di Francesca SARACENO
LEOPARDI E CARAVAGGIO. Due giganti tra vita, arte e… tante “parole vuote”.
Estate 1835, Napoli. Interno giorno.
- INTERLOCUTORE 1:
“Conte, siete di buon umore quest’oggi… magari vi viene qualche ispirazione per poesie meno afflittive. Guardate, ho qui il vostro libro. Me l’ha dato stamattina Starita, l’editore, e mi ha detto che c’erano poesie inedite; io subito le ho lette. Mah…don Giacomo, lasciatemi parlare sinceramente: sono veramente infelici. Ma non dal punto di vista della poesia, ma soprattutto della “morale”.
- INTERLOCUTORE 2:
Ma è vero che siete ateo?
- INTERLOCUTORE 1:
Ma fosse l’ateismo… Se suppone una divinità la suppone malefica, che gode a tormentare gli uomini.
- INTERLOCUTORE 2:
Certo che siete assai pessimista…
- LEOPARDI:
Ma che parole vuote… pessimismo… ottimismo… Ma siete voi che dovete dimostrare che questo mondo non sia il peggiore dei possibili. Io non lo sostengo affatto. Chi conosce i limiti della possibilità? Dovete immaginarlo come il pensiero di un filosofo antico…indiano.
- INTERLOCUTORE 1:
In ogni caso le vostre canzonette sono state pessimamente accolte da parte di tutti. No, ve lo dico con molto dispiacere, perché tutti noi confidavamo in voi. La vostra fama era grande, ci aspettavamo un nuovo Manzoni…
- INTERLOCUTORE 3:
Scusate, ma non vedete la sofferenza di don Giacomo? Come fa a non essere infelice?
- INTERLOCUTORE 1:
Perciò è irritato con la natura e con gli uomini. E l’esempio di Cristo? E quello di Socrate?
- INTERLOCUTORE 2:
Per questo, anche quello di Silvio Pellico…
- LEOPARDI:
Le mie opinioni non hanno niente a che vedere con le mie sofferenze personali! Fatemi la grazia di non attribuire al mio stato ciò che si deve solo al mio intelletto! E se proprio vi appassiona, dedicatevi a demolire i miei ragionamenti, piuttosto che accusare le mie malattie.”
Questo passaggio è tratto dalla scena di un film del 2014, diretto da Mario Martone, intitolato “Il giovane favoloso” (fig.1). A parlare è un insofferente Giacomo Leopardi (superbamente interpretato da Elio Germano) che, seduto al tavolo di un bar di Napoli, probabilmente il Caffè Angioli di via Toledo, risponde alle insulse critiche di alcuni intellettuali rispetto al carattere giudicato “pessimistico” delle sue poesie, ma più in generale della sua filosofia.
La sceneggiatura, scritta da Martone con Ippolita di Majo, che non a caso ottenne diverse nomination e premi in altrettante manifestazioni cinematografiche, mostra una lungimiranza – e direi quasi un “coraggio” – inconsueti, centrando peraltro i punti salienti dell’esistenzialismo leopardiano. E in questo specifico passaggio essa coglie pienamente il carattere superficiale, acidamente affettato, della critica – non solo contemporanea ma reiterata nel tempo – rivolta al grande poeta marchigiano, costretto quasi a giustificare la propria creatività letteraria; come se essa non fosse “autorizzata” a esprimersi come “libero prodotto” di un pensiero altrettanto libero, e non dovesse – invece – rispondere ad altro che alle aspettative di un pubblico.
Mario Martone tornava sulla figura di Giacomo Leopardi dieci anni dopo “L’opera segreta. Trittico, da L’opera segreta e Partitura di Enzo Moscato”, un lavoro teatrale che aveva debuttato al Teatro Mercadante di Napoli, dove il regista aveva portato in scena tre “giganti” della storia artistica e letteraria italiana come Anna Maria Ortese, Caravaggio e, per l’appunto, Giacomo Leopardi. Tre spiriti eletti, tre intelletti sublimi che, proprio a Napoli avevano trovato la loro dimensione artistica più libera, vera e potente.
L’incredibile, debordante sensibilità del poeta recanatese si era dovuta scontrare con le restrizioni e i moralismi di un ambiente gretto, in cui gli spiriti liberi come il suo non avevano modo di spaziare, di espandere le proprie potenzialità, derivandone una visione del mondo come un luogo in cui dominano un senso di insoddisfazione e un’angoscia costanti e pervasivi.
