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Stefania Macioce è
Stefania Macioce è professore ordinario di Storia dell’Arte Moderna alla Sapienza Università di Roma, dove si è laureata con Maurizio Calvesi con una tesi sulla pittura Ferrarse del Quattocento; poi i suoi studi e le sue ricerche si sono concentrati in particolare sulla pittura a Roma negli anni a cavallo tra la fine del Cinque, gli inizi del Seicento ed oltre, curando volumi sulla figura e l’opera di Caravaggio e del suo ambiente. Fondamentali a questo riguardo sono i volumi Michelangelo Merisi da Caravaggio: fonti e documenti 1532-1724, per Ugo Bozzi, Roma 2003, edizione ampliata ed aggiornata fino a raccogliere circa 1.600 testi in Michelangelo Merisi da Caravaggio. Documenti, fonti e inventari 1513-1875, II ed. corretta, integrata e aggiornata, Roma Ugo Bozzi Editore, 2010. Il Il suo recente volume dal titolo Caravaggio. Luci e ombre di un genio (ed. White Stars) mette a fuoco numerose problematiche concenrenti la figura dell’artista lombarda sulle quali l’abbiamo intervistata.
-Prof. Macioce, cominciamo dal titolo : perché Caravaggio. Luci e Ombre ? si riferisce allo stile – o meglio ai differenti esiti stilistici delle opere del Merisi? o alla sua vita piena di contrasti, con quelle ‘illuminazioni’ iconografiche che ne hanno fatto l’artista geniale che tutti riconoscono? Lei è tra i più noti e preparati esegeti di Caravaggio; in questo volume cosa ha voluto sottolineare in particolare? Ci sono novità che non si conoscevano o comunque note e precisazioni che occorreva mettere in rilevo circa la vita o l’opera del pittore?
R: Caravaggio è un mito dei nostri tempi e tra gli storici dell’arte come tra il pubblico degli appassionati non esistono detrattori. I suoi dipinti, subito identificabili, instaurano una immediata empatia, sono essenziali, moderni. La divulgazione dei suoi dipinti riprodotti in foto, manifesti e gadget di ogni tipo, incrementano di continuo la notorietà dell’artista, la cui tormentata biografia alimenta una sorta di “gossip” permanente della storia dell’arte. Agli occhi del pubblico Caravaggio non ha precedenti e sono tanti tra i non esperti che, mai lacerati da dubbio alcuno, riconoscono la mano del maestro; al contempo gli specialisti alimentano di continuo il dibattito critico, ricercando con singolare bramosia le sue opere scomparse e ogni traccia documentaria.
Con il sottotitolo “luci e ombre” si è voluto attenuare il riferimento al forte contrasto chiaroscurale presente nei dipinti di Caravaggio a partire dalla Cappella Contarelli in san Luigi dei Francesi, contrassegno dell’identità pittorica dell’artista. Si è puntato, se pur con moderazione, a condensare l’attenzione sulle opere, segno tangibile di un percorso che nonostante le “luci” offerte dalla critica, presenta ancora alcune zone di ombra. Il buio è certo una peculiarità della cifra stilistica di Caravaggio, esperito da letture critiche ad ampio raggio metodologico. L’ombra invece rimanda ad una sfumatura allusiva, a quella sorta di ambiguità permanente nella ricezione della sua pittura. Il maestro della realtà è accolto come un mito e come tale i confini della sua pittura si dilatano e assumono valenze e significati diversi, talvolta non del tutto corrispondenti al pensiero del pittore che si definiva un valentuomo ed era perfettamente consapevole del suo talento, come delle finalità della sua pittura. Anche se l’opera d’arte ha per sua natura una sorta di autonomia che travalica i limiti temporali e che può renderla sempre attuale, aperta a suggestioni e interpretazioni diversissime e legittime, su di un piano più propriamente storico non convince voler riferire all’artista contenuti che, con buona probabilità, non ha mai voluto esprimere.
