di Elena TAMBURINI
In questo periodo in cui il mondo dello spettacolo è così pesantemente penalizzato, realizzare uno spettacolo “importante” e fastoso come questo può apparire una rischiosa e inutile scommessa. Se lo fosse, la scommessa è vinta, almeno a giudicare dal caldo gradimento dimostrato dal pubblico.
Le creature di Prometeo / Le creature di Capucci, una realizzazione a cura di Daniele Cipriani, è già stato definito un incontro di due Titani. Non è retorica e non è una cattiva definizione. Del resto è stato così fin dall’inizio.
L’unico balletto del catalogo beethoveniano fu infatti messo in scena per la prima volta al Teatro Imperiale di Vienna nel 1801 con le coreografie dell’allora più prestigioso dei danzatori, Salvatore Viganò, le cui forti propensioni verso il recupero dell’antico non escludevano tuttavia animazioni fantasiose e suggestive. Beethoven lo seguì fedelmente nello spirito generale del balletto, tendente ad esaltare Prometeo, il più famoso fra i Titani, che, secondo il mito, fu generoso dispensatore del fuoco, rubato agli dei per donarlo agli uomini. Il compositore seguì puntualmente le indicazioni del coreografo nell’Introduzione e nei 16 episodi da lui tracciati. Si potrebbe dire anzi che tra il “titano “ della musica e il creatore del “coreodramma” ci fosse una certa sintonia, se è vero che in quest’ultimo le masse e la coralità predominavano sugli assoli e i pas de deux e che la pantomina vi si integrava alla danza: due concezioni davvero inedite.
Risentivano entrambi dunque, Beethoven e Viganò, dei nuovi stimoli e delle nuove atmosfere; contribuendo entrambi, sia pure in modi diversi (potente Beethoven, più idillico Viganò) a delineare quella complessa concezione delle arti nella quale andava affermandosi – senza tuttavia ancora nettamente prevalere – l’espressione dei sentimenti, individuali e collettivi. Di Viganò si ricorda in particolare anche un ballo epico, I Titani, uno degli ultimi suoi balletti, che, corredato delle scene di un altro “grande” dell’epoca, lo scenografo Alessandro Sanquirico, riscosse un successo enorme alla sua rappresentazione alla Scala di Milano (1819). E il titolo sembra volere richiamare proprio la memoria dei suoi autori, uno dei quali, appunto il Viganò, è un Titano ingiustamente dimenticato, se è vero che Stendhal ha potuto scrivere che la più bella tragedia di Shakespeare non produceva su di lui la metà dell’effetto di un balletto di Salvatore Viganò.
Nell’anno in cui ricorre il 250° anniversario della nascita di Ludwig van Beethoven (1770 – 1827), quanto mai opportuna appare dunque l’iniziativa della Fondazione Carlo Felice di Genova, che si è proposta una rappresentazione integrale dell’opera, e dunque in forma scenica, come nella concezione originale. Ma, dopo simili precedenti, non poteva che presentare una combinazione di personalità altrettanto importante. Lo ha fatto rivolgendosi a quello che si potrebbe dire il grande decano della moda italiana, oltre che riconosciuto maestro di quella internazionale: Roberto Capucci.
Tre dei costumi sono stati anticipati due anni fa da due mostre, a Palazzo Pitti di Firenze (“Capucci Dionisiaco”) e a Palazzo Scarpetta di Napoli (“Spettacolo onirico. Disegni per il teatro”); gli altri 12 invece sono inediti e pensati per questo spettacolo. L’esecuzione sartoriale di ognuno è stata seguita personalmente dal maestro; e non è dir poco, se si pensa che egli usa ricordare di avere impiegato cinque mesi con cinque ragazze al lavoro per un unico vestito (è accaduto nel 1992 per il padiglione italiano dell’Expo di Lisbona, per un abito celebre chiamato Oceano che aveva 172 sfumature di blu…!).
Per un simile stilista raffinatissimo ed esigente, abituato per di più a cimentarsi in ogni situazione da protagonista, il rapporto con il teatro non si presenta facile. Eppure egli non è nuovo a questo rapporto (cfr. C. Napoleoni, Roberto Capucci: spettacolo onirico. Disegni per il teatro, 2018)). Mentre nuovo è il suo rapporto con la danza: una sfida davvero difficile, se si pensa che i suoi sono stati definiti “abiti-scultura”, certo più adatti a un’immobile esposizione che a una dimensione dinamica.
