di Giulio de MARTINO
Nei mass-media si parla molto di “Intelligenza Artificiale”.
Di recente lo si è fatto a proposito di ChatGPT. Si tratta di narrazioni sensazionalistiche che si concludono con il lieto annuncio che l’“intelligenza umana” è di gran lunga superiore rispetto a quella digitale e destinata a trionfare sulle bizzarre macchinette che tentano di cacciarla dal palcoscenico.
In realtà sulla I. A. si lavora da almeno 80 anni, da quando Alan Turing – nel saggio On computable Numbers, with an application to the Entscheidungsproblem – pose il problema della costruzione di macchine calcolatrici in grado di operare su un numero enorme di dati, ordinati in linguaggio matematico, per ricavarne previsioni e decisioni [1].
Da molti decenni macchinari variamente «intelligenti» e «sensibili» sono utilizzati da aziende di trasporto, nella diagnostica medica, negli apparati e nei dispositivi di difesa e di sicurezza civili e militari. Anche la borsa, la pubblica amministrazione, le previsioni metereologiche, le industrie chimiche, edili e metalmeccaniche si giovano di apparecchiature che effettuano procedure, calcoli e previsioni che mai individui umani, per quanto specializzati, sarebbero in grado di realizzare con i loro soli mezzi fisici e intellettuali.
Ciò che di nuovo è avvenuto negli ultimi anni è che le aziende che operano nel campo dei beni culturali e dell’informazione, della comunicazione e della pubblicità, hanno deciso di servirsi anche loro, massicciamente, di macchinari ad alta tecnologia e di immettere sui mercati e nel consumo prodotti, immagini e stili di vita realizzati con le tecnologie dell’Intelligenza Artificiale. La cultura umanistica, di cui fa parte il mondo delle arti, sta attuando il progetto annunciato negli anni ’60 del Novecento di abbattere la barriera eretta fra i saperi umanistici e i saperi tecnico-scientifici [2].
Anche la storia dell’arte ha ibridato le proprie attività con il mondo delle tecnologie intelligenti in campi come l’archeologia, la diagnostica, la conservazione e il restauro. L’uso di tecnologie computazionali e visuali è presente nelle attività di esposizione e di riproduzione delle opere d’arte oltre che nella comunicazione e nel merchandising delle mostre.
A proposito dell’incontro virtuoso di filologia e tecnologia, una recente conferenza alla Stampa Estera a Roma ha mostrato come un accorto utilizzo dei droni e dei programmi di Virtual Graphics possa essere di aiuto per risolvere in modo altamente probabile annosi e controversi problemi di storia dell’arte.
La ricerca cui ci riferiamo ha riguardato un tema che appassiona i corrispondenti e i turisti stranieri: il paesaggio retrostante la “Mona Lisa” di Leonardo da Vinci. È stata condotta dallo storico Silvano Vinceti con la collaborazione dell’associazione culturale “La Rocca” e del Comune di Laterina Pergine Valdarno e si è basata – oltre che su documenti storici – sulla comparazione di immagini storiche, attuali e virtuali.
Con video e fotografie, Vinceti ha spiegato che – fatti gli opportuni studi, e adoperando le migliori tecnologie ottiche e digitali – si può affermare che il paesaggio fluviale in basso a destra nel ritratto della “Gioconda” raffigura le arcate del ponte Romito di Laterina in provincia di Arezzo. Ha identificato anche le «balze» – le piramidi di terra – del paesaggio a cui Leonardo si è ispirato. Ha quindi dichiarato errate le tesi, finora sostenute, che rinviano al ponte medievale di Bobbio, in provincia di Piacenza, e al ponte di Buriano in provincia di Arezzo.
Ha detto Vinceti:
«Nel dipinto di Leonardo si tratta del ponte etrusco-romano Romito o ponte di Valle collocato nel comune di Laterina in provincia di Arezzo. Attualmente del ponte rimane un solo arco, ma nel periodo tra il 1501 e il 1503 – quando Leonardo iniziò a dipingere Monna Lisa – il ponte era in funzione e frequentatissimo, come attesta un documento sullo stato dei manufatti nelle proprietà della famiglia dei Medici, ritrovato negli archivi di Stato di Firenze».
