Le “mostruose” meraviglie di Paolo III Farnese: cosa nasconde la Sala del Tesoro di Castel Sant’Angelo?

di Fabio COLONNESE

Il misterioso labirinto nella sala del Tesoro in Castel Sant’Angelo a Roma[1]

Tiziano, Ritratto di Paolo III

Durante la campagna di rilevamento del complesso monumentale di Castel Sant’Angelo a Roma,[2] lo studio dei pregiati pavimenti cinquecenteschi degli Appartamenti papali di Paolo III ha riportato alla attenzione il pavimento in cotto della sala del Tesoro con disegno labirintico. Parzialmente nascosto dai grandi forzieri di legno fatti costruire da Sisto V, nel tempo era stato erroneamente descritto come uno schema ad anelli concentrici o giudicato come un capriccio privo di significato e di legami col programma decorativo cinquecentesco. È nostra convinzione, invece, che questo labirinto, estremamente elaborato, sia strettamente connesso sia con la figura di Paolo III Farnese, principale artefice della trasformazione del castello in residenza principesca, sia col programma iconografico complessivo degli Appartamenti Farnesiani.

La sala del Tesoro

Gli Appartamenti Farnesiani furono costruiti a partire dal 1534 per volere di Paolo III e decorati tra il 1543 e il 1548[3], per adeguare la fortezza, già collegata al complesso vaticano col Passetto, alle altre sontuose residenze della famiglia Farnese[4].

La sala del Tesoro (Fig. 1) è un ambiente cilindrico situato esattamente nel nucleo centrale dell’antico Mausoleo di Adriano, al livello superiore degli appartamenti.[5] L’ambiente, anticamente alto più di 12 metri, era probabilmente deputato a conservare il sarcofago dell’Imperatore.[6] In epoca medioevale (XII-XIII sec.?), quando la torre era di proprietà dei Crescenzi, fu realizzata una prima calotta ribassata a dividere la sala inferiore dalla soprastante sala della Rotonda, a cui è collegata da una scala elicoidale. Dopo l’esplosione dell’arsenale di Castel Sant’Angelo nel 1497, la calotta venne ricostruita nella forma attuale.

Fig. 1. Vista della sala del Tesoro, 2008 (Wikipedia Creative Commons)

I primi documenti che fanno riferimento alla sala risalgono alla metà del XVI secolo, quando nel castello esisteva già una sala adibita ad archivio di cui non si conosce l’esatta ubicazione. L’attuale sala del Tesoro era inizialmente destinata ad altro scopo, visto il fregio con liocorni e gigli farnesiani dipinto quasi certamente da Luzio Luzi e allievi appena prima del 1545.[7] Probabilmente, in seguito alla nomina di Mario Ruffini a castellano, la sala venne adibita ad Archivio Segreto e Tesoro Pontificio, per accogliere, oltre ai registri e ai documenti dell’Erario Pontificio, “i triregni, gli scettri e le reliquie preziose”.[8]

Paolo III incaricò forse Aristotile da Sangallo, all’epoca misuratore dei lavori[9], di realizzare armadiature lungo il perimetro murario (Fig. 2). Nel marzo 1545 è attestato l’inizio dei lavori di due falegnami, Francesco da Caravaggio e Hieronimo detto il Bolognaper armari da farsi per lerario novo”.[10] Inizialmente gli armadi avrebbero dovuto arrivare fino alla cornice dipinta, a cui fanno riferimento alcune bolle di pagamento, ma si decise di alzarli ulteriormente e di coprire così l’affresco, oggi visibile solo aprendo gli sportelli superiori. Un’altra nota interessante fa riferimento al lungo lavoro di “Santi da Girona scalpellino e compagni per fare tagliare la porta [in travertino] del erario novo”, forse per far passare materiali e forzieri. L’iscrizione sugli armadi – “SEDENTE PAULO III PONTIFICE MAXIMO – PONTIFICATUS SUI ANNO XII” – conferma che i lavori furono completati entro il 1546. Successivamente fu trasportato nella sala il forziere di Giulio II (uno dei due minori attualmente ivi conservati) ma Sisto V prima ne fece fare una copia e poi ne fece costruire uno ancora più monumentale direttamente nella sala.

Fig. 2. Pianta e sezione della sala del Tesoro con le armadiature e il forziere monumentale (F. Colonnese)

Il labirinto

Il pavimento non trova riscontro nei documenti ma è probabile che fosse già stato completato prima del 1545. Il labirinto in piastrelle di cotto è generalmente ignorato o trascurato da storici e studiosi[11], forse perché parzialmente coperto dai forzieri.

