Le realtà di Caravaggio e Vermeer. Universi paralleli, così lontani, così vicini.

di Francesca SARACENO

Johannes van der Meer, meglio conosciuto come Jan Vermeer, nasce a Delft nel 1632, ventidue anni dopo la morte di Caravaggio, e inizia la sua attività artistica all’inizio degli anni cinquanta del Seicento. Cinque decenni che segnano il passo di una filosofia artistica in forte evoluzione e che sembrano porre una distanza abissale, incolmabile, tra due realtà stilistiche, due linguaggi figurativi molto diversi ma che ebbero nell’uso della luce il denominatore comune. Lo stesso denominatore sul quale, nel 2021, Claudio Strinati, in un volume edito da Einaudi dal titolo Caravaggio e Vermeer. L’ombra e la luce, fondò la sua dissertazione sul pensiero pittorico dei due grandi artisti: “L’uno, per così dire, è figlio della notte, l’altro è figlio del giorno”. Una differenza apparentemente sostanziale che si sviluppa, come scrive Strinati:

“ … all’interno di una stessa civiltà che è quella del secolo della scienza all’origine di qualsivoglia concetto di modernità.”

Proprio “il concetto di modernità”, nel cui solco Caravaggio e Vermeer possono avvicinarsi, è un viaggio che parte da lontano.

L’arte italiana, ancora così pervasa di memorie classiche elleniche e romane, e quella del nord Europa legata a doppio filo alle figurazioni tardo gotiche, sembravano due universi lontani condannati alla “incomunicabilità”. Eppure questi due mondi antitetici si erano incontrati e contaminati reciprocamente a partire dal Quattrocento, complici le rotte commerciali tra grandi città europee, tra le quali non mancavano le importanti realtà italiane marittime di Genova, Napoli e Venezia. E nel tempo, grazie alle economie che fiorivano sulle lunghe tratte tra la via della seta (e più tardi quella del Nuovo Mondo), mercanti, uomini d’affari e personalità di varia gerarchia, contribuirono a una imponente movimentazione di opere – e conseguentemente di artisti – in tutto il continente; curiosi, intellettualmente aperti alle novità, e comunque spinti dal bisogno comune di seguire l’evoluzione del pensiero.

Fu così che artisti italiani partirono per lunghi viaggi nelle Fiandre, per apprendere i segreti di quella cultura artistica così particolare, minuziosa ed enigmatica, fatta di piccoli capolavori di straordinaria precisione figurativa che, proprio per le ridotte dimensioni dei dipinti, aveva sviluppato le grandi potenzialità strutturali e descrittive della luce e del colore, conferendo ai soggetti una “naturalezza” inusitata. Attraverso loro arrivò nel XV secolo, nel nord est italiano, una nuova tecnica pittorica (la pittura a olio) che consentiva agli artisti una grande libertà di esecuzione, di operare su supporti diversi, tornare sui propri intendimenti, raggiungere effetti cromatici e luministici straordinariamente naturali.

A loro volta, gli artisti provenienti da quelle regioni lontane accorsero in gran numero in molte città italiane, per studiare i grandi maestri del Rinascimento, per carpire le regole del disegno e della prospettiva, le volumetrie plastiche e le geometrie strutturali, dando origine così a una commistione di stili pittorici e tecniche esecutive che arricchì la loro e la nostra cultura. Il Rinascimento veneto è frutto di questa importante commistione. L’arte italiana scoprì il “naturalismo”, la pittura di genere, la natura morta che, proprio in Italia, diventò protagonista come genere pittorico distinto. E tutto questo, grazie alle influenze di molti artisti che avevano portato con sé gli umori e le innovazioni di popoli e idee in continuo movimento; un moto perpetuo di scienza e conoscenza che Giulio Mancini seppe cogliere nella dinamica vitalità di quei pittori «franzesi e fiamenghi che vanno e vengono (e) non li si puol dar regola».[1]

E proprio questi “franzesi e fiamenghi” così “mobili”, incostanti, ma anche così avidi nell’assimilare le tradizioni e le novità del gusto pittorico italiano, portarono nei loro paesi il “verbo” di quel Michelangelo da Caravaggio, formatosi tra la vivacità della pittura lombarda e veneta intrisa proprio delle loro influenze nordiche, che riverberava e rielaborava i “miracoli” del cromatismo e del luminismo fiammingo, il culto del dettaglio, nonché quella filosofia del “quotidiano” che divenne pregnante nelle scene del maestro.

Nel corso del Seicento, Utrecht divenne il centro nevralgico del caravaggismo in terra d’Olanda, dove Gerrit van Honthorst, Dirck van Baburen, Hendrick ter Brugghen costituirono il primo nucleo di seguaci del linguaggio figurativo del Merisi, seguiti poi da Mathias Stomer, cresciuto nella Sint-Lucasgilde (la Corporazione di San Luca di Utrecht) e da molti altri. Ma nessuno di loro ebbe mai in mente una sequela pedissequa dell’arte caravaggesca, piuttosto una rielaborazione stilistica e concettuale da innestare nella realtà e nella cultura figurativa olandese di quello che venne definito il “secolo d’oro”. Roberto Longhi, molto argutamente scrisse:

Dopo il Caravaggio i «caravaggeschi». Quasi tutti a Roma, anch’essi, e da Roma presto diramatisi in tutta Europa. La «cerchia» si potrà dire, meglio che la scuola; dato che il Caravaggio suggerì un atteggiamento, provocò un consenso in altri spiriti liberi, non definì una poetica di regola fissa; e insomma, come non aveva avuto maestri, non ebbe scolari.”[2]

Dunque fu questo che i caravaggeschi olandesi portarono in patria, un “atteggiamento”, un modo di interpretare la realtà; plateale e attualizzante. E lo condirono a volte di goliardia, lo gonfiarono di orgoglio nazionale, trasponendovi la propria concezione del mondo e la propria realtà politica e sociale. Le morbide, plastiche forme dei santi e degli eroi italici espansero il sentimentalismo olandese, romantico o libertino che fosse, nella “pittura di genere”.

Tuttavia, benché sia innegabile una certa influenza di tardo manierismo italiano già pregno di “germi” caravaggeschi, nelle primissime opere del maestro di Delft, come ad esempio nella Diana e le Ninfe (fig. 1), non a caso voluta da Roberto Longhi nell’ultima sala espositiva della grande mostra milanese di Palazzo Reale nel ’51, non si può certo parlare di vero e proprio “caravaggismo” in Johannes Vermeer, se non per pochissimi e riconoscibili tratti in alcune sue opere.

Fig. 1 Jan Vermeer Diana e le Ninfe 1654-1656 ca., Museo Mauritshuis, L’Aia

Oltre alla succitata Diana, La Mezzana (fig. 2) può essere considerato un unicum, che lo avvicina non tanto al Caravaggio quanto all’universo caravaggesco di Utrecht; l’unico ambito che è supponibile l’artista conoscesse in maniera più diretta.