La stessa Ortese, dalla cui mirabile produzione letteraria Martone aveva tratto il titolo del suo film [1], aveva subito per anni i pregiudizi e l’ostracismo di un ambiente intellettuale che spesso non ne aveva compreso né accettato l’originalità creativa e le scelte contenutistiche; persino i colleghi napoletani, dapprima entusiasti, le avevano voltato le spalle, travisando il senso delle sue parole nella raccolta di racconti e reportage “Il Mare non bagna Napoli” (fig. 2, 1953, vincitrice del Premio Viareggio nello stesso anno), dove l’autrice aveva disserrato gli occhi sulla realtà cruda di
“Una miseria senza forma, silenziosa come un ragno (che) disfaceva e rinnovava a modo suo quei miseri tessuti, invischiando sempre più gli strati minimi della plebe, che qui è regina.”[2] E questo in una “città (che) si copriva di rumori […] Ma non era lieto, non era limpido, non era buono quel rumore fatto di chiacchierii, di richiami, di risate, o solo di suoni meccanici; latente e orribile vi si avvertiva il silenzio, l’irrigidirsi della memoria, l’andirivieni impazzito della speranza.”[3]
Uno sguardo disincantato e lucido che apriva squarci di verità difficili da “inghiottire”, eppure struggenti, carichi di umanità ed empatia.
E non è un caso che Martone avesse posto Michelangelo Merisi da Caravaggio in quella magnifica triade di affamati, smaniosi cercatori di “verità”, perché anche il grande maestro lombardo aveva trovato proprio tra i vicoli ombrosi di Napoli un luogo eletto in cui “creare”, lontano dall’opprimente censura accademica romana; un ambiente “affine” e stimolante in cui le sue visioni artistiche si traducevano in sontuosi capolavori di straordinaria bellezza. Napoli crogiuolo di culture, di contaminazioni, di contrasti estremi tra “miseria e nobiltà” che la sensibilità di quei tre grandissimi virtuosi aveva saputo cogliere nel suo senso più pieno e profondo, trasformandolo in “arte”. E dunque in bellezza.
Ma nessuno di loro aveva avuto vita facile nell’affermazione della propria espressione artistica. E rivedendo la scena di quel film mi sono trovata a riflettere che un ben triste destino è quello dei grandi geni nella storia del mondo, di essere sviliti, incompresi o peggio male interpretati da coloro che pensano di poter incasellare e dare un ordine definito al pensiero. Come se la storia del mondo non l’avessero fatta proprio le intelligenze “dissonanti”, quelle non allineate, quelle che non si accontentano dello statu quo, ma vogliono vedere e andare oltre. La mente convenzionale ha vita facile: deve solo conformarsi. Accettare la “regola” come unica possibilità di muoversi nel mondo. La mente dissonante, invece, è temeraria; sceglie la via più tortuosa e non teme inciampi. Guarda il mondo da una prospettiva “altra” e così facendo scopre l’infinito.
Questa fu la cifra di Giacomo Leopardi ma anche quella di Michelangelo da Caravaggio, con cui il poeta marchigiano – oltre che i pochi anni di vita, trentanove incompiuti per entrambi – condivide, a parere di chi scrive, l’onta ingiusta del biasimo – ora pietoso, ora sdegnato – che investì l’uno e l’altro. Quello delle menti convenzionali “benpensanti”, che avrebbero voluto le loro rispettive creatività omologate alla “regola” solo per poterle riconoscere, per non dover fare lo sforzo di immaginare un’altra realtà “possibile”. E scoprirla altrettanto valida. A entrambi è stato imputato di aver prodotto i loro capolavori sotto l’influsso nefasto delle loro inquietudini personali, delle loro vicissitudini umane, che ne avrebbero definito i contenuti “negativi” e inficiato la qualità. Leopardi accusato di “pessimismo cosmico” presuntamente derivato delle sue condizioni fisiche, Caravaggio di essere un “ingegno torbido e contenzioso”[4] e di dipingere, per questo, scene eclatanti al limite dell’eversivo. Due spiriti “tormentati” le cui produzioni artistiche, secondo la più semplicistica “convenzione”, non potevano che riflettere il loro tormento.