Era un periodo in cui Leonardo si trovava in Val d’Arno, prima al servizio di Cesare Borgia e poi del gonfaloniere della Repubblica di Firenze Pier Soderini. Il ponte Romito aveva quattro arcate, poggiava su due falesie e faceva parte di una scorciatoia sul tragitto fra Arezzo, Fiesole e Firenze. Invece, il ponte di Bobbio ha più di sei arcate e quello a Buriano ne ha sei, inoltre sono collocati su un terreno pianeggiante.
«Le corrispondenze sono emerse grazie alle immagini riprese da un drone che hanno consentito di evidenziare la presenza di due falesie nel lato sinistro e destro del ponte Romito e l’andamento sinuoso dell’Arno, così come raffigurati nel dipinto della Gioconda».
Leonardo mescolò nel paesaggio dipinto luoghi differenti e adottò tecniche di compressione prospettica oltre a inserirvi riferimenti simbolici e religiosi [3].
In effetti, la ricostruzione virtuale del ponte – oggi crollato – evidenzia una notevole similitudine con il ponte presente nel dipinto. Lo stesso si può affermare per la forma e la grandezza dei quattro archi.
«Significativi – ha aggiunto Vinceti – sono inoltre i documenti storici che certificano come Leonardo in quel periodo risiedesse spesso a Fiesole, presso uno zio prete che si chiamava Amadori o Amadoro. L’analisi delle immagini scattate col drone e dei documenti storici ci ha permesso di individuare, con un alto livello di probabilità, il complesso di balze o piramidi di terra nella zona del Val d’Arno superiore a cui Leonardo si è ispirato. E a questo proposito sono di fondamentale importanza alcuni disegni di balze presenti nel Codice Hammer (o Codice Leicester), manoscritto di Leonardo databile tra il 1506 e il 1510».
Prima degli storici, gli stessi artisti si sono avvalsi, nel loro lavoro creativo e spettacolare, di macchine e tecnologie. L’arte è artificio, oltre che imitazione e catarsi. L’artista, però, nasconde accuratamente l’elemento tecnico del suo lavoro in modo che l’aspetto simbolico – che consente di trasformare cose e persone in racconti e personaggi – possa transitare liberamente nella psicologia degli spettatori e dei fruitori[4].
Dedicata al rapporto fra le arti e le tecnologie, in particolare al tema della falsificabilità delle immagini fotografiche, è stata la conferenza di Joan Fontcuberta (Barcellona, 1955) all’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, il 4 maggio scorso. Le sue attività nell’ambito della «post-fotografia» – quali l’invenzione di finti fotografi o la manipolazione digitale delle immagini – hanno costituito la premessa estetica e epistemologica della ricerca sulle lastre deteriorate e danneggiate presenti nella collezione di gelatine del nobile e fotografo Francesco Chigi Albani della Rovere (Roma, 4 aprile 1881 – 7 luglio 1953). In epoca di post-fotografia, l’antica fotografia analogica fornisce la migliore reliquia del fotografare.
Di qui la mostra Cultura di polvere, a cura di Francesca Fabiani, che è ospitata negli spazi espositivi IC-CD di Trastevere a Roma fino al 29 settembre. Si tratta di 12 lightbox di grande formato realizzate dall’artista nel corso della sua residenza in IC-CD dialogando con le collezioni fotografiche storiche.
Fontcuberta ha operato su lastre fotografiche pesantemente danneggiate, ma non prive di residui di figurazione e di paesaggio.
«Questo lavoro analizza l’agonia materiale della fotografia. La fotografia è un dispositivo di memoria legato alla materia. Il suo deterioramento genera immagini paradossalmente senza più memoria».
Il passare del tempo ha marcato sulle lastre graffi, lacune e, talvolta, batteri e funghi proliferati sull’emulsione di gelatina ai sali d’argento. In tal modo – attraverso un procedimento di tipo surrealista di prelievo/appropriazione di elementi già dati (il frammento della lastra) – Fontcuberta ha fatto apparire in controluce nuovi aspetti del soggetto originario della fotografia.
Sono immagini di paesaggi poco plausibili eppure assolutamente non manipolati, presentati attraverso il display delle lightbox. Nel titolo la mostra richiama l’Élevage de poussière di Man Ray et Marcel Duchamp (1920).