Fig. 2 Jan Vermeer La Mezzana 1656 ca., Gemäldegalerie Alte Meister, Dresda

Nel soggetto triviale, soprattutto, di cui conserva la “caravaggistica” crudezza della rappresentazione, rielaborata però in una più forte accentuazione dei gesti. Gli olandesi avevano portato con sé gli aspetti più “teatrali” della pittura del Caravaggio, caricandoli di atmosfere salaci, esplicite, che il maestro lombardo – in realtà – non aveva mai adottato. Lo stesso uso che Caravaggio fa della luce come elemento strutturale, spesso violento e improvviso, costruttivo dello spazio e della figura, in Vermeer diventa un velo poetico di placido chiarore, che si posa lieve sulle cose e sulle persone, che svela e plasma le forme senza imporle, che si affaccia come pulviscolo dorato da finestre socchiuse, da tendaggi appena scostati.

Ma c’è un motivo per il quale quei mondi che si erano incontrati e contaminati a vicenda rimasero sempre sostanzialmente distanti, fino a divergere drasticamente proprio in quel “secolo d’oro”, il Seicento, in cui i semi del caravaggismo maggiormente attecchirono. E questo motivo non è solo culturale, ma credo primariamente religioso. Nel primo Cinquecento la Riforma luterana in Germania, pur contestando gli eccessi della Chiesa cattolica, aveva saputo cogliere il valore didattico dell’arte sacra, sebbene mondato da ogni possibile idolatria o autocelebrazione istituzionale, dando vita a un filone artistico protestante, utile a diffondere la nuova concezione religiosa. Sono celebri, in questo senso, i dipinti di Lucas Cranach il Vecchio (fig. 3).

Fig. 3 Lucas Cranach il Vecchio Il banchetto di Erode 1539, Kunsthistorisches Museum, Vienna

In Olanda, invece, il calvinismo più radicale che aveva vietato il culto delle immagini sacre, nella sua furia iconoclasta aveva devastato le chiese privandole di ogni ornamento, dipinto, o scultura. Le chiese erano diventate bianchi, austeri templi in cui la Parola soltanto aveva importanza e ruolo dall’alto pulpito da cui veniva declamata. La veemenza con cui il calvinismo si affermò in Olanda, era il riflesso di un preciso intento nazionalistico: liberarsi della religione cattolica e della cultura, del ruolo politico che essa rappresentava, per lasciare il posto a una nuova società fondata su forti valori unitari e identitari; gli stessi che condussero nel 1581 alla costituzione della Repubblica delle Sette Provincie riunite. Da quel momento in poi, e più ancora dopo l’agognata indipendenza dal dominio spagnolo ottenuta nel 1648, mancando del tutto l’alternativa del soggetto religioso, l’arte nei Paesi Bassi non poté che virare su raffigurazioni di tutt’altro registro. La “sacralità” si spostò dalla dimensione divina a quella terrena; la glorificazione artistica non riguardò più Dio ma la nazione, il conquistato benessere, la sua identità culturale, la sua struttura sociale e le regole che la sostenevano. Vermeer visse e operò in questo contesto sociale e religioso, e la sua arte non poteva non essere condizionata da questi fattori contingenti.

D’altra parte, l’integralismo calvinista in Olanda faceva il paio con la fermezza ideologica del cattolicesimo romano. Caravaggio aveva condotto la propria attività artistica operando su territori fortemente segnati dai rigori precettistici della Controriforma cattolica: la Lombardia dei Borromeo, la Roma dei papi, i territori partenopei sotto l’egida della cattolicissima Spagna, l’avamposto militare maltese dello Stato Pontificio. E ciascun artista, inevitabilmente, è espressione del proprio tempo, dell’ambiente in cui vive e opera, e della cultura che in esso prevale.

Per tale motivo la pittura del Caravaggio è così diversa da quella che sarà di Vermeer; l’arte del maestro lombardo è essenzialmente arte sacra, e anche quando non è destinata alle chiese essa è spesso richiesta da collezionisti fortemente legati ad ambienti ecclesiastici, sebbene il collezionismo privato fosse certamente più aperto alle innovazioni stilistiche e alle mutazioni del pensiero filosofico e scientifico che stavano sempre più affermandosi in quegli anni. Ma è chiaro che in un contesto di questo tipo, le scene tratte dalla storia sacra prevalgono su quelle mitologiche o di genere; che pure sono presenti, soprattutto nel primo tempo di attività romana, richieste e apprezzatissime, ma anch’esse vengono spesso trasfuse dal pittore lombardo di una pluralità semantica che include letture moralistiche e teologiche. Le influenze nordiche che il Merisi aveva assimilato nella sua formazione tra la Lombardia, il Veneto e la bassa padana, risentivano già di rielaborazioni “italianizzanti”. Le tavolozze vivaci dei fiamminghi arrivate nel tardo Quattrocento, avevano trovato corpo e vigore nella pastosità dei tratteggi di Giorgione, nelle volumetrie chiaroscurali di Tiziano. Le minuziose raffigurazioni naturalistiche dell’estremo occidente europeo, si erano innestate sullo sfondo dei grandi teleri veneziani attraversati da rigorose prospettive. Le scene di genere, già diffuse in quelle lontane culture, si erano riempite di toccante realismo espressivo, della spontaneità popolana dei soggetti del cremonese Vincenzo Campi, ma senza mai perdere quel risvolto concettuale e moralizzante che le nobilitava.

Caravaggio prese questo importante retaggio di contaminazioni nord-europee e lo trasformò in qualcosa di assolutamente nuovo e unico; la luce, il colore, il chiaro-scuro, l’estremo realismo delle scene diventano interpretazioni assolutamente personali dell’artista. Trasposizioni su tela di una percezione della realtà e di una ricerca tecnica e stilistica sue, e soltanto sue. Una nuova concezione pittorica che cresce e si evolve in seno all’ambiente artistico romano, dove la pittura non può prescindere dal fattore religioso, e per questo si fa portavoce di un messaggio ben preciso.

Se la pittura di Caravaggio è dunque essenzialmente pittura sacra, quella di Vermeer sarà quasi totalmente “laica”. Probabilmente più per necessità e convenienza che per spontanea inclinazione. Nella sua Olanda non è la Chiesa il primo “motore dell’arte”, il “committente” più importante degli artisti; lo è, invece, la ricca classe borghese, fatta di mercanti, medici, e vari professionisti, che si afferma come forza politica e imprime un’impronta decisa alla struttura sociale della nuova Repubblica. Saranno esponenti di queste categorie sociali i committenti e i compratori delle opere di Vermeer, ed egli li “gratificherà” proponendo loro soggetti pittorici fortemente aderenti al loro gusto, volti a esaltare la vocazione espansionistica della nuova Olanda e il ruolo sociale delle loro professioni, attraverso la raffigurazione di scene di vita quotidiana ambientate entro tipiche residenze borghesi, dove imponenti cartografie inneggiavano alla grandezza del paese, e dove eleganti suppellettili, ben visibili nei dipinti, costituivano il segno tangibile di una florida e rassicurante condizione economica. A fronte di tutto questo, però, ben scarsa era la considerazione che la classe borghese nutriva per gli artisti, reputati non più che bravi artigiani, utili solo a quell’intento autocelebrativo.

