di Nica FIORI
L’ASCENSIONE, tra religione, arte e folclore
Chi sfoglia i calendari o gli almanacchi di qualche tempo fa non può non notare che molti giorni dell’anno, invece di essere semplici numeri, come avviene oggi, venivano visti come scadenze precise, punti di riferimento per compiere una certa azione o, al contrario, per evitarla. Non di rado questi giorni erano segnati con notazioni curiose, frutto di credenze magico-religiose e superstizioni che sopravvivono ancora in parte in ambiente contadino, probabilmente perché trovano una certa rispondenza nei cicli della natura.
Tra le ricorrenze più “magiche” dell’anno vi è sicuramente l’Ascensione, che aveva nel passato una grandissima importanza, mentre attualmente, forse più che in altre feste, le manifestazioni tradizionali vanno sempre più impallidendo o scomparendo. Narrano gli Atti degli Apostoli che Gesù, dopo la Resurrezione, apparve vivo agli Apostoli per quaranta giorni. L’ultimo giorno, mentre si trovavano sul monte Oliveto, egli ascese al cielo e una nuvola lo avvolse e lo nascose ai loro occhi. Sul monte fu poi edificata una chiesa, ma, secondo quanto riferisce Iacopo da Varazze nella sua Legenda Aurea, il luogo su cui Gesù poggiò i piedi prima di salire in cielo “non poté mai essere ricoperto da un pavimento, e anzi, il marmo saltava in faccia a chi voleva posarlo”.
Il mistero dell’Ascensione è legato al fatto che Cristo collega le forze del cielo con quelle della terra.
Per accogliere il Figlio, Dio apre un tratto della volta celeste, alzando il braccio a benedire il mondo. La festa ha dato luogo a innumerevoli riti, pratiche e credenze, il cui comune denominatore è legato all’essere essenzialmente un giorno di benedizione e purificazione. La festa era preceduta dai tre giorni delle “litanie minori”, particolari suppliche che avevano lo scopo di invocare l’aiuto divino sui campi. Si trattava di riti riconducibili a quelli pagani degli Ambarvalia, le feste in onore di Cerere e Marte durante le quali si percorreva il perimetro dei campi (arva) con animali sacrificali, per proteggere la terra sia dai nemici umani, sia dalle potenze occulte.
Tra le usanze romane di un passato neanche troppo lontano si ricorda la curiosa caccia agli scarafaggi, chiamati dal popolino “bagarozzi”, che le massaie eseguivano alla vigilia dell’Ascensione, dopo i rintocchi dell’Ave Maria. Racconta lo studioso Ceccarius (pseudonimo di Giuseppe Ceccarelli, 1889-1972) che la caccia “era seguita da un tormentoso supplizio, da un autodafé a base di moccoletti posti sul dorso degli spauriti insetti che si disperdevano per le stanze con il crepitante fardello”. L’usanza, citata anche da Giuseppe Gioacchino Belli nel suo sonetto “La notte dell’Asscenzione”, ricorda la scena descritta in una novella di Franco Sacchetti, in cui una frotta di ragazzi, inseguendo gli scarafaggi, intonava:
“Curri, curri, bagarone,/ che domani è l’Ascensione/ e se tu non correrai/ tutto il cul t’abbrucerai”.
La crudeltà riservata agli scarafaggi era dovuta alla credenza che essi fossero sudditi del signore delle tenebre. Anche quest’abitudine può essere ricollegata, come le pulizie pasquali, agli antichi riti di purificazione delle case.
Tra le pratiche liturgiche dell’Ascensione vi era la pioggia di petali di rosa dall’alto della chiesa, la benedizione dei nuovi frutti, in particolare delle fave, fatta durante la messa e la cerimonia, ancora in vigore, dello spegnimento del cero pasquale. Ma ben più suggestive erano le credenze popolari. Trattandosi di un giorno di purificazione, grande importanza veniva data alle acque. Si riteneva che alla mezzanotte in punto un angelo le benedicesse, dando loro un potere miracoloso. Come scrive lo studioso di folclore Giuseppe Pitrè (morto nel 1916): “In questa beata notte il mare diventa una probatica piscina, alla quale da paesi vicini e lontani ansiosi accorrono gli infermi”. Erano soprattutto i malati di pelle a tuffarsi nel mare per ottenere la guarigione, ma anche gli animali venivano immersi dai loro proprietari per preservarli dalle malattie, a volte con cerimonie pittoresche accompagnate da canti e danze.
A Venezia si festeggiava in questo giorno la festa della Sensa, con lo Sposalizio del mare,
celebrato dal doge, che per l’occasione si imbarcava sul Bucintoro, in un tripudio di suoni e di colori, raffigurato tra gli altri da Canaletto.
Oltre alle acque, anche le erbe e i frutti acquistano in questo giorno una forza magica, ma è soprattutto l’uovo dell’Ascensione, che viene custodito gelosamente per le sue portentose proprietà. Ma attenzione! Perché possa funzionare deve essere deposto da una gallina nera. Ha la facoltà di evitare la grandine, di allontanare le formiche da un albero e di guarire da molte malattie. La fede nella sua efficacia terapeutica ha dato luogo al proverbio riferito ai moribondi: “Non lo guarirebbe l’uovo dell’Ascensione”. In Romagna si riteneva che l’uovo avesse anche la facoltà di far ritrovare gli annegati, perché, affidato alla corrente, si fermava nel punto dove si trovava il corpo della persona affogata.