Si tratta di un labirinto circolare con l’asse principale in corrispondenza dell’ingresso della sala (Fig. 3).

Fig. 3. Vista del labirinto dall’ingresso della sala del Tesoro, 1999 (F. Colonnese)

In un’epoca in cui probabilmente Giulio Romano stava già realizzando labirinti “policursali” nei giardini di Mantova, qui lo schema è ancora “unicursale, composto da un unico corridoio che si avviluppa intorno al centro come un serpente. Con le sue sette spire o circonvoluzioni, questo modello discende direttamente dallo schema cretese, inciso sulle antiche monete di Cnosso ma conduce il visitatore direttamente all’anello più vicino al centro, invece che al quarto, il mediano, come era più frequente. Le numerose ambagi provocano ben 19 cambi di direzione contro i 7 del più illustre antenato. è realizzato in piastrelle di cotto bicromatico, con il corridoio più chiaro e largo più del doppio delle “mura”. Ha una matrice circolare che si riflette dal perimetro esterno fino al centro. Il centro, sebbene appaia chiuso rispetto al corridoio, contiene un grande disegno floreale.

Dal rilievo eseguito emerge la compresenza di diverse matrici geometriche a formare un disegno la cui complessità non è immediatamente percepibile (Fig. 4). La matrice circolare esterna, legata alla forma della sala, convive con triangoli, rombi, esagoni e poligoni ancora più complessi, a quindici e a diciotto lati. Rispetto al diametro complessivo della sala di 8,10 m, il diametro esterno del labirinto misura 5,94 m e quello del centro 1,34. Il corridoio, largo 23 cm, in molti punti appare più consumato delle mura, larghe 9, che lo delimitano, sia per la diversa consistenza delle mattonelle dovuta a cotture differenziate, sia, probabilmente, per la pratica ludica di percorrere il dedalo a piedi.

La parte più interessante è sicuramente il centro, che prende forma a partire da un piccolo fiore a sei petali (esagono inscritto in una circonferenza di 8,5 cm), inserito in una mattonella circolare e circondato prima da due fiori concentrici a 15 petali, ruotati tra loro e con tre foglioline nell’interstizio, e poi da una corona circolare che contiene quattro cerchi disposti a croce.

Fig. 4. Disegno del labirinto; schema proporzionale; corona centrale; dettaglio del centro (F. Colonnese)

Il labirinto è certamente concepito a partire dalla dimensione e forma della sala e il suo stesso ingresso è rivolto in direzione della porta di accesso, fatto assai raro nel panorama dei labirinti pavimentali di ogni epoca. A ben guardare, tra la corona circolare con i dischi posti a croce allineata con gli assi della sala, e l’orientamento del centro esiste un angolo di circa 7 gradi. Il disegno centrale è stato realizzato incastonando le piccole parti di maiolica fino a formare un elemento monolitico: quindi questa anomalia pare una precisa scelta dell’autore del pavimento. D’altro canto, questa rotazione sembra voler riallineare il fiore centrale con l’asse nord-sud, visto che anche l’asse del castello risulta ruotato di circa 7° rispetto al polo magnetico.

Il pavimento è sicuramente precedente alla costruzione delle armadiature che, realizzate in situ, non risulta siano mai state rimosse. Le armadiature, che nascondono il fregio di Luzio, non coprono il labirinto e sembrano piuttosto costituirne un coronamento in verticale11, costruite sulla base di una matrice poligonale, un poligono di 18 lati che in corrispondenza della finestra si trasforma in uno di 15. In pratica si tripartisce l’angolo al centro, poi due dei tre settori di 120° risultanti vengono divisi in 6 parti e il terzo settore viene ripartito invece in sole 5 parti.

Sebbene gli assi del disegno del labirinto, per pochi gradi, non siano perfettamente allineati con gli spigoli delle armadiature, si può ipotizzare che ci sia un progetto unitario dietro l’attuale configurazione della sala. In questo caso, il labirinto sarebbe parte di un articolato programma simbolico legato alla nuova destinazione d’uso. Vista la complessità della realizzazione, è da escludere che si tratti del virtuoso capriccio di qualche artigiano o di una generica dedica alla memoria dell’immortale Dedalo, già simbolo del buon costruire.