Non così nella Roma papalina, dove un artista che fosse stato capace di costruirsi una reputazione attraverso le sue opere, poteva ambire non soltanto a una condizione economica agiata ma anche a onorificenze, titoli, e un altissimo prestigio sociale. Gli veniva riconosciuto, tra l’altro, un importante ruolo propagandistico della fede cattolica ma soprattutto del potere politico del corpo ecclesiastico; il che, nonostante fosse di fatto posto in opera anche dagli artisti olandesi per la propria classe politica, non altrettanto veniva loro riconosciuto come “merito”.

E dunque sembrerebbe davvero arduo accostare due figure così estreme come Vermeer e Caravaggio; estreme nelle rispettive realtà sociali, ma anche – e direi soprattutto – nelle tematiche oggetto delle loro raffigurazioni. Santi, Madonne, eroi biblici e mitologici, contro camerieri, dame borghesi, scienziati. L’amore sacro contro l’amor cortese. La fede come scoglio di salvezza nella precarietà di un’esistenza violenta e pericolosa, contro la serena routine di una vita colta, agiata, prevedibile e confortante.

Eppure Vermeer non sarebbe stato Vermeer senza Caravaggio, come non lo sarebbe stato Rembrandt prima di lui, o Rubens che ne fu affascinato. Le visioni naturalistiche del Caravaggio, ritornano ai loro territori d’origine rinnovate di un inedito senso comunicativo, ad ampio raggio, e per questo accolto e tradotto in altri linguaggi figurativi a quelle latitudini.

Quella straordinaria intuizione del Merisi, ad esempio, di fermare il tempo di una storia nell’attimo cruciale in cui essa si compie, liberandola da inutili orpelli e spazi affollati, per prorompere impetuosa ed “essenziale” davanti agli occhi spalancati del riguardante, si ritrova ridotta nelle dimensioni ma egualmente “sospesa” e minimale nelle piccole scene di vita domestica di Vermeer, osservate dal pittore (e con lui da tutti noi) come se lo “zoom” di Caravaggio fosse tornato indietro, a un’osservazione più distante e discreta, ma altrettanto carica di pathos; solo più enigmatico. Altrettanto desiderosa di scoperta, solo più “misurata”.

Caravaggio ci trascina con lui dentro la storia, la fa esplodere improvvisa nella nostra realtà fisica. Vermeer ci lascia tutti sulla “quarta parete” del dipinto che è il nostro spazio di osservazione privilegiato; insieme al pittore, dietro una porta aperta, dietro una tenda scostata, come fossero il portale tra due mondi distinti eppure complementari. Noi, spettatori discreti ma egualmente partecipi di un uguale tempo sospeso, di un uguale messaggio figurativo trasmesso. Uno deflagra lampante di luce squarciando il buio, a svelarci l’evidenza della verità; l’altro chiede di essere scoperto nella morbidezza di un chiarore che filtra nel silenzio, nella placida calma apparente di quel tempo sospeso che l’osservatore usa per decriptarlo.

C’è un dipinto di Vermeer che è la Lezione di musica (fig. 4), dove una ragazza è raffigurata di spalle intenta a suonare una spinetta.

Fig. 4 Jan Vermeer Lezione di Musica 1662 ca. St. James’s Palace, Londra

Davanti a lei, appeso al muro, uno specchio ci restituisce l’immagine del suo volto (peraltro con una piegatura più accentuata rispetto a ciò che si osserva da dietro), che altrimenti non avremmo mai potuto vedere, e addirittura quella che sembra essere una gamba del cavalletto che regge la tela mentre l’artista ci lavora sopra. Il che tecnicamente è anche un azzardo prospettico rispetto al resto dell’impostazione; lo specchio, inclinato rispetto al muro, in realtà dovrebbe riflettere ciò che sta immediatamente dietro alla ragazza: la grande viola distesa in terra, la sedia blu. E invece vediamo qualcosa che non dovrebbe essere in quel riflesso ma che certifica un’intenzione precisa dell’artista: quella di dirci che siamo lì con lui mentre dipinge, e farci interagire con i personaggi di quella scena. Come già aveva fatto Caravaggio nel suo Bacco oggi agli Uffizi (fig. 5), che invita letteralmente il riguardante ad allungare la mano per ricevere quella tremula coppa di vino; come farà Manet con la sua Barista (fig. 6) ponendole dietro, anche lui, un grande specchio che riflette la nostra postazione: noi, in mezzo alla folla del bar, dentro la scena, mentre accade. La “realtà” del quadro non si conclude sui contorni della tela ma continua, da questa parte dello spazio-tempo.

Fig. 5 Caravaggio Bacco 1598 ca. Galleria degli Uffizi, Firenze
Fig. 6 Édouard Manet Il bar delle Folies-Bergère 1881-1882, Courtauld Gallery, Londra

La luce in Vermeer è la sola forza che riesca a pervadere il silenzio; ed è anche l’unico elemento davvero “naturale” nel dipinto, “ritratta” come il pittore la vede filtrare dall’esterno. In Caravaggio essa è la lama tagliente, appositamente “allestita” dall’artista per intensità e incidenza, che strappa la realtà alle tenebre fendendo l’aria. Quasi ferendola. Ma di quale realtà parliamo?

Ebbene, a parte l’uso della luce, nonostante il carattere realistico delle scene e la resa quasi tattile degli oggetti in entrambi gli artisti, né in Vermeer né in Caravaggio si può parlare di realtà “in quanto tale”. Entrambi gli artisti, infatti, sono “artefici” delle rispettive realtà figurative. Le pensano, le costruiscono, le acconciano, le “fingono” perché risultino “reali”. Caravaggio mette in posa attori veri a recitare storie sacre come fossero storie vere, attuali, che accadono in quel momento in una qualunque strada di Roma o di Napoli; ma ciò che dipinge è il risultato di una precisa mise en scene “fisica”, da lui stesso ideata e sistemata. Luci, costumi, location, arredi e complementi d’arredo, tutto è posto nello spazio pittorico in maniera funzionale al messaggio che l’artista intende comunicare, e che deve “impattare” sul riguardante immediato e potente.