E invece non è così automatico; è questo il senso della reazione piccata ma chiarissima con cui Leopardi risponde ai suoi interlocutori nel film:
“Le mie opinioni non hanno niente a che vedere con le mie sofferenze personali! […] Fatemi la grazia di non attribuire al mio stato ciò che si deve solo al mio intelletto!”
Qualcosa di molto simile a ciò che Roberto Longhi – non a caso – scrisse su Caravaggio:
“E non che la vita più disordinata incida sul grado della sua pittura”[5]
Perché un artista È a prescindere da come conduce la propria esistenza “umana”.
Per tale motivo, chi scrive ritiene non si possa attribuire alla sfera personale la qualità e tipologia della creazione artistica, poiché nel momento in cui avviene l’atto della creazione, non è più l’uomo ad agire ma l’artista. E le capacità creative dell’artista – o del poeta, nel caso di Leopardi – non hanno nulla a che vedere con lo stato d’animo. Il momento in cui “uomo” e “artista” possono incontrarsi e sconfinare l’uno nell’altro, semmai, è forse quello in cui viene concepita “l’idea”; intesa non come soggetto della creazione ma come percezione della realtà, impronta stilistica e metodologica che può essere, in vari modi, condizionata da fattori ambientali contingenti. Ma l’estro creativo, la capacità tecnica di tradurre in poesia o in immagini la propria visione del mondo, sono precise abilità dell’intelletto, e sussistono a prescindere da quanto accade nella vita dell’artista o del poeta. L’opera – che si tratti di pittura o di poesia – va fruita, valutata e giudicata su parametri che a essa afferiscono, non su quelli che riguardano “l’uomo”. Un errore che troppo spesso ha finito per sminuire ingiustamente il valore sia dell’opera che dell’autore.
E ascoltando l’appunto che il primo interlocutore muove alle poesie di Leopardi, in quel passaggio del film, quando le definisce “veramente infelici. Ma non dal punto di vista della poesia, ma soprattutto della morale”, sembra quasi di sentire le critiche del Bellori che imputava a un pur talentuoso Caravaggio di dipingere “senza decoro, e senz’arte” [6]. Come se la poesia e la pittura dovessero rispondere a precisi canoni creativi; come se la bellezza non si potesse generare dal libero esercizio della creatività, qualora esso l’avesse colta nell’imperfezione della natura; come se – infine – l’artista o il poeta non avessero facoltà di osservare il mondo e rappresentarlo così come la propria esclusiva sensibilità lo percepiva.
Una maniera dapprima “dolce”, quella del Merisi, che a un certo punto aveva virato verso “l’oscura”, a motivo di quel suo “temperamento, come né costumi […] torbido, e contentioso” [7], commentava Bellori, giustificando con tali sprezzanti attributi le scelte stilistiche del pittore.
Nel film di Martone, a chi osservava “Certo che siete assai pessimista…”, Leopardi rispondeva ironizzando: “Ma che parole vuote… pessimismo…ottimismo…”. Ebbene, se avesse potuto, forse anche il Caravaggio avrebbe risposto a Bellori (e a chiunque altro, dopo): “torbido… contentioso… ma che parole vuote”. Chi può arrogarsi il diritto di giudicare la qualità e il genere, o motivare lo spessore dell’espressione artistica, secondo il criterio delle fragilità caratteriali di chi la produce? Probabilmente solo colui che non ha migliori capacità ricettive; oppure chi è in malafede, perché vuole affermare un’idea diversa e che ritiene “corretta”.
“Ma è vero che siete ateo?”, chiede con una curiosità quasi infantile un altro interlocutore a un contrariato Leopardi, nel film. E quanti studiosi, critici e storici dell’arte avrebbero voluto – e vorrebbero tutt’oggi – rivolgere lo stesso quesito al Caravaggio? Per dipanare un dubbio che opprime solo loro, per un insensato e insano desiderio di autoaffermazione, per un ostinato spirito di osservazione che a ogni costo cerca e trova nei suoi dipinti i “segni” – a dire di alcuni – inequivocabili dell’eresia, del rifiuto della divinità, della ribellione al potere ecclesiastico che governava il suo tempo. E allora ecco rievocare, ogni volta, “le sozzure dei piedi del pellegrino” [8] gettate in faccia ai potenti della Chiesa di Roma (fig. 3), i santi “popolani” e le Madonne “prostitute”, la povertà ostentata come uno schiaffo morale per il ricco clero romano, i “peccati” dell’artista che, per sua stessa ammissione, sarebbero stati “tutti mortali”[9], e quella sola volta all’anno in cui andava a comunicarsi perché “doveva”.