Il Labirinto nell’ambito del programma decorativo degli Appartamenti Farnesiani

Il mosaico del labiritno alla Basilica di San Vitale © wsimag.com

Fino al Rinascimento prevaleva l’interpretazione cristiana del labirinto come mondo del peccato e dei meandri come percorso iniziatico per avvicinarsi al mistero della fede e poter accedere alla grazia e alla salvezza del centro. Si ricordi ad esempio, che tra il 1538 e il 1545, quindi sempre sotto il pontificato di Paolo III, un anonimo artista restaurava il pavimento della chiesa di San Vitale a Ravenna collocando un labirinto circolare unicursale dal diametro di 3,40 m nel settore triangolare antistante il presbiterio, composto da intarsi in marmo bianco e nero. Si tratta di un labirinto con schema identico a quello della sala del Tesoro per forma, numero di spire, disegno e posizione di meandri e ambagi, tanto da far pensare a una stretta parentela.

D’altro canto, molti architetti rinascimentali si erano interessati al labirinto, sia per la relazione con le antichità classiche tramandate da Plinio, sia per le potenzialità decorative e simboliche. Sul suo taccuino, intorno alla metà del secolo Marteen van Heemskerck ritrae un labirinto vegetale circolare inserito nel cortile di un edificio ottagonale che mostra molte affinità formali con la situazione della sala del Tesoro[12]. Lo stesso Baldassarre Peruzzi, per citare un artista vicino ai Sangallo, aveva rilevato sul suo taccuino un grande labirinto circolare, probabilmente la porzione di pavimento musivo di Ostia oggi perduto[13], mentre labirinti quadrati saranno pubblicati da Sebastiano Serlio nel 1537[14].

Quali significati poteva avere un pavimento labirintico nel XVI secolo a Roma, negli stessi appartamenti di Paolo III Farnese e, quindi, nella culla della cultura rinascimentale durante la transizione tra il Sacco di Roma e il Concilio di Trento?

Il programma iconografico di questi appartamenti in cima a una montagna artificiale sembra concepito per far emergere diversi tipi di visione e movimento o, al contrario, di labirintica opacità. Questo aspetto sensoriale si intreccia con quello iconografico, veicolato dal mondo letterario di Ovidio, totalmente dominato dall’illusione, dall’aspetto, dal paradosso, in cui uomini e donne spesso perdono il senso del reale. Ad esempio, le grottesche[15], diffuse in quasi tutte le sale, sembrano qui svolgere il compito non solo di costruire una relazione con l’Antichità, ma anche di evocare il tema della metamorfosi e del mondo come continuo divenire. Grazie alla mediazione fornita dal libro di Ovidio[16], la metamorfosi fa parte dell’universo del meraviglioso, che sfuggendo ai codici del mondo reale ci proietta in una dimensione immaginaria e molteplice.

Le grottesche mostruose, guidate da una attitudine antropomorfa e zoomorfa[17] già evidente nell’opera di architetti come Leon Battista Alberti e Francesco di Giorgio Martini, acquistano la funzione sociale di monito verso l’arroganza dell’uomo, ricordandogli continuamente i limiti stessi della sua umanità. Il labirinto, parte integrante di tale universo, è qui evocato “esplicitamente” attraverso le figure del meandro e della spirale, che compaiono, ad esempio, nel fregio delle Sale di Perseo e di Amore e Psiche, delimitando allusivamente lo spazio della rappresentazione verso il soffitto dallo spazio “mondano” al di sotto[18].

È forse utile ricordare che “mostro” è un termine dalla etimologia affascinante e polisemica[19] che sembra legare assieme l’idea di metamorfosi con l’idea di qualcosa che va mostrato e visto con il principale scopo di “ammonire”, dare un avvertimento o prefigurare un possibile futuro. Inutile sottolineare che il labirinto del mito greco era la dimora perpetua del mostruoso Minotauro, mezzo uomo e mezza bestia, e quella temporanea dei giovani che costituivano il suo “tributo alimentare”. All’interno degli spazi ripiegati e contorti della prigione costruita per esso da Dedalo, il mostro aspettava la propria morte, per realizzare il proprio destino nella glorificazione dell’eroe Teseo (che diventerà Cristo nella nuova attribuzione semantica cristiana del mito), chiamato a uccidere la bestia per offrire salvezza all’umanità. La stessa idea di labirinto potrebbe essere definita una mostruosità. Si tratta in fondo di una sorta di aberrazione architettonica, una metamorfosi che priva un edificio di una organizzazione logica, funzione e segno utile alla sua comprensione e all’orientamento di chi lo percorre. Un labirinto è infatti in primo luogo una struttura che annulla il potere prefigurativo della visione, che priva di certezze e condanna il malcapitato a muoversi per conoscere il suo destino finale. 