Vermeer concepisce, invece, l’idea di una situazione realistica, “possibile” nella vita di ogni giorno, nell’intimità di una casa, che prende forma e sostanza nei gesti e negli oggetti di uso comune (i soli che, forse, possiamo immaginare “ritratti” dal vero), e ce la restituisce assolutamente spersonalizzata, quasi come una visione onirica; eppure noi la sentiamo “vera”, proprio perché domestica, quotidiana. Anche il ripetersi nei dipinti di Caravaggio e Vermeer di abiti simili – se non identici – usati per vestire i rispettivi soggetti pittorici, certifica una volta di più come ciascuno dei due artisti facesse riferimento a una – per così dire – attrezzatura scenica “di riciclo”; nel caso di Caravaggio a volte in prestito, altre volte – verosimilmente – di proprietà degli stessi modelli. Come è supponibile fossero indumenti “di famiglia” le vesti femminili che vediamo raffigurate più volte in dipinti diversi di Vermeer. La realtà passa dal quotidiano per entrambi i pittori ed essi la adattano, di volta in volta, in funzione del soggetto da raffigurare.

Ma se i soggetti del Caravaggio (benché spesso opportunamente modificati nelle fattezze del volto, per non incorrere in infrazioni dell’obbligo agiografico nella rappresentazione di personaggi sacri) risentono in maniera marcata della fisicità dei suoi modelli, persone vive e reali, i personaggi di Vermeeer – invece – non hanno mai una presenza scenica “corporea”, una plasticità palpitante; i loro volti, benché estremamente espressivi, non sono di persone reali, possiedono tratti comuni, rappresentano un “tipo” umano. Geografo (fig. 7), Astronomo (fig. 8), Lattaia (fig. 9), non sono IL geografo, L’astronomo e LA lattaia, ma sono UN geografo, UN astronomo e UNA lattaia; non come sono nella realtà, ma come sarebbero se fossero veri.

Fig. 7 Jan Vermeer Geografo 1668-1669 ca., Städelsches Kunstinstitut und Stadtische Galerie, Francoforte sul Meno
Fig. 8 Jan Vermeer Astronomo 1668, Museo del Louvre, Parigi

Costituiscono l’essenza pittorica delle rispettive categorie umane e professionali, e di esse evocano in maniera straordinariamente realistica lo spirito, i sentimenti, le inquietudini. Sono persone “fatte idea”.

Fig. 9 Jan Vermeer La lattaia 1658-1660 ca., Rijksmuseum, Amsterdam

E come in un percorso concettuale inverso, Bacco (vedi fig. 5), Maddalena penitente (fig. 10), Santa Caterina d’Alessandria (fig. 11), in Caravaggio sono “idee fatte carne”.

Fig. 10 Caravaggio Maddalena penitente 1597 ca. Galleria Doria Pamphilj, Roma
Fig. 11 Caravaggio Santa Caterina d’Alessandria 1598-1600 ca. Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid

Le sentiamo “vere” perché i loro volti, i loro muscoli, pelle, capelli, abiti, sono percorsi da quella linfa vitale vibrante che l’artista ha lasciato intatta nei suoi modelli. Essi sono il corpo “vivo” dell’idea, l’espressione “vera” del sentimento; ma… non “sono” Bacco, Maddalena o Caterina.

Il senso della realtà nei due artisti è evidente sebbene ottenuto con metodi diversi e secondo intenzioni diverse. La Giuditta di Caravaggio (fig. 12) – ad esempio – esplicita la sua missione, benedetta e fortificata dalla sfolgorante luce divina, calando la sua spada sul collo del generale Oloferne proprio davanti ai nostri occhi;

Fig. 12 Caravaggio Giuditta e Oloferne 1602 ca. Galleria Nazionale d’arte Antica, Palazzo Barberini, Roma

la verità dell’azione è plateale ed è tutta in quel lampo di luce che irrompe sul grande palcoscenico caravaggesco dove il sipario scarlatto che panneggia in alto si è sollevato nell’attimo esatto in cui la storia si compie, affinché noi potessimo avvertirne, tutta intera, la “realtà”.  La stessa che avvertiamo, palpabile, nell’opposto placido gesto dell’anonima Lattaia di Vermeer (vedi fig. 9) che lentamente versa il latte da una brocca, nella calma apparente di un contesto casalingo, benedetto anch’esso da un’identica luce traversa sebbene decisamente più morbida e pervasiva che filtra da una vetrata, e ci parla di uno stesso “moto” interiore; quello che spinge le due donne ad “agire”, e a farlo ciascuna secondo il proprio intendimento.

Un intento comune delle due figure che, nelle rispettive scene ideate dagli artisti, potrebbe leggersi addirittura come una sorta di allegoria, in entrambi i casi, religiosa: la determinazione e l’incrollabile fede di Giuditta come segno della virtù morale della “fortezza”, quella che

“rende capaci di vincere la paura, perfino della morte, e di affrontare la prova e le persecuzioni. Dà il coraggio di giungere fino alla rinuncia e al sacrificio della propria vita per difendere una giusta causa. «Mia forza e mio canto è il Signore » (Sal 118,14).”[3]

La parsimonia e l’attenzione con cui la lattaia esegue il suo compito, badando a non sprecare nemmeno una goccia di ciò che evidentemente è considerato un bene prezioso, rimanda direttamente alla virtù morale della “temperanza”, quella che

“modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati. Essa assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà. La persona temperante orienta al bene i propri appetiti sensibili, conserva una sana discrezione, e non segue il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio cuore.[4]

Qualcosa di fortemente rappresentativo e identitario di ciò che le due organizzazioni socio-politiche in cui Caravaggio e Vermeer operavano, ovvero rispettivamente la Chiesa cattolica e la nuova classe borghese d’Olanda, richiedevano alla società. A Roma e nel mondo cattolico, la fermezza nel seguire i precetti religiosi come fondamento della vita quotidiana; a Delft e in Olanda la cura, la moderazione nell’uso dei beni, che figurano peraltro abbondanti e corposi nella straordinaria natura morta di pani e suppellettili sul tavolo della lattaia; frutto tangibile della operosità, del successo dei commerci e delle attività produttive del paese, che per questo non andavano dissipati. Segno di un nuovo ordine sociale fondato su un modello di vita agiato ma regolato, dove non vi era posto per gli eccessi. Almeno in “apparenza”.

Il senso di verità che emana da questi due dipinti così diversi testimonia, quindi, l’ineludibile condizionamento del fattore ambientale nell’arte dei due pittori, ma anche quel filo sottile, stilistico e concettuale, che corre visibile in entrambe le produzioni come ricerca tecnica e impostazione metodologica per ottenere il massimo effetto di realismo.  E se in Caravaggio tale realismo – così come il messaggio figurativo – è reso chiaro e fulmineo, dalla composizione estremamente ravvicinata, dalle figure monumentali a grandezza naturale, e dalla luce abbagliante che irrompe sulla scena e fa deflagrare i colori – mi vengono in mente ad esempio il Martirio di san Matteo (fig. 13) o L’incredulità di San Tommaso (fig. 14) dove al riguardante non serve “immaginare” alcunché poiché tutto è assolutamente chiaro – in Vermeer invece  nulla è così esplicito.