La narrazione ottocentesca dell’artista maledetto, sofferente e perseguitato, grande incompreso che si fa amare dal pubblico soggiogato, è ormai obsoleta e banale nella sua reiterazione. In realtà Caravaggio è artista ben compreso ai suoi tempi e molto apprezzato da tutti coloro, tra colleghi e mecenati, che s’intendevano davvero dell’arte. Come maestro della realtà recepisce l’atmosfera che vive nella Roma di fine ‘500, buia, sporca, segnata da povertà, malattie e violenza, dove i bassifondi della città pullulano di trasgressioni e malavita, come dimostrano i tanti processi dell’epoca conservati all’Archivio di Stato di Roma. La pittura di Caravaggio documenta questa realtà perché è quella che egli vede e nobilita trasferendola nell’eternità della storia: ogni dipinto è un fotogramma, un’istantanea realizzata attraverso una straordinaria sapienza pittorica che pone al centro dell’attenzione gli esseri umani, avulsi da gerarchie sociali e in attesa di riscatto.
Caravaggio si dichiara poco colto: la sua pittura è una elaborazione raffinata e potente della realtà, tanto da veicolare riferimenti spirituali aderenti alle correnti religiose della sua epoca. Ciò non avviene secondo una modalità programmatica o ideologica, poiché la sua pittura esprime l’assoluto, la verità della condizione umana. La luce che accende i suoi dipinti come sotto riflettori, è certo carica di valenze antiche, ma è anzitutto protesa ad affermare una visione nuova che anticipa di secoli la fotografia. Come tutti gli artisti veri Caravaggio comunica e genera emozioni attraverso la sua arte, ma non proclama programmi teorici come Federico Zuccari, i suoi dipinti comunicano l’inesprimibile, come la musica. Anche se le operazioni critiche storicamente aderenti sono illuminanti per documentare e chiarire sempre più ogni aspetto della sua appartenenza ad un contesto storico, non possono allontanarsi dall’oggettività dei dati o meglio, dalla datità come avrebbe detto Cesare Brandi.
La breve vita di Caravaggio, costellata di vicissitudini giudiziarie e marginali relazioni affettive, si consegna quasi ineluttabilmente al dramma della fine e anche se su di lui sappiamo tanto, anche se abbiamo contezza dei tanti documenti che lo riguardano direttamente e non, in realtà noi non sappiamo quasi niente del suo pensiero. Caravaggio, come Annibale Carracci, non crede che in natura vi siano gerarchie e poiché ogni elemento del reale ha la stessa rilevanza, grandezza e significato, è parte della storia, ma differenza della sua pittura il suo pensiero resta nell’ombra. Come sappiamo, fu l’assenza di una selezione, carattere distintivo della pittura di Caravaggio, a determinare il severo giudizio, destinato a protrarsi fino ai primi del ‘900, del classicista Bellori che accusò il pittore di aver corrotto la pittura. In tal senso in questo volume da me curato, il contributo di una esperta come Michela Gianfranceschi, mette in luce come attraverso le incisioni, la critica belloriana abbia determinato una sorta di confino che ha promosso l’inserimento di Caravaggio nel ruolo di pittore di genere per almeno tre secoli di cultura europea, come noto sarà soltanto la mostra di Roberto Longhi nel ‘51 a modificare radicalmente quel giudizio.
In linea con le esigenze editoriali (secondo i desiderata dell’editore infatti, non compaiono note) questo volume ha un obbiettivo: divulgare attraverso una reale quanto lineare e meditata conoscenza dei fatti, un percorso critico essenziale, che contempli una certa riduzione del catalogo delle opere cui viene ad aggiungersi soltanto il bellissimo Ecce Homo comparso recentemente sul mercato madrileno.
-In questi ultimi annii si è molto dibattuto sui tempi ‘romani’ del Caravaggio, con l’ipotesi, avvalorata in qualche misura da recenti scoperte archivistiche, dell’arrivo nella capitale pontificia tra il 1595 e il 1596, cosa che sposterebbe la realizzazione delle prime opere; nel tuo libro che posizione prendi? E inoltre resterebbe ancor più oscura – accettando questa datazione ‘tarda’ dell’arrivo a Roma- la fase in cui l’artista lascia Milano per raggiungere Roma, in sostanza un periodo di 4 – 5 anni; ti chiedo: che idea ti sei fatta? E cosa pensi dell’idea avanzata da Rossella Vodret (ultimamente sul volume di Scritti in onore di don Sandro Corradini) di una partecipazione di Caravaggio ai conflitti in atto in Europa?
