioglie i lacci”, distogliendolo improvvisamente dal pensiero fisso del denaro. La versione più condivisa dalla critica lo vede del tutto ignaro perfino della presenza del Cristo, o indifferente a una chiamata che non ritiene sia per lui; ma basta osservare la sua espressione (fig. 12), lo sguardo sbigottito di chi ha sentito un tonfo nel petto e un urlo nell’anima, per vedere un peccatore incallito che adesso deve “decidere”.

Fig. 12) Caravaggio Vocazione di san Matteo, 1600, Chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma, particolare.

Eccolo l’ebreo convertito dalla forza persuasiva della “buona novella” cristiana; ecco il peggiore dei peccatori nell’attimo esatto in cui sceglie il Messia, il vero Dio (e non più il denaro); ecco il trionfo di Santa Romana Chiesa che si perpetua nei secoli per mano di un artista geniale. In un attimo Caravaggio spazza via qualunque forzoso e consolidato stereotipo figurativo dell’ebreo, rielaborando in chiave concettuale e cattolica quegli elementi distintivi che la pittura d’oltralpe aveva contribuito a fissare, senza far perdere loro un minimo di potenziale evocativo o identitario, ma riadattandoli ai personaggi in funzione di un messaggio che non era solo “condanna morale” ma anche, e soprattutto, invito alla “conversione”.

E se l’ebreo porta gli occhiali perché è cieco e non vede il Messia in Cristo, Caravaggio è capace di indurci lo stesso identico pensiero anche senza la presenza di occhiali, chiudendo fisicamente gli occhi a un altro ebreo “terribile”: l’indefesso persecutore di cristiani Saulo di Tarso. Così, infatti, lo troviamo sulla parete destra della cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo a Roma (fig. 13), disarcionato in terra a occhi chiusi, con le braccia che brancolano nel buio in cerca di quella voce che lo chiama. Anche lui è un ebreo “cieco”; ma per una volta, non sono gli occhiali né il denaro i suoi attributi, bensì la cecità vera, fisica. Quando riaprirà gli occhi non sarà più l’ebreo Saulo, ma il cristiano Paolo “apostolo delle genti”, il più grande divulgatore del Vangelo di cristo nel mondo.

Fig. 13) Caravaggio Conversione di san Paolo, 1601-1605 ca., Cappella Cerasi, chiesa di Santa Maria del Popolo, Roma., particolare

Questo piccolo excursus non ambiva di certo a risolvere in poche righe le ragioni e le radici di un’ideologia preconcetta che, nel tempo, si è inasprita così tanto da degenerare nel più atroce sterminio; voleva solo evidenziare come l’espressione artistica sia stata parte di quel tragico percorso. L’arte è sempre stata uno straordinario, potente mezzo di comunicazione, che ha saputo raccontare e tramandare i segni dei tempi, le criticità della storia, i capricci dei potenti e le fragilità o le manie di grandezza degli uomini; e da sempre è stata strumentalizzata anche a scopo politico e propagandistico. Ma non credo si possa “accusare” l’arte di essere complice, o peggio, artefice del pregiudizio, poiché l’arte “È”, a prescindere dal tempo in cui si esprime, e da ciò che esprime. E se nel tempo ha contribuito ad alimentare e rinsaldare l’odio e il pregiudizio nei confronti degli ebrei, l’ha fatto in quanto espressione del sentire umano. È quest’ultimo che sbaglia.

L’arte “in sé” non ha pregiudizi, li rappresenta soltanto.

©Francesca SARACENO, Catania, 26 gennaio 2025

Nota

[1] Orsola Mattioli, Pecunia (quasi semper) olet, 2 maggio 2016, aulalettere.scuola.zanichelli.it