Fig. 13 Caravaggio Martirio di San Matteo 1599-1600 Chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma
Fig. 14 Caravaggio Incredulità di San Tommaso 1601-1602 Bildergalerie von Sanssouci, Potsdam, Germania

Seosserviamo il dipinto intitolato Il bicchiere di vino (fig. 15), notiamo che il rapporto tra i protagonisti, la situazione che stanno vivendo, tutto è sottinteso; eppure tutto è assolutamente altrettanto “realistico”.

Fig. 15 Jan Vermeer Il bicchiere di vino 1659-1660 ca. Gemäldegalerie, Berlino

E questo anche se noi e l’artista, non siamo vicinissimi all’evento ma assistiamo da una certa distanza; se quel “quadro dentro il quadro” là, sulla parete in fondo, fosse uno specchio, potremmo vederci riflessi. L’artista olandese compone una realtà immaginaria usando elementi materiali e circostanze di vita reale in modo che la scena risulti plausibile; che risulti “vera” anche se “inventata”, anche se non sta realmente accadendo in quell’istante. E per farlo ci fornisce “l’illusione” di essere lì. Quella scena è evocativa di una situazione di vita “vera” di cui chiunque può immaginare lo svolgimento e l’epilogo; e può farlo perché l’artista gliene procura gli strumenti, dissemina il suo dipinto di indizi. La ragazza sta bevendo del vino mentre un uomo la osserva con interesse chiaramente lascivo, pronto a offrirgliene dell’altro. Sulla sedia, la presenza di uno strumento musicale prelude a una fase successiva del rapporto di evidente complicità tra i protagonisti, e ci lascia intuire il probabile finale…

In tal modo, il sottile gioco tra il “vero” caravaggesco e il “verosimile” vermeeriano non segna una distanza netta tra i due artisti, ma – come scrisse Roberto Longhi – testimonia una “strada […] (che) non è affatto smarrita, (ma) si è anzi fatta più larga.”[5]

E senza volermi spingere a immaginare in maniera pretenziosa una qualsivoglia ipotetica intenzione dell’artista olandese di emulare in qualche modo l’illustre collega lombardo (le cui opere verosimilmente mai vide dal vivo), che il linguaggio narrativo tra i due pittori sia ispirato da un certo “comune sentire” mi sembra rilevabile anche dalle numerose declinazioni pittoriche dello stesso soggetto presenti nei rispettivi corpus di opere. Non certo per il soggetto in sé né, tantomeno, per la destinazione d’uso dei dipinti; quanto – semmai – per l’apparente “contiguità” semantica tra le diverse interpretazioni da parte dei due artisti.

Mi riferisco, nello specifico, a soggetti che tornano spesso – per motivi certamente diversi – in Caravaggio e in Vermeer: nel primo i molti San Giovanni Battista, ad esempio, effigiati in diversi momenti e circostanze della storia sacra, mentre nel secondo le tante ragazze intente a scrivere o leggere una lettera, raffigurate più volte dal maestro olandese in svariate pose e atteggiamenti. Ebbene di queste – per così dire – serie di dipinti, due del Caravaggio e due di Vermeer mi sembrano rientrare nella casistica proposta, ovvero: per Caravaggio i due San Giovanni Battista oggi rispettivamente a Kansas City (fig. 16) e in Galleria Corsini a Roma (fig. 17),

Fig. 16 Caravaggio San Giovanni Battista 1603 ca. The Nelson-Atkins Museum of Art, Kansas City, U.S.A.
Fig. 17 Caravaggio San Giovanni Battista 1604-1606 ca. Galleria Corsini, Roma

 

per Vermeer la Ragazza che scrive una lettera (fig. 18) e la Fantesca che porge una lettera alla Signora (fig. 19) rispettivamente:

National Gallery di Washington e Frick Collection di New York.

Fig. 18 Jan Vermeer Ragazza che scrive una lettera 1665 ca. National Gallery of Art, Washington
Fig. 19 Jan Vermeer Fantesca che porge una lettera alla Signora 1667 ca. Frick Collection, New York

Sulla possibilità che i due San Giovanni di Caravaggio, così simili nella posa e certamente inseriti nel medesimo contesto scenico, si possano considerare susseguenti (e di fatto cronologicamente lo sono) mi sono più volte pronunciata, sottolineando come l’atteggiamento e l’espressività dei volti, nonché proprio il linguaggio del corpo in entrambe le figure, sembrino parlare di una successione di eventi.

Nel primo caso il turbamento del giovane santo, originato presumibilmente dalla rivelazione della propria missione, che lo immerge in una accigliata riflessione sul proprio futuro; nel secondo caso (dove molti esegeti tendono a vedere perfino lo stesso modello effigiato nel dipinto di Kansas City, mentre chi scrive scorge una certa differenza sia nei volti che nella prestanza fisica dei corpi), egli con la testa rivolta alla sua sinistra, risponde a un qualche supponibile richiamo. Ma la sua espressione, benché ancora corrucciata, appare adesso più consapevole, più acquiescente; come se fosse trascorso del tempo, avesse preso coscienza del suo ruolo nel disegno divino e lo avesse accettato. Si tratta ovviamente di un’impressione del tutto personale ma che, credo, possa avere un fondamento di verosimiglianza.

Allo stesso modo, i due dipinti di Vermeer potrebbero configurarsi come fotogrammi della stessa situazione descritta. Nel dipinto di Washington la ragazza abbigliata con una veste da camera di un giallo brillante che la impone sulla scena, nonostante le misure davvero esigue del dipinto, è colta nell’atto di scrivere una lettera e anche lei sembra rispondere a un richiamo, come se si fosse distratta un attimo accorgendosi della nostra presenza. E come in una sequenza cinematografica, nel secondo dipinto, quello di New York, la ragazza apparentemente diversa, quantomeno nell’acconciatura, ma vestita esattamente allo stesso modo dell’altra, ora rivolge il volto dal lato opposto al nostro, dove una cameriera le sta porgendo una missiva forse inattesa. Almeno così sembra indicare l’atteggiamento dubbioso della mano destra della donna a sfiorare il mento. Come se, mentre era rivolta verso di noi, la domestica fosse arrivata all’improvviso a richiamare l’attenzione della donna su qualcosa di sopravvenuto e di una certa rilevanza. Infatti anche l’atmosfera è cambiata: più luminosa e serena nel dipinto di Washington, più scura e misteriosa (potremmo dire “caravaggesca”) in quello di New York.