Fig. 5. Impresa Festina Lente di Paolo III nella sala della Cagliostra

Considerazioni

Santarcangeli scriveva:

“senza un centro non esiste un vero labirinto nel dinamismo del disegno, del tracciato da percorrere. Tutta l’attenzione gravita su di esso, poiché trovano qui la loro giustificazione e compimento il senso e il perché, l’intima logica della figura”,[20]

soprattutto nei labirinti di matrice cristiana, dove il centro generalmente si ingrandisce per accogliere raffigurazioni simboliche. La croce sovrapposta ad un cerchio contenente un disegno floreale basato su un esagono, costruito probabilmente a partire da due triangoli collegati, suggerisce complesse letture iconografiche che è bene rimandare ad altro momento.

Il simbolismo vegetale del centro, che richiama i nobili antecedenti del labirinto di Chartres, sottolinea l’interpretazione cristiana del labirinto come luogo di illusioni, tentazioni e peccati, del cammino come percorso tortuoso e virtuoso e del centro come luogo di grazia e salvezza. Essendo stato progettato specificatamente per la sala del Tesoro, il primo impulso sarebbe quello di attribuirgli un valore simbolico di difesa.

In realtà, è probabile che il labirinto sia stato concepito proprio per l’erario che però va inteso nella sua accezione più ampia di biblioteca. In questo senso, è possibile citare almeno un importante precedente, che sia Paolo III Farnese, cresciuto alla corte di Lorenzo de’ Medici, sia i suoi architetti di origine fiorentina dovevano conoscere. Si tratta della sala dei libri rari disegnata la Biblioteca Laurenziana di Firenze che Michelangelo aveva disegnato in forma di labirinto triangolare dal valore di percorso iniziatico. Il labirinto potrebbe quindi essere stato scelto dal pontefice in persona anche per legarsi all’opera del suo predecessore e protettore, Clemente VII Medici. L’esistenza di un fregio dipinto e subito coperto dagli armadi è in realtà giustificabile osservando la forma stessa delle armadiature. I gradini che sovrastano in modo sgraziato la cornice e che nascondono il fregio stesso sono stati probabilmente aggiunti quando si è deciso di riporre nella sala anche le reliquie e gli oggetti preziosi.

D’altro canto, il labirinto appare strettamente legato al più ampio programma iconografico degli appartamenti sottostanti, evocativi dell’idea di mondo come continua metamorfosi. e questa ipotesi sembra suffragata da un dettaglio affatto secondario che confermerebbe il valore labirintico delle sale farnesiane. Nel caos visivo generato nelle decorazioni dalla incontrollata ibridazione tra esseri umani, animali e vegetali, esiste infatti un “iconico” filo di Arianna in grado di guidare i visitatori più attenti. Si tratta di uno dei più celebri simboli della casa Farnese, l’impresa Festina Lente,[21] che letteralmente significa “affrettati lentamente” ed è qui spesso resa dalla associazione di Camaleonte e Delfino (Fig. 5). Paolo III la adottò come motto del suo pontificato, caratterizzato da una lenta ripresa economica e culturale dopo il Sacco del 1527 e dall’apertura del Concilio di Trento.

Tale impresa non appare nelle sale degli appartamenti in punti qualsiasi bensì al centro delle lunette che sovrastano gli ingressi reali e non compare mai nelle lunette che corrispondono alle porte fittizie e illusorie, come quelle della sala Paolina, occupate in genere da altri simboli. Rispetto allo stordimento prodotto dalle decorazioni, dalle porte ingannevoli e dalle figure trompe l’oeil a grandezza naturale, l’impresa Festina Lente svolgerebbe quindi il compito di riorientare lo sguardo del visitatore per indicargli la via (Fig. 6).

È interessante notare che il significato dell’impresa appare perfettamente calzante all’atteggiamento che il viaggiatore deve mantenere nell’esplorazione di un labirinto classico unicursale. Esso è infatti composto da un unico percorso raggomitolato su se stesso in spire ed ambagi e richiede soprattutto costanza e fede per essere attraversato. Potrebbe quindi essere stato lo stesso Paolo III a concepire il labirinto dell’ Erario Novo, non più composto dai mobili, come quello michelangelesco a Firenze, ma proiettato sul pavimento, come una sorta di geroglifico o mappa allegorica che rappresenta la complessità del mondo naturale e il percorso iniziatico da compiere con la determinazione e la costanza del vero fedele verso la conoscenza e la grazia.