Anche il gallo nato durante questa festa ha un potere magico: protegge infatti la casa dagli influssi maligni. Non dimentichiamo che, così come l’uovo è un simbolo pasquale di rinascita, anche il gallo può essere messo in relazione con Cristo, perché con il suo canto annuncia la luce del giorno, ovvero la nuova vita. Tanto che nel medioevo veniva messo sui campanili e sulle cuspidi, quasi ad invitare i fedeli al risveglio spirituale, alla vigilanza e alla preghiera. Insieme a queste “magie” positive, non poteva mancare però la nota diabolica. Da un uovo di gallina deposto in questo giorno, e covato da un rospo, si riteneva che nascesse il basilisco, velenosissimo rettile che, secondo i bestiari medievali, era in grado di essiccare col fiato erbe e piante, di uccidere le bestie con il suo odore e gli uomini con lo sguardo.
Il tema dell’Ascensione nell’arte presenta tratti in comune con l’apoteosi del mondo classico, ovvero l’elevazione all’Olimpo di eroi e imperatori.
Allo stesso tempo può essere avvicinato agli eventi biblici della sparizione di Enoch, rapito dagli angeli per sottrarlo alla morte terrena, o della salita in cielo di Elia su un carro di fuoco.
L’iconografia, abbastanza vicina a quella della Resurrezione, della Trasfigurazione e della Pentecoste, prevede la suddivisione della scena dell’Ascensione in due parti: nella parte inferiore gli apostoli (quasi sempre undici, perché Giuda non è stato ancora rimpiazzato, ma il numero è variabile) con gli occhi rivolti al cielo, spesso con la Madonna e due angeli, e in alto Cristo, che in molte raffigurazioni antiche è racchiuso in una mandorla (affresco della basilica di San Clemente a Roma del IX secolo, mosaici di San Marco a Venezia e del duomo di Monreale del XII secolo).
Nella prima arte bizantina Cristo ascende al cielo sollevandosi dalla cima del monte, ed è afferrato dalla mano di Dio che emerge da una nuvola. La mano del Padre esprime il riconoscimento del Figlio, ma la Chiesa occidentale è contraria a questa rappresentazione e San Gregorio Magno, all’epoca del suo papato, afferma che Cristo “sua virtute fertur” (si sostiene col suo valore), ovvero si eleva da solo, e da allora la mano di Dio non serve più per sollevare Cristo, ma semmai per benedirlo. Tralasciando il cristianesimo orientale e limitandoci all’Occidente, possiamo notare che Cristo, nella sua ascesa, può essere interamente visibile, oppure parzialmente e talvolta si vedono solo i piedi, mentre il resto del corpo è nascosto da una nuvola, come scritto negli Atti degli Apostoli: “una nuvola lo sottrasse al loro sguardo“, motivo questo presente soprattutto nelle miniature di area inglese e nella scultura gotica.
Nell’arte italiana ha prevalso sicuramente la figura intera.
Una svolta si ha con Giotto, che negli affreschi di Assisi e della Cappella degli Scrovegni a Padova formulò un nuovo modello:
Cristo visto di profilo, con le mani tagliate in alto dal bordo della cornice, come a rimarcare il suo staccarsi dal mondo, mentre una nuvola lo sottrae allo sguardo degli apostoli.
In alcune opere rinascimentali ritroviamo la mandorla, come per esempio nell’Ascensione di Andrea Mantegna facente parte del Trittico degli Uffizi (tempera su tavola, 1460) e in quella del Perugino (olio su tavola, 1496-1498, Musée des Beaux-Arts di Lione), ma in questi esempi la mandorla è contornata da teste di cherubini.
Del Cinquecento è la cupola di San Giovanni Evangelista a Parma, dove il tema dell’Ascensione tra gli apostoli (o Visione di San Giovanni a Patmos) è stato affrontato da Correggio (1520-1524) con effetti illusionistici che avrebbero influenzato il successivo barocco. La gigantesca Ascensione di Tintoretto (olio su tela, 1579-81), appartenente al ciclo dei dipinti per la Sala grande di San Rocco, a Venezia, ci colpisce pure per la movimentata figura ascensionale di Cristo, tra angeli e nubi, in un paesaggio che sembra visto dall’alto in una sorta di ribaltamento prospettico.
A Roma, tra i dipinti legati a questo tema, troviamo l’Ascensione raffigurata nell’affresco di Cristoforo Casolani (1609) nel soffitto della basilica di S. Maria dei Monti, e una tela ottocentesca (1891), poco nota ma di un certo interesse, nella chiesa della Congregazione dei Resurrezionisti (in via di San Sebastianello).
Dipinta dal polacco Henryk H. Siemiradzki, questa tela sembra ispirarsi alla Trasfigurazione di Raffaello, nella visione frontale e serena di Cristo, che si contrappone all’inquietudine di alcuni apostoli, tra i quali è stato raffigurato il grande scrittore Nicolaj Gogol (è il quinto apostolo andando da sinistra a destra), anche se all’epoca era già morto, probabilmente per una grande ammirazione da parte del pittore.
Siemiradzki, in effetti, amava tantissimo la letteratura e ha raggiunto la fama per le sue opere di ambientazione romana legate al libro “Quo vadis?” del conterraneo Henryk Sienkiewicz.
Nica FIORI Roma maggio 2019