Sarà forse un caso che dipinti così diversi per datazione, soggetto e tecnica esecutiva si trovino “simili” nella visione concettuale dei due artisti. Ma se è chiaro che, sia i San Giovanni Battista che le ragazze intente a scrivere lettere sono da considerare soggetti “rappresentativi” delle diverse culture e contesti operativi dei due pittori, richiesti sul mercato perché di tendenza, non credo sia azzardato supporre che gli artisti, dovendo dipingere due o più volte lo stesso soggetto, non abbiano “naturalmente” concepito i loro protagonisti in situazioni conseguenti le une alle altre, come rispondendo a una logica narrativa certamente non rivolta all’osservatore (il quale mai avrebbe visto i dipinti – destinati a committenti o compratori diversi – esposti insieme uno dopo l’altro) ma che aveva luogo esclusivamente nell’immaginario del pittore. Potrebbe trattarsi quindi di uno stesso percorso descrittivo che torna in due artisti cresciuti sotto il medesimo filone stilistico del realismo, costantemente alla ricerca dei “moti dell’anima”, raccontati attraverso situazioni e atteggiamenti assolutamente “possibili”.

Ed è forse un siffatto percorso concettuale quello che accosta le rotaie fatalmente parallele di questo binario immaginato tra Caravaggio e Vermeer, affinché i due artisti possano guardarsi un po’ più da vicino. Perché forse – e ribadisco forse – non è un caso che si possa azzardare un’assonanza tra due dipinti estremamente “dissonanti” come la Vocazione di San Matteo (fig. 20) e la Donna con la bilancia (fig. 21).

Fig. 20 Caravaggio Vocazione di San Matteo 1600, Chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma
Fig. 21 Jan Vermeer Donna con la Bilancia 1664, National Gallery of Art, Washington

Sembra folle, eppure due scene così diverse in cui, però, il comune protagonista invisibile è la “scelta”, vengono immaginate dai due artisti immerse in un identico “tempo sospeso”, in un identico silenzio di riflessione amletica. Tutto è fermo, eppure il silenzio riverbera l’eco del tumulto interiore; nel ragazzo a capo chino, lacerato tra l’effimera ricchezza terrena che striscia sotto le sue dita e la promessa di un invito che lo chiama a una ricchezza impalpabile, ma eterna. E nel volto enigmatico di una donna senza nome, solenne e prudente nel sollevare quella piccola esile stadera sui cui minuscoli piattini si decidono – chissà – le sorti del mondo. Anche qui un tavolo, anche qui denari. E se fosse vera l’interpretazione di alcuni esegeti che in quella donna vedono un’allegoria della Vergine, forse si starebbe ripetendo in questo criptico dipinto il miracolo salvifico della “chiamata” di Matteo: noi e il pittore, da questa parte della scena, chiamati come tanti “Matteo” a scegliere tra i preziosi che luccicano seducenti tra ombre di panneggi sul quel tavolo massiccio, simboli di una solidità terrena effimera, e la pienezza colma di promesse di quel ventre prominente, posto sulla loro stessa linea nel piano pittorico, e investito di un fascio di luce traversa incredibilmente simile a quello che irrompe nell’ufficio del gabelliere in San Luigi dei Francesi.

Anche qui è la luce la sola diagonale “fisica” che riesca a bucare il silenzio. Anche qui, sarebbe la luce a indicare la “scelta”. Quella “scelta” che separerebbe il grano dalla pula, esattamente come al tavolo della Vocazione; e il dipinto sulla parete di fondo nel quadro di Vermeer, in questo senso, assumerebbe un carattere rivelatorio. Si tratta di un Giudizio Universale, con il Cristo giudice in alto. E la donna/Madonna, in questa scena, viene posta dall’artista – forse non a caso – esattamente nella posizione centrale che spetterebbe al San Michele Arcangelo, tradizionalmente raffigurato in quel contesto, la cui bilancia pesa le anime per separare i retti dai reprobi. La Vergine avrebbe qui un ruolo da mediatrice, l’ultimo scoglio per scegliere su quale piatto di quella bilancia vogliamo finire.

Solo un’impressione? Forse, è probabile. Ma va detto che il protestante Vermeer – contro ogni auspicabile convenienza – si era convertito e aveva sposato una donna cattolica in un paese che aveva ripudiato il cattolicesimo; e questo non è l’unico suo dipinto ove sia possibile scorgere una chiara tematica sacra che rimandi al culto della Chiesa di Roma. La più evidente è contenuta in uno degli ultimi (se non proprio l’ultimo) dipinti di Vermeer: l’Allegoria della Fede (fig. 22).

Fig. 22 Jan Vermeer Allegoria della Fede cattolica 1671-1674 ca. Metropolitan Museum of Art, New York

Un quadro che parla “cattolico”, che inneggia al culto cattolico, e che testimonia forse anche una forma di rivalsa verso una società in cui i cattolici erano appena tollerati, discriminati, e probabilmente costretti a professare il loro credo di nascosto, in luoghi reconditi, o nelle proprie case. Un quadro, peraltro, in cui – pur restando saldamente nel solco dello stile vermeeriano – c’è qualcosa (più di qualcosa) di intensamente “caravaggesco”. Il soggetto sacro anzitutto, la cui interpretazione iconologica rimanda direttamente ai simbolismi di Cesare Ripa, e si precisa nel dettaglio insolito e inquietante, per il “serafico” Vermeer, di un serpente schiacciato e sanguinante.

Sangue, rosso e denso, in un quadro di Vermeer; sangue, come in Caravaggio ma dove Caravaggio non lo aveva messo. Il serpentello sibilante che guizza impotente sotto i piedi della Vergine e del suo Bambino nella pala dei Palafrenieri (fig. 23) avverte chiaramente tutto il peso dell’ineluttabile sconfitta ma l’artista non si spinge oltre. Vermeer, invece, trasforma quel Bambino caravaggesco, piccolo ma determinante nell’opera di redenzione, in una pesante e decisiva pietra angolare che sopprime platealmente il peccato originale, il quale rotola sotto forma di una mela morsa nelle vicinanze di una supponibile Maria – nuova Eva – in posa orante verso un altare casalingo splendidamente allestito, e con il globo terrestre sotto un piede.

Fig. 23 Caravaggio Madonna dei Palafrenieri 1605, Galleria Borghese, Roma
Fig. 24 Jacob Jordaens Crocifissione 1620 Musée des Beaux-Arts, Rennes, Francia

Alle sue spalle una grande Crocifissione (fig. 24, opera di Jacob Joardaens del 1620 ca. che Vermeer possedeva) quasi nel “ruolo” di pala d’altare, ci riporta alla mente i grandi teleri sacri che impreziosirono le chiese italiane, non ultimi quelli eseguiti dal Caravaggio. E per finire, è ancora una rimembranza di sapore estremamente caravaggesco quella sfera di vetro (o cristallo) che pende sulla scena legata a una trave da un nastro blu, e che riverbera nel riflesso la fonte di luce: la finestra, l’ambiente circostante che noi non possiamo vedere. Esattamente come doveva essere nella famosa caraffa del Suonatore di Liuto dove “dentro il reflesso d’una finestra eccellentemente si scorgea, con altri ripercotimenti di quella camera dentro l’acqua”[6]. Corsi e ricorsi storici, quasi certamente involontari, di quel luminismo, di quella idea di luce rivelatrice, che viaggia nel tempo e nello spazio tra due artisti diversi, come allele di un comune DNA.