Ma è davvero concepibile che fosse questo l’intento del Merisi? Punire (o addirittura “denunciare”) attraverso l’arte le contraddizioni, l’ipocrisia dell’organismo governativo che stava, in gran parte, all’origine della sua fortuna professionale, nonché della sua libertà personale? Sarebbe stato davvero opportuno – o più semplicemente “intelligente” – da parte sua, sfidare i rigori della Santa Inquisizione esternando in maniera così smaccata il proprio (presunto) ateismo? O non si trattava – più verosimilmente – solo dell’esigenza artistica coraggiosa, profonda e indifferibile, di un pittore straordinariamente sensibile e talentuoso la cui inclinazione stilistica era quella di tradurre in immagini la realtà quotidiana, la verità della natura, anche quando la storia da rappresentare era storia sacra; e questo, come precisa scelta, a dispetto delle ben più vantaggiose (in tutti i sensi) convenzioni tradizionali accademiche.
Leopardi ateo, invece, perché aveva affermato che “Il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla.” [10] O perché vedeva nella natura una forza implacabile che dominava l’uomo.
“Ma fosse l’ateismo… Se suppone una divinità la suppone malefica, che gode a tormentare gli uomini”,
osserva con malcelata protervia l’intellettuale nel film. E la risposta di “don Giacomo” fu tanto dotta quanto pungente:
“Ma siete voi che dovete dimostrare che questo mondo non sia il peggiore dei possibili. Io non lo sostengo affatto. Chi conosce i limiti della possibilità?”
Nel film Leopardi cita la teoria di Gottfried Wilhelm Leibniz che il nostro sia “il migliore dei mondi possibili”, e sfida il suo accusatore ponendogli il quesito opposto, costringendolo a considerare la questione che lui stesso aveva posto, secondo una visione “alternativa”. Come Caravaggio, Leopardi sposta il riflettore obbligando all’osservazione da un punto di vista diverso, costringe a indagare tutte le “possibilità” del pensiero e della sua espressione, e non solo quelle conosciute e perciò rassicuranti; a riconoscere che le possibilità sono molteplici, e forse infinite. Ma occorreva uno sforzo di volontà oltre la “convenzione” per avvicinarsi al pensiero di Leopardi:
“Io non credo che le mie osservazione circa la falsità d’ogni assoluto, debbano distruggere l’idea di Dio. […] ego sum qui sum, cioè ho in me la ragione di essere: grandi e notabili parole! Io concepisco l’idea di Dio in questo modo. […] Appunto perché nulla è vero né falso assolutamente, non è egli tutto possibile, come abbiamo provato altrove? Io considero dunque iddio non come il migliore di tutti gli esseri possibili, ma come racchiudente in se stesso tutte le possibilità, ed esistente in tutti i modi possibili. […] così resta in piedi tutta la religione, e l’infinita perfezion di Dio.”[11]
Il poeta di Recanati si pone quindi l’idea di Dio come “possibilità” nelle infinite possibilità, giungendo a una forma di panteismo simile a quella formulata da Giordano Bruno, di un Dio che è insieme spirito e materia. E dunque di un Dio che è anche “dentro” la materia. Quella stessa materia che è sostanza del vivere umano e che ha come prerogative anche la sofferenza e l’infelicità.
Il che sembra proprio l’idea primigenia che forse aveva sostenuto il Merisi nella sua ricerca della verità del quotidiano, nella accettazione e sublimazione del “difetto” come parte integrante del creato, nel quale si specchia e si ritrova – intera – l’essenza del Creatore. E allora indagare la natura, i suoi fenomeni esperibili, non poteva che essere la strada maestra, per un artista che percepisse quanto ancora ci fosse da sapere e da scoprire, che si aprisse alla possibilità che – nell’arte come nella vita – nulla sia “finito”; ma soprattutto che accettare uno status “prestabilito” e immutabile, equivalesse ad accontentarsi solo di una parte della realtà, e dunque delle molteplici possibili espressioni di essa. Ed ecco le sperimentazioni luministiche: il buio, materia “animata” da cui estrarre la vita a colpi di luce (fig. 4);
l’inestetismo, la caducità del corpo, i segni del tempo, testimonianze vivide del passaggio terreno dell’uomo nel suo percorso verso l’eterno; il monito perentorio e solenne a non indulgere nel culto dell’effimero (fig. 5).