Non mancano altri aspetti problematici e inediti. Non si tratta qui di una collaborazione di livelli diversi dello spettacolo ai fini della rappresentazione di una storia, com’era probabilmente accaduto ai tempi di Beethoven-Viganò. Ma dell’incontro tra due personalità straordinarie, profondamente diverse, lontane nel tempo e nello spazio; e di un genere spettacolare davvero impossibile da catalogare. Concerto? balletto? spettacolo visivo? una performance nel senso contemporaneo del termine? altro? Nelle intenzioni di regia si scrive che lo spettacolo nasce dalla volontà di proporre nuovi formati artistici capaci di favorire l’interazione tra musica e creatività contemporanea. Si tratta dunque di un “nuovo formato artistico”.
Non vi figurano certo infatti, come nelle indicazioni originarie, dei dell’Olimpo e Muse del Parnaso; tantomeno vi si celebra l’uomo, padrone, attraverso il dono del fuoco, del suo destino e di un suo disegno di felicità: dimensioni certo potenziate dalla musica beethoveniana. “Prometeo? Non ho la minima idea di chi fosse veramente – il maestro osserva soavemente – Non mi sono ispirato a lui, sia chiaro. Anzi – sorride – non ero certo che un direttore d’orchestra [il temerario è Andrea Battistoni che dirige sul palco centrale l’orchestra del teatro Carlo Felice di Genova] avrebbe accettato il rischio di distrarre il pubblico con queste creature”. E’ vero. La musica di Beethoven, a tratti bellissima, rischia di essere oscurata da queste – è ancora un’espressione di Capucci – “immagini di follia”. Se cercassimo la prova della nozione aristotelica che la vista è il più potente dei sensi, questo spettacolo potrebbe darla.
Sono pure creazioni di colore, di forma, di volume; idee improbabili, imprevedibili, inimitabili. Costumi tutti maschili, ma indefiniti, lontani da ogni tempo e da ogni storia, ben più di personaggi di un mito o di un sesso preciso. Spirali, uncini, fiori, frecce, corna, turbanti, carapaci, maschere, cappelli a cono, unghie lunghissime, altissime zeppe, maniche a sbuffo, gonne curvilinee e plissées, andamenti spezzati e ritorti, tessuti preziosi e ricami, figure attinte alla natura e nate dall’artificio: una fantasia inesauribile che può evocare al più lo spirito di quelle feste barocche in cui si sbizzarrivano i talenti dei nostri artisti del passato.
Alteri e lontani, i danzatori-figurini (della Compagnia Daniele Cipriani ma anche di varia provenienza, tra cui Damiano Ottavio Bigi del Tanztheater Wupperthal, Riccardo Battaglia della compagnia di Alvin Ailey, alcuni danzatori della Compagnia Simona Bucci; nonché Hal Yamanouchi, mimo-attore giapponese di misteriosa e suggestiva presenza, che introduce la sfilata vestito di fiori, con la solennità di un gran cerimoniere di corte, agitando la marotte di una capretta dalle lunghe orecchie satiresche) compaiono in successione in uno spazio lungo e stretto posto a sinistra del palco principale, come sul “ponte” di un teatro orientale; e per continuare questo riferimento familiare a Capucci (Fantasie guerriere: una storia di seta fra Roberto Capucci e i Samurai, a c. di K. Aschengreen Piacenti, 2008), compaiono e scompaiono anche dalle finestre e dalle porte dell’edificio retrostante, quasi “camera dello specchio” di un mondo trascendente.
La loro danza, dai movimenti lenti, calibrati eppure acrobatici, si intreccia con un’altra, quella delle proiezioni che ne amplificano le fattezze, indugiandosi a lungo sui raffinati particolari del costume (video proiezioni di Maxim Derevianko e disegno luci di Luciano Novelli). E’ il costume infatti a essere il vero protagonista di questo spettacolo. Lo è anche grazie al fatto che, come asserito dalla coreografa Simona Bucci, è sul costume, sulle difficoltà che ogni costume sembra opporre a chi si propone di servirsene come di un mero strumento, che sono stati ideati i movimenti coreografici.
Più che a un mito preciso, le immagini rimandano al mondo infinitamente vivo e infinitamente vario e infinitamente sfuggente del mito e dell’archetipo. Musica e figure d’arte sembrano così incontrarsi nello spazio onirico e astratto del teatro, là dove possono ancora incontrarsi le nostre più nascoste e mal sopite aspirazioni.
Aspirazioni a una pura bellezza, nutrita di cultura e di fantasia? E’ ancora possibile in questo nostro mondo, così spesso volgare, fragile e smarrito?
Le creature di Prometeo / Le creature di Capucci ci fa riflettere su questa possibilità.
Elena TAMBURINI Spoleto 29 agosto 2020