E a proposito di liuto, se c’è un’altra materia oggetto di indagine artistica, nella quale sia possibile scorgere un qualche dialogo a distanza tra Caravaggio e Vermeer, quella è certamente la musica. Diversi, per entrambi i pittori, i dipinti a tema musicale. E, prescindendo opportunamente dai rispettivi ambiti culturali che – gioco forza – ne separano le trattazioni semantiche, va sottolineato che ciascuno dei due operò in un periodo storico in cui, comunque, la musica costituiva un elemento molto diffuso in ambito artistico. Il rapporto tra pittura e poesia che nel Rinascimento era stato prevalente, virò nel Seicento verso un dialogo tra pittura e musica che ebbe carattere europeo. Non solo nature morte di strumenti musicali, ma scene di concerti e di gruppi di suonatori che, in territorio italiano come in quello olandese, costituirono i “precedenti” figurativi sia per l’uno che per l’altro artista.

Particolarmente interessanti, in questo senso, le trattazioni di Caravaggio e Vermeer di giovani intenti a produrre musica. Celeberrime le due versioni del già citato Suonatore di liuto eseguite dal maestro lombardo, oggi rispettivamente a San Pietroburgo (fig. 25) e New York (fig. 26), cui fanno eco le diverse interpretazioni di Vermeer di ragazze che suonano o accordano una chitarra.

Fig. 25 Caravaggio Suonatore di liuto 1597 ca. Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo
Fig. 26 Caravaggio ( ? ) Suonatore di liuto 1597 ca. Wildestein Collection già Metropolitan Museum, New York

Rimandi classici e raffinate atmosfere per i dipinti del Caravaggio, delicate ambientazioni domestiche in Vermeer, fanno di questi dipinti dei campioni paradigmatici dei relativi contesti culturali, ma non solo.

Ciò che “tiene insieme” le visioni dei due artisti è anzitutto l’estremo realismo nella resa naturalistica degli strumenti musicali e degli altri elementi materiali delle composizioni, attraverso l’uso dei colori e della luce. Ma c’è anche, credo, un analogo clima di letizia che pervade questi dipinti, come se il tempo trascorso facendo musica, nell’immaginario dei due artisti, avesse il potere di confortare e rasserenare; non solo i soggetti effigiati ma anche e – direi soprattutto – i riguardanti. Nella Suonatrice di chitarra della Kenwood House di Londra (fig. 27) e nella Suonatrice di liuto al Metropolitan Museum di New York (fig. 28), torna la tipologia di giovane donna borghese con la veste da camera gialla, immersa nell’ovattata atmosfera di una stanza.

Fig. 27 Jan Vermeer Suonatrice di chitarra 1672 ca., Kenwood House, Londra
Fig. 28 Jan Vermeer Suonatrice di liuto 1664, Metropolitan Museum of Art, New York

Sorridono, entrambe, rivolte ora a un immaginario interlocutore fuori dallo spazio pittorico, ora al grande “mondo di fuori” quello oltre l’onnipresente finestra.

A differenza dei suonatori del Caravaggio, esse non ci guardano, ma l’invito all’ascolto, alla partecipazione a quel momento così magico, è avvertibile esattamente come il canto che sibila leggero dalle labbra del ragazzo di San Pietroburgo. D’altra parte la nostra postazione di ascolto è identica, tanto nei dipinti di Vermeer quanto in quelli del Merisi; quella invisibile “quarta parete” ci pone al cospetto delle scene, spettatori attivi e interattivi, come da precisa intenzione degli artisti.

Ed è forse in virtù di questa nostra sottintesa e “richiesta” attività partecipativa, che ci è dato scorgere particolari simbolismi in scene che dal punto di vista tecnico, sia in Caravaggio che in Vermeer, si possono definire giustamente “di genere”; poiché non raffigurano eventi storici, mitologici o religiosi ma situazioni di vita quotidiana affidate a personaggi anonimi. E se in Caravaggio metafore, allusioni e varie allegorie sono più facilmente intuibili e rintracciabili, conoscendo quanto gradito fosse negli ambienti ecclesiali (e non solo) un carattere moralizzante in quel tipo di rappresentazioni (a Roma a quel tempo ancora poco diffuse), in Vermeer il “rebus” si fa più intrigante, nonostante l’apparente evidenza dell’evento raffigurato, quanto più gli elementi costitutivi del dipinto appaiono “ovvi” o, tutt’al più, casuali. La soluzione – ma sarebbe meglio dire l’ipotesi di soluzione – è individuabile spesso nel soggetto particolare di quell’elemento apparentemente solo scenico, in Vermeer, che è il “quadro nel quadro”; com’è accaduto nella succitata Donna con la bilancia; o come potrebbe vedersi nel piccolo Cupido con una carta da gioco in mano, che campeggia sul muro alle spalle dalla Signora in piedi alla spinetta (fig. 29), dove il messaggio subliminale ispirato dall’amore che sempre si accompagna alla musica, è che si dovrebbe amare una sola persona.

Fig. 29 Jan Vermeer Signora in piedi alla spinetta 1672, National Gallery, Londra
Fig. 30 Jan Vermeer Signora seduta alla spinetta 1675, National Gallery, Londra

E a quest’ultimo dipinto fa da contraltare l’identico soggetto, la Signora (questa volta) seduta alla spinetta (fig. 30), vestita dello stesso abito ma con un volto diverso, la cui espressione più “frivola” fa pensare a una musica d’altro tono e rimanda direttamente al quadro appeso alla sua destra; una Mezzana (1622) di Dirck van Baburen (fig. 31), in cui l’allusione a un amore in questo caso più libertino è piuttosto palese.