Informazioni sul rapporto attuale fra le tecnologie digitali e il mondo delle arti e dell’artigianato sono venute dall’ottava edizione di “Innovation Village”, l’appuntamento del 10 e 11 maggio a Napoli a Villa Doria D’Angri: due giorni – promossi dalla Regione Campania – di conferenze, workshop, tavoli di lavoro e incontri one-to-one tra aziende e centri di ricerca impegnati nello sviluppo di nuove tecnologie per la società e per l’economia.
Con un fitto programma di conferenze, workshop, tavoli di lavoro e incontri one-to-one, è stato promosso lo scambio di idee e di conoscenze creando circuiti collaborativi fra istituti di ricerca e imprese sul mercato per co-progettare soluzioni tecnologiche innovative e funzionali. La manifestazione è stata organizzata da “Knowledge for Business” e promossa da Regione Campania con il contributo dell’Università degli Studi Parthenope, che ha messo a disposizione la suggestiva location di Villa Doria D’Angri, in via Petrarca a Napoli.
Si è discusso delle opportunità internazionali offerte dalla “Space Economy”, di materiali bio-based e di cibi sintetici, nuova frontiera per l’industria generativa del futuro al fine di ridurre l’impatto ambientale di sistemi di produzione inquinanti.
Si è parlato delle «quantum technologies» per le imprese, con il progetto di un hub di «quantum computing» a Napoli connesso al lavoro del Dipartimento di Fisica dell’Università Federico II. Il “Campania Digital Innovation Hub” intende agevolare la transizione digitale delle imprese e della P.A, lo stesso avverrà con l’innovazione digitale nel mondo delle costruzioni.
Di particolare interesse è il progetto “Artista” – proposto da Sautech Group, Medaarch e ENCO – che si propone di supportare gli artigiani dell’argilla e della ceramica con le tecnologie digitali. In ambiente virtuale si potrà dare forma ad un «manufatto digitale» che potrà poi essere realizzato con i materiali tradizionali mediante la tecnologia di stampa in 3D.
Nei dibattiti e nelle presentazioni si è discusso di «evoluzione delle macchine» che, da dispositivi di integrazione, si sono trasformate in dispositivi di potenziamento e di sostituzione. In particolare, nel campo dei computer, si è passati da macchine replicatrici a macchine emulatrici capaci di raccogliere, ordinare e elaborare l’informazione traendo dati nuovi dai dati vecchi.
Si tratta di un automatismo inconsapevole, ma esatto (Machine Learning), che induce i progettisti a costruire e le imprese ad utilizzare per le loro attività sistemi che calcolano, memorizzano e producono nuovi contenuti. Molti settori affidano ad essi misurazioni, progettazioni e creazioni.
Dal cinematografo allo zoom dei fotografi, dai droni che trovano impiego ovunque all’«immaginario artificiale» della pubblicità rilanciato dai mezzi di comunicazione, si assiste all’abbattimento dei mestieri e delle arti tradizionali. Un processo congiunto al diffondersi di una allegra «incompetenza universale» rispetto all’innovazione. Un mondo: «open to meraviglia».
Giulio de MARTINO Roma 21 Maggio 2023
Le mostre, gli eventi
La Gioconda. Un altro mistero svelato
ricerca coordinata da Silvano Vinceti
03 maggio 2023
Press Conference – Foreign Press Office
Via dell’Umiltà n. 83, Roma.
Joan Fontcuberta. Cultura di polvere
Fotografie di Joan Fontcuberta
A cura di Francesca Fabiani
Periodo espositivo: 04 maggio – 29 settembre 2023
Sede espositiva: Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione – via di San Michele 18, Roma
Pubblicazioni: Joan Fontcuberta Cultura di polvere, edito da Danilo Montanari Editore
Orari: dal lunedì al venerdì dalle 10:00 alle 18:00 (escluso festivi)
Innovation Village VIII edizione
10 e 11 maggio 2023
promosso da Regione Campania
organizzazione Knowledge for Business
contributo dell’Università degli Studi di Napoli Parthenope
Villa Doria D’Angri, via Petrarca 80, Napoli
NOTE