La struggente spiritualità individuata nell’umile evidenza dell’ordinario, del negletto; l’infinita bellezza della “verità” in ogni più imperfetta espressione della vita. Fosse essa anche la sofferenza (fig. 6).
La stessa implacabile urgenza di “verità”, la stessa sete di vita che aveva spinto lo spirito “vulcanico” di un Giacomo Leopardi troppo spesso erroneamente giudicato depresso e remissivo, a cercarla lontano dalle pur amate ma oltremodo austere mura paterne nella natia Recanati, dove la sua gioventù non aveva respiro, né il suo straordinario intelletto avrebbe mai potuto più efficacemente “profittare de’ suoi talenti” [12]. L’infinito era oltre “quell’ermo colle e quella siepe”, e raggiungerlo un suo diritto inalienabile. L’impossibilità di assecondare le sue inclinazioni, di vivere la vita come ogni
“giovane di diciassette anni che dai suoi genitori non sia preso di mira, affine di collocarlo in quel modo che più gli conviene”, godendo “poi della libertà ch’essi tutti hanno in quell’età nella (sua) condizione”[13],
procurava al grande poeta quello stato di insoddisfazione costante che egli percepiva come un insopportabile limite alle sue potenzialità. E quello stesso senso di impotenza lo vedeva amplificato nel mondo. Nelle innumerevoli solitudini che affliggevano gli uomini a ogni latitudine. Nella ineludibile, connaturata sofferenza che pervade il creato.
“Nasce l’uomo a fatica, […] / Prova pena e tormento / Per prima cosa; e in sul principio stesso / La madre e il genitore / Il prende a consolar dell’esser nato.” [14]
Non è che la constatazione di un dato di fatto nel “pensiero di un filosofo antico…indiano”. Ma pare che sia manifesta solo al poeta…
“Scusate, ma non vedete la sofferenza di don Giacomo? Come fa a non essere infelice?”
“Perciò è irritato con la natura e con gli uomini.”
Le considerazioni superficiali e deduttive degli intellettuali nei confronti di Leopardi, ricalcano quelle di molti critici ed esegeti moderni sul Caravaggio: siccome conduceva una vita sregolata e aveva visitato spesso le carceri di Tor di Nona in seguito ad aggressioni e varie intemperanze, egli non può che incarnare il prototipo del “pittore maledetto”:
“Violento fino alla brutalità, lesto di lingua e di spada, eternamente in bilico fra cronaca nera ed eccellenza artistica.”[15]
Tralasciando in tal modo la realtà ineludibile di un contesto storico e sociale durissimo eppure assolutamente ordinario in quel tempo, escludendo ogni altra possibilità, ogni spiegazione alternativa e magari più verosimile; per il solo scopo di perpetuare un mito – editoriale e massmediatico – che intriga e conquista. A scapito pure di un altrettanto evidente – ed egualmente trascurata – audacia nel perseguire con determinazione e caparbietà un ideale artistico decisamente “impopolare”, fonte di biasimo e disdegno, che aveva causato all’artista amarezze ben più feroci della carcerazione. Ma che mai lo aveva indotto ad abiuravi.
Un’identica amarezza attanagliava Leopardi, e tuttavia egli – come il maestro lombardo – non cedeva il passo:
“So che sarò stimato pazzo, come so ancora che tutti gli uomini grandi hanno avuto questo nome. E perché la carriera di quasi ogni uomo di gran genio è cominciata dalla disperazione, perciò non mi sgomenta che la mia cominci così. Voglio piuttosto essere infelice che piccolo e soffrire piuttosto che annoiarmi […]”[16]
“Piuttosto infelice che piccolo” …quale ardimento! Non è “pessimismo” questo. É la lucida presa di coscienza di una condizione esistenziale fatale e sussistente; ma certamente foriera di glorie ancor più grandi perché ottenute a così caro prezzo. La perseveranza oltre ogni limite imposto è una virtù dei forti, non dei fragili o dei “tormentati”. E “soffrire piuttosto che annoiarmi” non è il vaneggiamento di un depresso, ma l’assunzione di responsabilità di chi accetta anche il caso che il cambiamento cui anela possa aggravare una condizione fisica già precaria, ma che innegabilmente è originata proprio da quella “noia”.