Fig. 31 Dirck van Baburen, La Mezzana, 1622, Boston Museum of fine Arts

Allo stesso modo risulta piuttosto chiaro, in Caravaggio, il segnale di pericolo, per l’anima e non solo, nell’assecondare le lusinghe di una giovane, ammaliante zingarella nella celeberrima Buona ventura (nelle due versioni dei Musei Capitolini e del Louvre, figg. 32-33);

Fig. 32 Caravaggio La buona ventura 1596-1597 ca. Musei Capitolini, Roma
Fig. 33 Caravaggio La buona ventura 1596-1597, Museo del Louvre, Parigi

insidia che torna anche nella gradevole apparenza di un gioco di carte nei Bari (fig. 34);

Fig. 34 Caravaggio I bari 1596-1597 ca. Kimbell Art Museum, Fort Worth, Texas, U.S.A.

o le tante possibili letture “cristologiche” di svariati altri dipinti, in apparenza non attinenti a tematiche religiose. Parliamo della magnifica Canestra di frutta della Pinacoteca Ambrosiana (fig. 35),

Fig. 35 Caravaggio Canestra di frutta 1598-1600 ca., Pinacoteca Ambrosiana, Milano
Fig. 36 Caravaggio Ragazzo con canestra di frutta 1597 ca., Galleria Borghese, Roma

mirabile virtuosismo naturalistico del Merisi, in bilico sul presumibile baratro della vita col suo carico di biasimevole vanitas, dove la varietà di frutti rimanda ad altrettante simbologie del Vecchio e del Nuovo Testamento, e dove Calvesi vide addirittura una prefigurazione di Cristo stesso, “Fructus” di Dio donato agli uomini. Ma la stessa tipologia di canestra, raffigurata in braccio a un languido ragazzo del popolo (fig. 36), quasi il garzone di un fruttivendolo, si pone come emblematica di un più mitologico Vertumno.

La simbologia si conferma elemento primario in entrambi gli artisti; all’osservatore essi lasciano il compito, e credo anche il gusto, di scoprirne i significati reconditi.

Ma se dovessi cercare un dipinto “manifesto” in Caravaggio e in Vermeer che li “accomuni” in qualche modo, sceglierei due quadri che più diversi non si può ma dove la convergenza concettuale, nel dato realistico e nell’intenzione di raggiungerne il grado massimo sia dal punto di vista pittorico che evocativo, è molto simile e fortemente rilevabile. Parlo della straordinaria Crocifissione di San Pietro in Santa Maria del Popolo (fig. 37) per il maestro lombardo, e di quel minuscolo, incredibile capolavoro che è la Merlettaia di Vermeer conservata al Louvre (fig. 38).

Fig. 37 Caravaggio Crocifissione di San Pietro 1601-1605 ca., Basilica di santa Maria del Popolo,
Fig. 38 Jan Vermeer La merlettaia 1669-1670 ca., Museo del Louvre, Parigi

Al di là delle proporzioni dei due quadri e delle scene totalmente diverse, quello che rilevo di comune evidenza è la trattazione assolutamente “naturalistica” nei personaggi delle loro rispettive occupazioni. Gli aguzzini del Caravaggio impegnati in un lavoro faticoso, improbo, ma al quale si dedicano con impegno ed efficienza, sono abili operai della morte; governano con destrezza i loro strumenti di tortura, quello è il loro mestiere e lo svolgono come è loro richiesto. La signora borghese del Vermeer, assorta nel suo delicato lavoro di tombolo, esprime tutta la grazia che si immagina in una donna della sua estrazione sociale, l’attenzione e la precisione che una tale attività necessita da parte di chi la padroneggia; conoscenza perfetta dei minuti materiali e della tecnica esecutiva fanno di lei il contraltare perfetto agli aguzzini del Caravaggio, ma nella comune resa evocativa: una leggiadra signora olandese e un manipolo di torturatori romani, personaggi anonimi, astratti, senza una precisa connotazione “umana” nel mondo, semplicemente rappresentano il prototipo di se stessi. Essi esistono in quanto rappresentano la loro attività, sono “idee” raffigurate come “azioni”.

Tanti, dunque, i punti di possibile convergenza in due forme d’arte così distanti, in due pittori la cui concezione della realtà dipende in gran parte dal contesto ambientale che li ha forgiati. Una realtà violenta, a tratti drammatica, quella in cui si muove Caravaggio, e che lo costringe “naturalmente” a una percezione “larga”, immediata, vivida, fatta di colori intensi e lampi di luce, di pennellate lunghe e pastose, di forme plastiche cavate “vive” da un buio ancestrale. Mentre è un mondo di serenità conquistata che si fa stile di vita, che diventa una vera e propria cultura, invece, quello di Vermeer. Un mondo fatto di interni domestici, osservati con discrezione, pervasi di “sovrumani silenzi e profondissima quiete”, dove il buio non esiste, dove anche l’ombra è propedeutica a una luce morbida, dove anche l’aria sa di luce. Ed essa gonfia di chiarore corpi e tessuti, ora come grumi di colore rappreso, ora come punti di straordinario lucore, che sembrano sfaldare la materia pittorica in una visione quasi impressionistica, che riesce a rendere “monumentali” figure di dimensioni ridottissime.

Caravaggio e Vermeer che creano entrambi in spazi chiusi, lontano da occhi indiscreti, lontano dai turbamenti che lacerano il mondo. Che pure è là fuori, e Caravaggio lo vive, lo sente urlare, scalpitare di attività, di mestieri, di miracoli e di orrori. E poi lo dipinge, così come lo ha osservato, come lo ha “sentito”. Tirandolo fuori dall’oscurità di un atelier dove le finestre non sono che invisibili riflettori di luce traversa ai comandi del pittore. Mentre le finestre di Vermeer non si celano agli sguardi, ma si offrono manifeste come raccordo tra la realtà “vera” e quella “inventata” dall’artista. Esse sono il solo filtro tra il moto perpetuo del mondo di fuori e la vita che scorre placida, dentro, e attende…

Caravaggio e Vermeer, l’esplosione e la carezza. Caravaggio e Vermeer da osservare dalla distanza che essi hanno stabilito per noi; dalla prima fila di una platea immaginaria o da dietro un arazzo scostato. Perché possiamo cogliere a metà strada quel filo sottile che li lega nel tempo, tra luce, ombra e realtà.

©Francesca SARACENO Catania  21 luglio 2024

NOTE

[1] Giulio Mancini Considerazioni sulla pittura, Adriana Marucchi con il commento di Luigi Salerno, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1956-1957, vol. I, p. 97
[2] Roberto Longhi Studi Caravaggeschi, Abscondita 2017, Carte d’artisti n. 174, p. 90
[3] Catechismo della Chiesa Cattolica, Parte terza: La vita in Cristo, sezione prima. La vocazione dell’uomo: La vita nello spirito. Capitolo primo: La dignità della persona umana, articolo 7: Le virtù. Distinzione delle Virtù Cardinali, 1808, p.501
[4] Ibidem, 1809.
[5] R. Longhi, op., cit., p. 94
[6] Giovanni Baglione Le vite de’ pittori, scultori et architetti dal pontificato di Gregorio XIII fino a tutto quello d’Urbano VIII, Vita di Michelagnolo da Caravaggio pittore, in Roma, Nella Stamperia d’Andrea Fei. 1642, Con licenza de’ Superiori, p.136.