R: Per quanto concerne la prima parte della domanda, resto in una posizione di prudente attesa. Il documento comparso nel 2011 è indubbiamente rilevante e costituisce una indubbia acquisizione che ha aperto a un legittimo dibattito sulla cronologia delle opere. C’è da dire però che “al momento” ci basiamo sulla testimonianza di un garzone di barbiere che fornirebbe la prima menzione di Caravaggio a Roma. Non sappiamo però quanto il povero garzone sia affidabile, ma in assenza di altre prove, dobbiamo per ora tenerne conto.
Ciò che infatti resta tuttora difficile spiegare è la considerazione degli scarti stilistici, nel novero delle opere dell’artista, sintesi e progressioni che sarebbero avvenute in un tempo che si contrae fino a circa due anni. Sarà utile allora concentrare gli sforzi nella definizione di posizioni non radicali, ma aperte ad accogliere nuove interpretazioni.
Quanto ha osservato Rossella Vodret mi trova d’accordo. Quattro anni di “buco”, ovvero senza alcuna notizia riguardante la biografia di Caravaggio e conseguentemente la sua attività, tra l’allontanamento da Milano e l’arrivo a Roma del pittore, sono problematici. Si formulano ipotesi anche convincenti. E’ possibile, come tutti pensano, che sia andato a Venezia, come nel ‘98 aveva fatto il Cavalier d’Arpino, inviato dal cardinale Aldobrandini per studiare le collezioni veneziane.
Ma la Lombardia all’epoca comprendeva un territorio più esteso e non possiamo escludere nulla, non ci sono documenti. Di certo indiscutibilmente i suoi quadri dichiarano la conoscenza di prototipi veneti, assimilati attraverso Simone Peterzano e questo imprinting è forte se si pensa ai Musici o al Suonatore di liuto . E’ anche plausibile l’ipotesi di una partecipazione del pittore ai conflitti allora in atto e mi pare che anche recenti scoperte di Giacomo Berra contemplino questa eventualità in riferimento al periodo maltese.
-Altra questione apertasi soprattutto negli ultimi anni tra gli studiosi di Caravaggio riguarda la possibilità che egli replicasse le sue opere, magari per motivi economici; mi pare che nel tuo libro prevalga la tesi ‘tradizionale’ che così non fosse, o sbaglio ?
R: Caravaggio non voleva che le sue opere fossero replicate, e se avesse fatto una replica, come nel caso della Buona Ventura, avrebbe apportato delle modifiche tra una versione e l’altra. Nonostante per errore nel libro sia inserita una foto a piena pagina del Suonatore di liuto di New York, nel testo l’autografia di quell’opera è espunta e qualche riserva è espressa anche sul Ragazzo morso dal Ramarro della Fondazione Longhi, questi quadri nel libro appaiono solo come immagini di corredo per una scelta editoriale che io non ho condiviso.
Nulla può escludere che per esigenze economiche … ma una copia è sempre se non brutta, per lo meno modesta sotto il profilo propriamente artistico, questo non collima con la personalità di Caravaggio, che sommamente esigente e se vogliamo consapevole fino all’arroganza, non avrebbe mai licenziato un dipinto modesto. Bisogna anche riflettere su un concetto: una replica autentica di Caravaggio è un ritrovamento eccezionale (anche commercialmente!) e discutendone attraverso analisi dettagliatissime, quasi mai purtroppo risolutive (l’indagine andrebbe estesa anche a molte altre opere afferenti al caravaggismo per fondamentali confronti), alla fine viene valorizzata, come la Giuditta apparsa sul mercato francese, anche se non convince. Il talento straordinario di un grande artista, pur se stanco, vecchio o malato, può mostrare delle imprecisioni, forse delle debolezze, ma un percorso straordinario non si spegne nella modestia, semmai si semplifica, punta all’essenziale e talvolta all’insolito. Nel percorso artistico di Caravaggio c’è sempre una coerenza di cui tenere conto, se trattassimo di Baglione allora sarebbe diverso.