Troppo facile scorgere nel Passero solitario la medesima triste condizione del poeta, e non scorgere parimenti la grande forza – ma direi meglio la resilienza – della “odorata ginestra” capace come il poeta di adattarsi alle condizioni più avverse fino a esser “contenta dei deserti” da cui si erge intrepida, eppure “fior gentile” che “quasi i danni altrui commiserando, al cielo di dolcissimo odor mandi un profumo, che il deserto consola.”[17] Esattamente ciò che l’opera dell’eccelso poeta di Recanati ha regalato al mondo: la “consolazione”, il balsamo dei suoi versi, di un’emozione intensa e duratura, pur nell’amarezza dei giorni e nei “danni” della vita.
E allo stesso modo troppo facile fu bollare come “indecorosa” una pala d’altare in cui la morte era stata protagonista (fig. 7); la morte come evento terreno, “naturale” e dunque esperibile, e per questo “raffigurabile”.
La morte, “sacra” quanto Colei che non la sperimentò se non un solo attimo, quello che Caravaggio fu capace di fermare per sempre sulla tela, assegnando a un ondeggio scarlatto il compito di aprire un varco alla speranza, perché lasciasse respirare il dipinto e con esso lo spirito, perché il dolore rompesse la crosta dura della triste realtà terrena e s’involasse verso la “consolazione” della gioia eterna. Proprio come il profumo della ginestra di Leopardi.
Eppure i saccenti letterati seduti a quel tavolo con il poeta nel film, mostrano di avere un concetto alquanto limitato di ciò che la poesia – e dunque l’arte in generale – in quel particolare momento storico dovesse esprimere: grandi passioni, alti ideali, pensieri positivi (non “afflittivi”). In questo essi scorgevano il senso della “bellezza”. Ma gli artisti e i poeti sanno che:
“Non il Bello ma il Vero o sia l’imitazione della Natura qualunque, si è l’oggetto delle Belle Arti. […] La perfezione di un’opera di Belle Arti non si misura dal più Bello ma dalla più perfetta imitazione della Natura” [18].
E in ciò sta la “bellezza”. Non è un caso che anche Caravaggio avesse affermato a suo tempo:
“Quella parola valent’huomo appresso di me vuol dire che […] sappi far bene dell’arte sua, così un pittore valent’huomo, che sappi depinger bene et imitar bene le cose naturali.” [19]
Ogni tempo ha avuto i suoi censori, dotti giudici del contenuto, della forma e del metodo, con i loro codici prefissati e inderogabili da consultare nella valutazione e nell’emissione del giudizio. Che quasi mai considera l’opera come espressione di un pensiero libero ma come prodotto funzionale a un qualche scopo; sia esso ludico o morale. A Firenze Leopardi si era scontrato con un ambiente letterario che poneva l’utilità dell’opera al di sopra della sua raffinatezza formale, sostenendo uno stile letterario “popolare”, meno aulico e più comunicativo. Ma per il poeta l’estetica della poesia non era un fatto marginale:
“In fine mi comincia a stomacare il superbo disprezzo che qui si professa di ogni bello e di ogni letteratura”
scrisse all’amico Pietro Giordani, in una lettera del 24 luglio 1828. Per il poeta di Recanati la “forma” è utile anche più della “sostanza”, poiché il pensiero, il sapere in sé, non procurano alcun benessere, nessuna “gradevolezza” all’uomo, per quanto siano importanti e interessanti. La bella forma in cui essi si possono esprimere, invece, si. E quella è prerogativa peculiare del poeta.
“Togliendo dagli studi tutto il bello (come si fa ora), spegnendo lo stile e la letteratura, e il senso de’ pregi e de’ piaceri di essi ec.ec., non si torrà dagli studi tutto il diletto, perché anche le semplici cognizioni, il semplice vero, i discorsi qualunque intorno alle cose, sono dilettevoli. Ma certo si torrà agli studi una parte grandissima, forse massima, del diletto che hanno… quindi si farà un vero disservizio, un danno reale (non mediocre per Dio) al genere umano, alla società civile.”
Ebbene, dal momento che la bellezza è “nella più perfetta imitazione della natura”, anzi, della “Natura qualunque”, e dal momento che essa conserva in sé anche imperfezione e sgradevolezza, allora la “forma” con cui il poeta interpreta il “vero”, non può che essere espressione fedele di una bellezza insita, per natura, anche in qualcosa che apparentemente non ne possiede, come appunto il dolore, la malinconia, l’infelicità. E pertanto essenziale. Il problema di fondo era che nessuno riusciva a concepire alcuna possibile bellezza in qualcosa di “naturalmente” negativo. Tranne il poeta.