Fig. 6. La sala Paolina con indicata l’impresa Festina Lente sopra la porta

Conclusioni

Il labirinto pavimentale della sala del Tesoro negli Appartamenti Farnesiani in Castel Sant’Angelo costituisce una presenza artistica e storica eccezionale dal punto di vista del disegno e della geometria dell’impianto, della fattura in piastrelle di cotto e della sua inconsueta simbologia. La sua parentela con quello di San Vitale a Ravenna realizzato – o forse solo restaurato – negli stessi anni, dimostra sia l’esistenza di una certa attenzione al tema decorativo, sia la sua disponibilità ad accogliere tematiche religiose e spirituali con declinazioni diverse. Ipotizzando che esso sia frutto dell’originale programma decorativo per l’erario/biblioteca, è possibile metterlo in relazione sia con il disegno michelangiolesco per l’incompiuta biblioteca segreta a Firenze, sia con il programma iconografico delle sale sottostanti, largamente fondato sull’immaginario di Ovidio e sul tema della metamorfosi e del mostruoso come monito visivo. A questo si aggiunge la relazione evidente tra l’esperienza di percorrere il labirinto classico, privo di scelte da compiere, e l’impresa che Paolo III scelse per rappresentarne il suo operato – affrettati lentamente – e che appare come una sorta di segnale sopra le porte tra le sale degli appartamenti.