-Un’ultima domanda riguarda il fatto che come sappiamo Caravaggio è uno degli autori tra i più studiati ed analizzati di sempre, purtroppo anche da “caravaggisti” improvvisati che molto spesso fanno più danni che altro; secondo te come evitare il proliferare di ‘parvenu’ alla ricerca dei dieci minuti di celebrità che certamente il solo parlare del Merisi non di rado comporta?
R: La logica commerciale è un aspetto molto incisivo nella società di oggi. Gli editori per esempio pubblicano con estrema facilità dando molto peso alla commerciabilità di un libro che è legata per esempio alla notorietà dell’autore. La notorietà non è però sempre legata alla qualità. Se pensiamo ai grandi editori del passato, Einaudi per citarne uno, le scelte erano legate alla qualità del prodotto e l’editore, sovente persona di ampia cultura, valutava un testo sulla base dei suoi contenuti; era questa valutazione attenta che ha permesso a tanti grandi nomi della letteratura e della critica di divenire celebri, in quanto figure realmente autorevoli. Oggi le cose sono cambiate poiché il più delle volte gli editori non investono sul talento o sulla qualità di un libro, ma sulla sua commerciabilità basata oltre che sulla notorietà dell’autore, su congrui finanziamenti destinati a coprire le spese editoriali, come pure alcune case editrici si rivelano sensibili ai suggerimenti ”politici”.
Accanto a queste nuove caratteristiche dell’editoria, Internet ha permesso a chiunque di introdurre i propri scritti sul mercato, la selezione di quello che circolo è assai relativa, quasi inesistente.
E’ stato notato da tempo che siamo nella società dell’apparire. Il contesto in cui viviamo raccoglie l’eredità di alcune fratture verificatesi nel passato. A mio avviso non è un pensiero peregrino risalire al ’68, le cui conseguenze reali si possono cogliere nell’attuale stato di confusione che appare irreversibile. Assistiamo ad una corruzione del concetto di libertà e conseguentemente di democrazia. Ritengo che il senso del limite, che anche la democrazia impone, sia imprescindibile per ogni individuo. Ma così non è oggi. Dopo il ’68 spunta l’assioma che ognuno per sentirsi “libero” deve poter esprimere quello che “sente”, anche senza il necessario controllo del raziocinio. Ne consegue ciò a cui oggi assistiamo: aberranti correnti di pensiero che senza alcuna logica fanno continuamente proseliti sulla base di libere scelte. Il problema è ampio e a mio avviso grave, molto grave, perché mostra una società fuori controllo, assecondata da una politica che da tempo non è in linea con l’idea di democrazia, i cui fondamenti sono l’etica, il rispetto delle regole comuni, delle gerarchie, delle istituzioni.
In questo contesto sregolato persino Caravaggio diviene strumento utile alla visibilità e alla discutibile affermazione di un chiunque desideri apparire e decida, in base al suo ”sentire”, di pubblicare libri inutili, banali, raccogliendo qua e là su Internet, informazioni erronee, trite e ritrite, perché Caravaggio è un eccellente strumento per acquistare visibilità, per apparire e chi non riesce a farlo si sente frustrato, senza una identità. Frenare questo fenomeno che, mi si conceda, appartiene alla banalità del male, non è assolutamente facile, perché è un ingranaggio perverso legato alla rete, i cui vincoli sono limitati.
Per quanto concerne Caravaggio, le mostre ad esempio hanno influito molto sul pensiero comune, ma non sempre in termini positivi. Sarebbe auspicabile riassegnare dignità agli studi di settore e forse uscire da certe logiche di mercato cui le mostre appartengono. Non credo sia facile. Si è generata una distanza incolmabile tra ciò che è scientificamente corretto e ciò che è commerciale, si dovrebbe innalzare il livello dell’offerta senza cavalcare sempre l’onda del “genio” che richiama attenzione e successo di mercato. Al momento soluzioni possibili non ne vedo, è un meccanismo degenerato e la spazzatura prolifera in tutti i sensi; forse un giorno lontano si tornerà alla qualità e alla sua irrinunciabile dignità.
P d L Roma 14 novembre 2021