O l’artista. Perché al tempo di Caravaggio nessuno, nell’ambiente artistico accademico, riusciva a concepire bellezza nella “non-perfezione” dei corpi e delle cose. Secondo i cultori del più classico “bello ideale”, mele bacate, volti rugosi, cuffie sdrucite, inficiavano la validità delle scene raffigurate fino a sconfinare nell’irrispettoso.
E dunque, se il dipinto – e primariamente quello a tema sacro – nel tempo in cui visse Caravaggio, doveva essenzialmente delctare, docere et movere ma senza mai trascurare l’opportuno e doveroso “decoro”, la poesia romantica avrebbe dovuto essenzialmente “docere” trasmettendo valori alti e nobili e, non ultima, una buona dose di “ottimismo”. Tant’è che i detrattori del Leopardi nel film si aspettavano un “nuovo Manzoni”. E non è un caso che al poeta di Recanati venga opposto proprio Manzoni, il rivale per eccellenza; una rivalità nata, probabilmente, più tra i riporti della critica accreditata che nella realtà tra i due grandi autori. Benché la divergenza di vedute tra loro fosse più che evidente: la fede incrollabile opposta al culto del “possibile”; la “provvidenza” contro la coscienza dell’ineluttabile; la poesia etica contro quella esistenziale.
E quindi la domanda: si può ottenere “diletto” da un’immagine potente di crudo realismo superbamente dipinta? O da versi in cui anche il dolore trasuda “bellezza”? La logica più lineare direbbe di no. Quella meno scontata, invece, si pone il quesito opposto: come si può omologare la ricezione di una emozione? Perché si dovrebbe poter provare piacere solo dal “bello” e dal “lieto”? E a tal fine, davvero si pretende di circoscrivere la conoscenza, l’estro, la creatività entro i confini angusti della “convenzione”? Avrebbe mai, il mondo, conosciuto progresso se il pensiero e la conoscenza non avessero seguito il loro percorso di evoluzione? Cosa mai ha apportato di buono nella storia la stagnazione, l’inamovibilità culturale, l’omologazione, se non l’inevitabile stanchezza dell’ovvio, e la certezza ai potenti di mantenere intatti i propri privilegi. Giordano Bruno avrebbe potuto cedere alla sua fragilità umana e rinnegare ciò in cui credeva, come fu costretto a fare Galileo, benché la sua abiura si possa certamente considerare un atto formale; invece il frate nolano pagò con la vita il coraggio delle proprie idee. Lo stesso ardito sentimento che spinse Leopardi a scrivere al padre:
“Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci d’ogni grande azione, riducendoci come animali che attendono tranquillamente alla conservazione di questa infelice vita senz’altro pensiero” [20]
E Caravaggio, piuttosto che la “natura” avrebbe potuto “imitare” – invece – i suoi colleghi più tradizionalisti come il cavalier d’Arpino o lo stesso Giovanni Baglione, o piegarsi al compromesso artistico “virtuoso” come aveva fatto Annibale Carracci, il cui fulgido esempio continuamente gli venne opposto, e procacciarsi così una stima ancor maggiore nell’ambiente accademico di quella che, comunque, ottenne tra i collezionisti privati. Ma, ben sapendo di andare incontro al biasimo, all’amarezza e forse anche al fallimento, scelse anche lui di essere “infelice piuttosto che piccolo”; come Bruno, come Leopardi, anche lui aveva scelto di non assecondare la “vile prudenza” ma sopportare ogni ostilità, lavorando caparbiamente per affermare la propria idea di pittura. Contro tutto e tutti, contro ogni logica “convenienza”, con mezzi leciti e illeciti, Caravaggio difese la validità di una visione e di un metodo nuovi, alternativi e altrettanto efficaci, che non per questo negavano l’arte del passato o ne svilivano il valore, né tantomeno si opponevano alle istanze dottrinali del potere ecclesiastico.