Fabio COLONNESE   Roma   2019

NOTE

[1] Una prima versione di questo studio è in Fabio Colonnese, Il labirinto e l’architetto, Roma, Kappa, 2006, pp. 287-302. Ringrazio il Prof. Marcello Fagiolo per la revisione del testo.
[2] L’operazione prese il via nel 1993 ed vide impegnati, per oltre sei anni, docenti, ricercatori, dottorandi, professionisti, il personale di Castel Sant’Angelo, guidato dal soprintendente Ruggero Pentrella, oltre che centinaia di studenti dei corsi di Disegni I e II della Facoltà di Ingegneria dell’Università Sapienza di Roma. I risultati sono stati esposti, dal novembre 2000 al marzo 2001, nelle sale di Castello, e sono compiutamente disponibili in: Cesare Cundari (a cura di), Castel Sant’Angelo. Rilievi e immagini, Roma, Kappa, 2001.
[3] Le sale furono decorate da Luzio Romano nel settore settentrionale (1543 – 45), Perin del Vaga nelle sale di rappresentanza meridionali e, dopo la sua morte nel 1547, da Domenico Zaga fino all’anno successivo. Eraldo Gaudioso, Filippa Maria Aliberti Gaudioso, Gli affreschi di Paolo III a Castel Sant’Angelo. Progetto ed esecuzione 1543-1548, Roma, De Luca, 1981.
[4] Cesare Cundari, Il rilievo degli Appartamenti Papali in Castel Sant’Angelo, Roma, Gangemi, 1994.
[5] Alessandra Ghidoli, La sala del Tesoro, in Castel Sant’Angelo: ambiente e arredo. Note e riflessioni in occasione del restauro, in Studi su Castel Sant’Angelo (Archivium Arcis 3), Roma, Argos, 1991, pp. 203-219. Nella ampia sintesi degli avvenimenti che hanno interessato la sala, il labirinto non viene menzionato.
[6] Cesare D’Onofrio, Castel Sant’Angelo, Roma, Cassa di Risparmio di Roma, 1971
[7] Gaudioso, Gaudioso, Gli affreschi di Paolo III, op.cit., vol. II, p. 54.
[8] D’Onofrio, Op. cit., p. 112.
[9] Eraldo Gaudioso, I lavori farnesiani a Castel Sant’Angelo. Precisazioni ed ipotesi, in “Bollettino d’Arte”, 1976, serie V, anno LXI, 1-2, pp. 21-42. Alle medesime conclusioni arriva Adriano Ghisetti Giavarina, Aristotele da Sangallo e i disegni degli Uffizi, Multigrafica, Roma, 1990, pp. 25-26
[10] Gaudioso, I lavori farnesiani, op. cit., 3-4, p.238.
[11] Compare sono nella seconda edizione del fondamentale libro di Hermann Kern, Through the Labyrinth. Designs and Meanings Over 5,000 Years, Munich: Prestel, 2000.
[12] Berlin, Staatliche Museen Preussicher Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, 79 D 2 a. Il disegno è comunemente associato all’ambiente mantovano e ai progetti di Giulio Romano. Cfr. Paolo Carpeggiani, Labyrinthos. Metafora e mito nella corte dei Gonzaga, in Quaderni di Palazzo Te, 2, 1985, pp. 55-67.
[13] Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, f. 477 v. Cfr. Colonnese, op. cit., p. 111.
[14] Sebastiano Serlio, Regole generali di architettura, Libro IV, Venezia, 1537.
[15] Le grottesche, attribuibili in gran parte a Luzio Romano, sono l’elemento decorativo più costante nelle sale. Gli artisti romani seguirono i modelli decorativi appresi dalla Domus Aurea (I secolo d.C.), scoperti e studiati dalla fine del XV secolo. Nel Palazzo Penitenzieri, nel 1481 Pinturicchio aveva già riprodotto una quantità di bizzarri esseri fantastici, come sirene, centauri e sfingi, insieme a simboli cristiani e emblemi araldici, senza apparente imbarazzo. Cristina Acidini Luchinat, La grottesca, in Storia dell’arte italiana, t. III/4, Torino, Einaudi, 1982, pp. 161-200.
[16] Un ruolo fondamentale nella diffusione dei miti dall’Antichità al Rinascimento è da attribuirsi a Le Metamorfosi di Ovidio come fonte sia testuale che iconografica, grazie alle illustrazioni degli episodi. Alla fine del XV secolo il libro diventa una sorta di testo sacro per gli artisti rinascimentali in virtù del valore ambiguo del mito e della sua intrinseca possibilità di incarnare e di rappresentare eventi e persone contemporanei in modo traslato e i miti di Ovidio diventano tra gli argomenti preferiti per le decorazioni di palazzi e ville, non ultimo quello del Minotauro, ovviamente. Vedi: Paul Barolsky, As in Ovid, So in Renaissance Art, in Renaissance Quarterly, Vol. 51, No. 2, 1998, pp. 451-474. Questo interesse per la metamorfosi animale e umana, che venne pure amplificata dalle illustrazioni dell’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna nel 1499, può anche essere una conseguenza della riscoperta rinascimentale del De Rerum Natura di Tito Lucrezio Caro, da parte dell’umanista fiorentino Poggio Bracciolini. La sua edizione di questo poema filosofico produsse un vero e proprio terremoto culturale tra letterati e artisti, in particolare in virtù delle sue idee sull’atomismo e sul moto intrinseco di tutte le cose.
[17] Marco Frescari, Monsters of Architecture: Anthropomorphism in Architectural Theory, Savage, MD: Rowman and Littlefield, 1991.
[18] Nelle due sale adiacenti Perin del Vaga e i suoi collaboratori dipinsero temi tratti sia dalle Metamorfosi di Ovidio, sia dalle Metamorfosi e dall’Asino d’Oro di Apuleio.
[19] Il significato primario di “animale malforme o umano che devia dall’ordine naturale” deriva direttamente dal latino antico e alla fine del XIV secolo tale termine fu esteso agli ibridi ovvero quegli “animali immaginari composti da parti di creature diverse”, prodigi al di fuori dello stretto mondo naturale, ma anche alle creature di grandi dimensioni. Allo stesso tempo, “mostro” condivide la radice latina “monere” (“ammonire”, da cui, ad esempio, deriva la parola “monitor”) con la parola “mostrare”, rendere visibile. Per un quadro esaustivo degli studi moderni sul mostruoso, cfr: Spazi del Mostruoso. Luoghi filosofici della Mostruosità, Lo Sguardo. Rivista di Filosofia, n. 9, 2012.
[20] Santarcangeli, op.cit., p.145.
[21] Il motto è frutto di una traduzione latina di Euripide, attribuita poi ad Augusto da parte di Aulo Gallo. Paolo III lo riprende associandolo, in modo tautologico, al Camaleonte e al Delfino nell’impronta infissa nella volta del gabinetto destro della sala detta La Cagliostra. Nel gabinetto gemello è presente invece uno struzzo con un ferro di cavallo in bocca, emblema della Giustizia e della neutralità del Papa. Italo Calvino dedica una pagina nella sua lezione americana sulla Rapidità all’emblema, ricordando come il medesimo motto fosse stato adottato anche da Aldo Manuzio, editore veneziano dell’Hypnerotomachia Poliphili che è poi il resoconto di un viaggio più che labirintico.