All’ardimento giudicato eccessivo del Caravaggio, corrisponde per contro – imputata al Leopardi – una certa tendenza all’autocommiserazione. Nel film gli vengono opposti gli esempi di grandi “eroi” di ogni tempo: da Cristo, a Socrate fino al più recente Silvio Pellico. I quali – sembra di intuire, nel pensiero di quei letterati – non si erano “pianti addosso” ma si erano “immolati” per un alto fine. Mentre il cagionevole e “pessimista” poeta recanatese veniva percepito come colui che perseverava solo nel “naufragio” abulico e consapevole della sua infelicità; che non vede nella parabola terrena dell’uomo se non una connaturata e ineludibile sofferenza, e per questo si “arrende”. Ma si può chiamare “resa” quella di chi, con estrema lucidità piangendo l’infausta sorte della propria patria decaduta dai fasti e prostrata adesso dal dominio straniero, senza identità e senza ardore, offre sé stesso per la sua salvezza?
“Chi ti tradì? qual arte o qual fatica / O qual tanta possanza / Valse a spogliarti il manto e l’auree bende? / Come cadesti o quando / Da tanta altezza in così basso loco? / Nessun pugna per te? non ti difende / Nessun de’ tuoi? L’armi, qua l’armi: io solo / Combatterò, procomberò sol io. / Dammi, o ciel, che sia foco / Agl’italici petti il sangue mio.”[21]
Le chiede “Dove sono i tuoi figli?”; perché il poeta non vede ardore, non vede vero amor patrio nel popolo italiano. E non lo vede perché i figli della “patria Italia”, in realtà non hanno una “patria”. Non l’hanno mai avuta, non sanno cosa sia. Combattono guerre in terra straniera per lo straniero potente di turno che li domina. E allora cosa può, il poeta, se non offrire se stesso, ovvero il suo talento, la sua capacità di rendere immortale il sentimento eroico, il valore dell’idea se non l’idea stessa, che forse ancora altri eroi difenderanno:
“Così la vereconda / Fama del vostro vate appo i futuri / Possa, volendo i numi, / Tanto durar quanto la vostra duri.”[22]
E lo stesso fa l’artista, fissando sulla tela la storia del mondo, quella compiuta e quella che si compie; anche per sua mano. E Caravaggio, della storia, fissò ogni volta l’attimo cruciale, quello che la racconta mentre accade, come fosse oggi, adesso, e la consegna al mondo rinnovata nella forma e amplificata nel contenuto. Attraverso l’abilità del pittore l’arte sacra ottemperò alla sua funzione primaria: catechizzare i popoli. Mostrar loro la via “stretta” della redenzione lastricata di sacrificio, di ombre scure in cui si annida il male, ma illuminata a giorno dai bagliori fulminanti della “vera fede” che quel male individua e sconfigge. In qualche modo anche il fedele è un “eroe”, ed egli si specchia nei dipinti del Caravaggio e – come lui – si ritrova eterno.
Intenzionalmente o no, con le sue scene eclatanti, con la sua rivoluzione pittorica, Caravaggio aveva contribuito alla causa della Chiesa di Roma nella strenua lotta contro il protestantesimo; aveva profuso il proprio smisurato talento per un fine che non sapremo mai se e/o quanto condividesse, e lo aveva fatto al prezzo di aspre critiche, di subdole contese e varie meschinità. Perché primariamente, egli era cosciente delle proprie straordinarie capacità e credeva fermamente nel valore della propria arte.
Caravaggio e Leopardi, un pittore e un poeta “liberi”, che opposero – beffardi e resilienti – il prodotto del loro immenso genio al giudizio inclemente di chi non seppe cogliere, in tutto o in parte, la loro la grandezza. Di chi non seppe spiegare le proprie “solerti” critiche se non giustificandole con un ottuso (e comodo) giudizio deduttivo. Ed è un grande Mario Martone quello che, nel film, fa dire a Leopardi:
E se proprio vi appassiona, dedicatevi a demolire i miei ragionamenti, piuttosto che accusare le mie malattie.”
Qualcosa davanti alla quale, spesso, il “censore” si arrende; oppure goffamente si arrampica sugli specchi. Del resto la critica ha sempre fatto il suo mestiere, beandosi della propria saccenteria…
“Voi saggi, voi felici: anime elette / / a goder delle cose: in voi natura / le intenzioni sue vide perfette. / Degli uomini e del ciel delizia e cura / sarete sempre, infin che stabilita / ignoranza e sciocchezza in cuor vi dura: / e durerá, mi penso, almeno in vita.”[23]
…mentre l’arte e la poesia durano in eterno.
©Francesca SARACENO , Catania 6 agosto 2023.
NOTE